giovedì 6 settembre 2018

La Stampa 6.9.18
Una lettera del giallista greco all’amico scomparso, il regista Theo Anghelopoulos
“Caro Theo, per fortuna non puoi vedere i muri che stanno crescendo in Europa”
di Pétros Màrkaris


Mio caro amico Theo,
sono passati più di sei anni dalla tua morte, ed è la prima volta che sento il bisogno di scriverti. Sono certo che tu sarai in grado di capire meglio di chiunque altro quanto sto per dirti.
Negli ultimi mesi, mentre seguo il dramma dei profughi in Grecia e nel resto d’Europa, la mia mente torna continuamente al tuo film, Il passo sospeso della cicogna. Ricordo quel che mi avevi detto quando discutevamo della sceneggiatura: l’immigrazione sarebbe stato il più grande problema del nostro tempo. La tua previsione si è rivelata giusta.
Prima di scriverti questa lettera ho deciso di rivedere un’altra volta il film. Mentre scorrevano le immagini pensavo alla prima proiezione e a come seguivamo, muti, il dramma dei migranti. La tua previsione si è rivelata giusta, ma l’odissea che racconta il film sembra quasi una carezza paragonata al dramma che vivono i profughi, oggi.
Ho sentito ancora una volta il protagonista del film chiedersi: «Quanti confini dovremo attraversare per arrivare alle nostre case?». E ho rivisto il giornalista che, mentre se ne sta con il passo sospeso sul confine, dice che, toccando terra con il piede, si troverebbe in un’altra nazione. [...]
Ogni profugo e ogni immigrato che riesca a farsi accettare in un qualche stato d’Europa, vive in una minoranza, Theo. E anch’io sono cresciuto nella minoranza di lingua greca di Istanbul, e so che cosa significa vivere in una minoranza. Sento, intorno a me, molte persone che sono nate lì dove vivono e molte altre che vi si sono trasferite, parlare di cultura multietnica e, ultimamente, del suo fallimento. Io sono cresciuto in una città multietnica con tre grandi minoranze: quella greca, romèiki, come si usa dire a Costantinopoli, quella armena e quella ebraica. Accanto a loro esisteva anche un’altra minoranza, più piccola: quella italiana.
So per esperienza personale che la cultura multietnica è una chimera. Quel che esiste è la società multietnica. Tutte queste minoranze erano comunità che vivevano l’una accanto all’altra, ognuna chiusa in sé stessa, senza contatti né con la maggioranza turca, né con le altre comunità. La loro integrazione, di cui tutti parlano, era un’integrazione che durava «la giornata», si realizzava cioè sul posto di lavoro e nei rapporti economici. Per il resto, la vita sociale era rigidamente limitata e si svolgeva all’interno della stessa minoranza. E non parlo di minoranze che si sono trovate a vivere insieme negli ultimi trenta o quaranta anni, ma di comunità che vivevano da secoli nella stessa città.
Dato che nel film L’eternità e un giorno ci siamo occupati a lungo del poeta Solomós, ricorderai senz’altro le sue parole: «Non ho altro in mente se non lingua e religione».
Tutte le minoranze difendono con passione la loro lingua e la loro religione, che consiste non solo di fede, ma anche di valori e di tradizioni. L’isolamento e la chiusura verso l’esterno contribuiscono alla conservazione della lingua, dei valori e delle tradizioni.
Così avrebbe vissuto il protagonista del tuo Passo sospeso della cicogna se fosse giunto, infine, a «casa sua»: chiuso in una comunità insieme ai suoi compatrioti. Perché, purtroppo, alla lingua, ai valori e alle tradizioni si aggiunge la paura e l’incertezza del profugo o dell’emigrante in terra straniera. L’unico suo riparo sta nei suoi compatrioti, che hanno il suo stesso modo di vivere, le sue stesse abitudini, le stesse tradizioni. Per questo fugge il più possibile il contatto con la cultura dominante, ossia la cultura della maggioranza, perché teme che lo potrebbe condurre in territori a lui ignoti.
Forse, i figli del protagonista, e ancora più probabilmente i suoi nipoti, che studieranno nelle scuole di quel paese, ne impareranno la lingua e si troveranno ogni giorno a contatto con la cultura della maggioranza, potranno uscire dall’isolamento delle minoranze e fare il loro ingresso nella società del paese che li ospita.
Tutto ciò, a Istanbul, non era possibile, dato che ogni minoranza conosceva soltanto la sua lingua, e ciò che la separava dalla maggioranza era il profondo divario del nazionalismo, oltre alle ferite aperte del passato. Ma siamo sinceri. Anche chi è del posto desidera che gli «ospiti» restino isolati. Se è inevitabile che vivano nella stessa città, allora si cercherà di mettere tra i due gruppi la massima distanza possibile. Cosa che desiderano anche le forze di polizia. Se i profughi e gli immigrati vivono isolati in un ghetto, allora sarà anche molto più facile tenerli sotto controllo. Ecco cosa direi al protagonista e giornalista del tuo film, se li incontrassi oggi.
Theo, abbiamo origini completamente diverse, veniamo da famiglie diverse e abbiamo avuto esperienze giovanili e adolescenziali diverse. Tuttavia, siamo stati legati da un’amicizia che è durata quarant’anni. Ci siamo conosciuti ai tempi della giunta militare, e in quell’ambiente abbiamo collaborato al tuo secondo film, Giorni del ’36. Erano tempi duri, specialmente per la letteratura e per l’arte, ma avevamo almeno la soddisfazione di non esserci piegati, di non esserci arresi.
Oggi viviamo nell’Unione Europea, che è formata da nazioni governate democraticamente. I muri, oggi, non vengono innalzati da qualche dittatura, ma dai governi dei paesi democratici. E l’ingresso in questi paesi non è vietato ai dissidenti, come accadeva ai tempi della dittatura dei colonnelli, ma a persone e a famiglie che abbandonano il loro paese per salvarsi la vita.
L’Europa ha conosciuto molte epoche nella sua storia: il Rinascimento, la Rivoluzione industriale, la Rivoluzione francese, l’Illuminismo. Ho molta paura che l’epoca che stiamo vivendo oggi passerà alla storia d’Europa come «Epoca dell’Ipocrisia».
Amico Theo, mi manchi molto. D’altro canto, mi consolo perché non sei costretto a vivere in questi tempi miserabili. So quanto ne soffriresti.
Il tuo amico Pétros
Traduzione di Andrea Di Gregorio