giovedì 6 settembre 2018

La Stampa 6.9.18
Una lettera del giallista greco all’amico scomparso, il regista Theo Anghelopoulos
“Caro Theo, per fortuna non puoi vedere i muri che stanno crescendo in Europa”
di Pétros Màrkaris


Mio caro amico Theo,
sono passati più di sei anni dalla tua morte, ed è la prima volta che sento il bisogno di scriverti. Sono certo che tu sarai in grado di capire meglio di chiunque altro quanto sto per dirti.
Negli ultimi mesi, mentre seguo il dramma dei profughi in Grecia e nel resto d’Europa, la mia mente torna continuamente al tuo film, Il passo sospeso della cicogna. Ricordo quel che mi avevi detto quando discutevamo della sceneggiatura: l’immigrazione sarebbe stato il più grande problema del nostro tempo. La tua previsione si è rivelata giusta.
Prima di scriverti questa lettera ho deciso di rivedere un’altra volta il film. Mentre scorrevano le immagini pensavo alla prima proiezione e a come seguivamo, muti, il dramma dei migranti. La tua previsione si è rivelata giusta, ma l’odissea che racconta il film sembra quasi una carezza paragonata al dramma che vivono i profughi, oggi.
Ho sentito ancora una volta il protagonista del film chiedersi: «Quanti confini dovremo attraversare per arrivare alle nostre case?». E ho rivisto il giornalista che, mentre se ne sta con il passo sospeso sul confine, dice che, toccando terra con il piede, si troverebbe in un’altra nazione. [...]
Ogni profugo e ogni immigrato che riesca a farsi accettare in un qualche stato d’Europa, vive in una minoranza, Theo. E anch’io sono cresciuto nella minoranza di lingua greca di Istanbul, e so che cosa significa vivere in una minoranza. Sento, intorno a me, molte persone che sono nate lì dove vivono e molte altre che vi si sono trasferite, parlare di cultura multietnica e, ultimamente, del suo fallimento. Io sono cresciuto in una città multietnica con tre grandi minoranze: quella greca, romèiki, come si usa dire a Costantinopoli, quella armena e quella ebraica. Accanto a loro esisteva anche un’altra minoranza, più piccola: quella italiana.
So per esperienza personale che la cultura multietnica è una chimera. Quel che esiste è la società multietnica. Tutte queste minoranze erano comunità che vivevano l’una accanto all’altra, ognuna chiusa in sé stessa, senza contatti né con la maggioranza turca, né con le altre comunità. La loro integrazione, di cui tutti parlano, era un’integrazione che durava «la giornata», si realizzava cioè sul posto di lavoro e nei rapporti economici. Per il resto, la vita sociale era rigidamente limitata e si svolgeva all’interno della stessa minoranza. E non parlo di minoranze che si sono trovate a vivere insieme negli ultimi trenta o quaranta anni, ma di comunità che vivevano da secoli nella stessa città.
Dato che nel film L’eternità e un giorno ci siamo occupati a lungo del poeta Solomós, ricorderai senz’altro le sue parole: «Non ho altro in mente se non lingua e religione».
Tutte le minoranze difendono con passione la loro lingua e la loro religione, che consiste non solo di fede, ma anche di valori e di tradizioni. L’isolamento e la chiusura verso l’esterno contribuiscono alla conservazione della lingua, dei valori e delle tradizioni.
Così avrebbe vissuto il protagonista del tuo Passo sospeso della cicogna se fosse giunto, infine, a «casa sua»: chiuso in una comunità insieme ai suoi compatrioti. Perché, purtroppo, alla lingua, ai valori e alle tradizioni si aggiunge la paura e l’incertezza del profugo o dell’emigrante in terra straniera. L’unico suo riparo sta nei suoi compatrioti, che hanno il suo stesso modo di vivere, le sue stesse abitudini, le stesse tradizioni. Per questo fugge il più possibile il contatto con la cultura dominante, ossia la cultura della maggioranza, perché teme che lo potrebbe condurre in territori a lui ignoti.
Forse, i figli del protagonista, e ancora più probabilmente i suoi nipoti, che studieranno nelle scuole di quel paese, ne impareranno la lingua e si troveranno ogni giorno a contatto con la cultura della maggioranza, potranno uscire dall’isolamento delle minoranze e fare il loro ingresso nella società del paese che li ospita.
Tutto ciò, a Istanbul, non era possibile, dato che ogni minoranza conosceva soltanto la sua lingua, e ciò che la separava dalla maggioranza era il profondo divario del nazionalismo, oltre alle ferite aperte del passato. Ma siamo sinceri. Anche chi è del posto desidera che gli «ospiti» restino isolati. Se è inevitabile che vivano nella stessa città, allora si cercherà di mettere tra i due gruppi la massima distanza possibile. Cosa che desiderano anche le forze di polizia. Se i profughi e gli immigrati vivono isolati in un ghetto, allora sarà anche molto più facile tenerli sotto controllo. Ecco cosa direi al protagonista e giornalista del tuo film, se li incontrassi oggi.
Theo, abbiamo origini completamente diverse, veniamo da famiglie diverse e abbiamo avuto esperienze giovanili e adolescenziali diverse. Tuttavia, siamo stati legati da un’amicizia che è durata quarant’anni. Ci siamo conosciuti ai tempi della giunta militare, e in quell’ambiente abbiamo collaborato al tuo secondo film, Giorni del ’36. Erano tempi duri, specialmente per la letteratura e per l’arte, ma avevamo almeno la soddisfazione di non esserci piegati, di non esserci arresi.
Oggi viviamo nell’Unione Europea, che è formata da nazioni governate democraticamente. I muri, oggi, non vengono innalzati da qualche dittatura, ma dai governi dei paesi democratici. E l’ingresso in questi paesi non è vietato ai dissidenti, come accadeva ai tempi della dittatura dei colonnelli, ma a persone e a famiglie che abbandonano il loro paese per salvarsi la vita.
L’Europa ha conosciuto molte epoche nella sua storia: il Rinascimento, la Rivoluzione industriale, la Rivoluzione francese, l’Illuminismo. Ho molta paura che l’epoca che stiamo vivendo oggi passerà alla storia d’Europa come «Epoca dell’Ipocrisia».
Amico Theo, mi manchi molto. D’altro canto, mi consolo perché non sei costretto a vivere in questi tempi miserabili. So quanto ne soffriresti.
Il tuo amico Pétros
Traduzione di Andrea Di Gregorio

Corriere 6.9.18
Il mestiere perduto
Opposizione senza vere proposte
di Sabino Cassese


E l’opposizione, dov’è l’opposizione? Una domanda che dobbiamo porci non perché preoccupati dell’afonia della «sinistra» (Forza Italia è a bagnomaria, metà opposizione, metà legata al governo), o solo perché oggi il governo può agire indisturbato, come ha efficacemente rilevato ieri Antonio Polito, ma perché senza dialettica maggioranza-opposizione non c’è democrazia. Questa dialettica è tanto importante per la democrazia quanto libere elezioni. Come ha osservato, scrivendo quasi un secolo fa, Hans Kelsen, la democrazia consiste nel «mettere la conquista del potere in pubblica gara», una gara che comincia nelle urne e continua nelle aule parlamentari, dove la minoranza contesta la maggioranza, la tiene sotto controllo, con uno sguardo rivolto al Paese e alle prossime elezioni.
Quale momento migliore di questo, perché l’opposizione faccia il mestiere che le è proprio? Un governo con due timonieri, in costante concorrenza, con forze politiche che tirano in direzioni opposte e risorse scarse da spartire, con difficili scelte da fare. Ebbene la minoranza non solo non propone alternative, ma non trova neppure la forza di far sentire la propria voce. Sa solo distinguersi, definirsi negativamente («no al razzismo», «con l’Italia che non ha paura»), non sa identificarsi con una politica, è incapace di interpretare bisogni diffusi e proporre degli ideali.
Q uesta afonia, questa atonia, derivano dalla sconfitta elettorale, che ha tramortito, o dalla disunione, ovvero dall’assenza di un leader riconosciuto?
Vorrei azzardare una spiegazione più radicale. La sinistra (e il centrosinistra) attraversa una crisi esistenziale, che deriva dall’esaurimento della sua spinta ideale, quella che l’ha mossa negli ultimi 70-80 anni, a partire dal 1942.
Facciamo un passo indietro. Nel 1942 il laburista inglese Beveridge pubblica il suo «piano», ispirato all’idea di liberare uomini e donne dal bisogno. Era una geniale reinterpretazione della critica marxiana dell’eguaglianza borghese come eguaglianza solo formale.
Rendeva concreto l’ideale di rendere sostanzialmente eguali, ai punti di partenza, gli uomini, liberandoli dalla schiavitù dell’ignoranza, delle malattie, della disoccupazione e dell’assenza di reddito una volta cessato il lavoro. Nell’ultimo anno del fascismo persino sui giornali italiani si parlò di questa che allora sembrò una prospettazione visionaria. Di essa si impadronirono pochi costituenti illuminati, che la calarono nella Costituzione, dove, tuttavia, rimase come una promessa.
Su quella promessa ha costruito la sinistra italiana (anche quella democristiana) la sua forza e i suoi successi: scuola dell’obbligo, servizio sanitario, cassa integrazione, sistema pensionistico, per fare solo gli esempi principali.
Questi obiettivi ideali, che sono andati ampliandosi per strada (lo Stato del benessere), sono stati la «raison d’être» della sinistra, delle sue due correnti ideali, quella popolare e quella socialista. Ma questi obiettivi sono ora realizzati (in molti settori male, in altri in modo incompleto) ed altre preoccupazioni, altri bisogni, altre aspirazioni si affacciano, e richiedono chi li interpreti e distingua tra le pulsioni quotidiane e le aspettative di lungo periodo.
È qui che l’attuale minoranza appare incapace non solo di proporre, ma anche di contrapporsi.
Non è un fattore di consolazione la circostanza che in una analoga situazione si trovino le altre forze che in passato si sono ispirate, in altri Paesi, agli stessi principi socialdemocratici, come i laburisti britannici, ora guidati da un estremista o gli inconsistenti socialisti francesi o svedesi.
Anzi questo dovrebbe ulteriormente preoccupare, perché porta a concludere che la crisi esistenziale non è solo italiana, ma generale.

Repubblica 6.9.18
Il dinamismo immobile
di Michele Ainis


C’è sempre un rischio quando fai le cose: il rischio di toppare. Ma se non fai, non sbagli. Ecco, è esattamente questa la specifica virtù del governo giallo-verde: un dinamismo immobile, mettiamola così. Berlusconi, nel 2008, battezzò il governo del fare; dieci anni dopo Conte ha inaugurato il governo del faremo. E del parliamo, bisogna altresì aggiungere. Perché in questi mesi una nuvola di parole si è depositata dentro i nostri timpani. Uno smog compatto d’annunci, di polemiche, di dichiarazioni ossessive e compulsive. Un giorno Salvini battaglia con Macron, il giorno dopo Di Maio incrocia le lame con il commissario europeo Oettinger, e intanto Toninelli sbuffa contro i Benetton, e intanto Salvini risbuffa contro Fico, e intanto s’alza un vocio confuso sulle pensioni d’oro o sull’Air Force Renzi.
Diciamolo: stargli dietro è una fatica. Ma quanti provvedimenti, quante decisioni contundenti zampillano fin qui dal nuovo esecutivo? Il conto è presto fatto: 17 sedute del Consiglio dei ministri, però le prime quattro destinate alla nomina di vicepresidenti e sottosegretari, un altro paio per lo stato d’emergenza a Genova. Ne restano quindi una decina, a occhio e croce. Durante le quali il governo ha varato 6 decreti legge, non uno di più. O meglio uno soltanto: il decreto Dignità, caro ai 5 Stelle. Negli altri casi giravano milleproroghe o milletribunali.
Dopo di che s’aggiungono 17 decreti legislativi, tutti però ornati di quisquilie: per esempio sui requisiti tecnici dei natanti, sulle competenze dei Vigili del fuoco, sul casellario giudiziale. Decreti che correggono decreti, o che altrimenti offrono attuazione a un pugno di direttive europee, senza tuttavia fabbricare nuove norme, nuove soluzioni. E nessun disegno di legge nei primi cento giorni di governo, se non quello — dovuto — per il bilancio dello Stato, o per qualche ratifica d’accordi internazionali.
Una volta Angelo Falzea, grande luminare del diritto civile, salutò così la monografia firmata da un suo allievo: « Che libro felice, nessuno potrà criticarlo: non dice nulla! » . Da qui la chiave del successo, del perdurante consenso popolare che sta accompagnando questa prova di governo. Da un lato, attinge a un’esperienza antica quanto l’uomo: se fai una nomina, se dispensi un provvedimento di favore, ne otterrai in cambio molti nemici e un ingrato. Meglio star fermi, meglio non offrire munizioni all’avversario. Dall’altro lato, la strategia del nuovo esecutivo deriva dal surplus d’attese e di promesse innescate durante la campagna elettorale. 50 miliardi per la flat tax, 8 per sbarazzarsi della legge Fornero, 17 per il reddito di cittadinanza: come si fa? Si fa appellandosi all’arte del rinvio, su cui la Democrazia cristiana aveva costruito i suoi successi. La fretta genera l’errore, diceva il saggio Erodoto.
Sicché l’orizzonte temporale si dilata, s’allunga verso l’arco della legislatura. Il ministro Tria comunica « l’avvio » delle misure elencate nel contratto di governo: l’anno prossimo, o forse l’anno dopo ancora. Salvini aveva promesso l’abolizione delle accise sulla benzina nella prima riunione del Consiglio dei ministri, ma adesso dice che se ne parlerà a Natale. Rinvio di sei mesi della fatturazione elettronica per i carburanti. Rinvio del rinvio sull’Ilva. Nulla di fatto sul gasdotto Tap, che l’incauto Di Battista voleva bloccare in quindici giorni. Né sul salvataggio di Alitalia, sugli sgravi per le partite Iva, sulla mitica pace fiscale. Quanto al reddito di cittadinanza, s’annunzia unicamente qualche rinforzo alla cassa integrazione. Il reddito verrà, per il momento accontentiamoci della cittadinanza.
Da qui la doppia cifra dell’esecutivo Conte: ordinaria amministrazione, straordinaria comunicazione. Che picchia come grandine in testa agli avversari, ma pure agli alleati. Con un contenzioso permanente fra Lega e 5 Stelle sulle nazionalizzazioni, sui migranti, sulla legittima difesa, sulle grandi opere pubbliche, sui tagli alle pensioni. Sicché il cerchio si chiude: lassù c’è un governo che è anche opposizione, senza mai offrire agli altri uno straccio di provvedimento cui fare opposizione.

Repubblica 6.9.18
Il futuro dell’Occidente
L’Aventino di massa
di Wlodek Goldkorn


E se il futuro di quello che chiamiamo l’Occidente fosse un modello di società perennemente divisa in due parti; da un lato, una maggioranza che aderisce alle parole d’ordine e accetta come verità le narrazioni dei populisti e sovranisti, fake news comprese; e dall’altro una minoranza, circa un terzo della popolazione che invece ha scelto una specie di Aventino di massa? E se questo fosse l’avvenire che attende l’Italia?
Spieghiamoci e prendiamo come esempio tre Paesi, pur con tutte le differenze tra di loro: Polonia, Israele e Ungheria. Dei loro rispettivi governi possiamo dire che sono appunto sovranisti; hanno eletto come nemico e avversario le Ong; esaltano l’importanza dell’identità nazionale intesa come appartenenza etnica e via elencando. E le opposizioni? A prima vista, soprattutto nei social media, ma anche nei giornali, coloro che sono contrari ai governi e ai loro linguaggi continuano a mettere i concittadini e l’opinione pubblica internazionale in guardia per la deriva autoritaria in atto. Ma brutalmente: nessuno (nel caso di Israele escludiamo i territori occupati, parliamo solo dei cittadini) viene gettato in galera per le opinioni professate; i media di proprietà privata agiscono in libertà; nelle università di Stato i docenti eterodossi continuano a formare gli allievi. Il fatto è questo: un terzo della popolazione polacca, ungherese, israeliana, quel 33 per cento degli uomini e donne che mal sopportano l’idioma e la prassi dei governi, continua a vivere in una realtà parallela, in una bolla, una specie di "emigrazione interna" di massa.
C’è un mondo altro, rispetto all’universo cui aderisce la maggioranza, dove si svolge una vita altra rispetto al resto del Paese, una vita condotta come se il potere e il suo linguaggio non esistesse. È una vita non molto pericolosa e caratterizzata perfino dal territorio. Immuni al sovranismo sono le grandi città: Varsavia e Danzica; Tel Aviv e Budapest. In quei conglomerati urbani c’è un ceto medio composto da intellettuali, artisti, giovani, che riesce a esercitare ancora una certa egemonia culturale. Ci sono, in ognuna di queste città, zone di ritrovo (a Varsavia Plac Zbawiciela, piazza del San Salvatore; a Tel Aviv l’area di via Shenkin e Boulevard Rothschild; a Budapest la zona Sud-Ovest) dove si va a vedere i propri simili, dal vivo, quasi per creare una massa, una specie di epifania di alterità, opposta al linguaggio dominante: compreso il fatto che ci si muove in bici, mai con l’automobile. In quei luoghi, perfino i cibi consumati sono diversi, più globalizzati, rispetto ai pasti che consuma il resto del Paese. In Polonia, il regime ama parlare con disprezzo di coloro che mangiano polpi e bevono prosecco; e sottolinea che la Polonia appunto non dovrebbe essere un "Paese di ciclisti e vegetariani".
I bevitori del prosecco hanno i propri media di riferimento. In Polonia, Gazeta Wyborcza, ancora ( sebbene in crisi) il principale quotidiano del Paese; e poi Oko press, un sito internet che smaschera le menzogne del potere; un’emittente tv, Tvn; In Israele, Haaretz e poi Channel 10 della tv; e un sito di debunker, thewhistle. co. il. Molti seguono la Bbc. In Ungheria, i quotidiani dell’opposizione hanno chiuso, ma ci sono settimanali letti da chi non ama il potere, e una serie di pubblicazioni online, come Direkt 36 e qualche giornale locale. In tutti questi Paesi, il terzo della popolazione estraneo all’idioma del potere si ritrova agli spettacoli dei teatri all’avanguardia con un repertorio di forte segno politico, segue festival di cinema dove si proiettano film di contestazione, sebbene artistica, dello stato esistente di cose; partecipa ai concerti di rock star trasgressive, anche se ormai attempate; compra libri pubblicati da editori dai determinati gusti culturali.
Certo, periodicamente, sorgono spontanei movimenti di massa e si scende in piazza ( in Polonia sono le donne l’avanguardia). Ma sono momenti di gloria, per il resto quel terzo della popolazione ha abbandonato l’idea di avere una rappresentanza politica in grado di vincere le elezioni e conquistare il potere. Le opposizioni sono divise e in preda a rivalità personali e poco comprensibili. Ma in fondo, nella bolla, la vita è comoda e spesso agiata. Sarà questa l’Italia dei prossimi anni?

il manifesto 6.9.18
Diritto alla casa, il rovesciamento della Costituzione
di Francesco Pallante


Benché la Costituzione non proclami espressamente il diritto alla casa, dottrina e giurisprudenza non dubitano che dal complesso della Carta fondamentale emergano sicure indicazioni sull’esistenza di tale diritto.
La riflessione degli studiosi è articolata nel merito, ma che l’esigenza di avere un’abitazione sia coperta dal dettato costituzionale è oggetto di unanime riconoscimento. Valgano per tutti le esemplari considerazioni di Temistocle Martines: «L’abitazione costituisce punto di riferimento di un complesso sistema di garanzie costituzionali, e si specifica quale componente essenziale (oltre che presupposto logico) di una serie di “valori” strettamente legati a quel pieno sviluppo della persona umana che la Costituzione pone a base della democrazia sostanziale». Tali valori – precisa ancora l’Autore – sono la famiglia, la scuola, la salute e il lavoro: nessuno di questi sarebbe pensabile se mancasse il presupposto di una casa in cui vivere.
Per la giurisprudenza, punto di riferimento sono le sentenze della Corte costituzionale numero 49 del 1987, numero 217 e numero 404 del 1988, nelle quali si trova proclamata l’esistenza di un «dovere collettivo di impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione». La Corte precisa che tale dovere assume una duplice valenza: da un lato, «connota la forma costituzionale di Stato sociale»; dall’altro lato, «riconosce un diritto sociale all’abitazione collocabile fra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione». La conclusione è inequivocabile: tra i «compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso», al fine di «creare le condizioni minime di uno Stato sociale», rientra quello di «concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all’abitazione», così contribuendo «a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana».
Ciononostante, lo Stato ha abdicato, eccome, al dovere di garantire a tutti i cittadini il fondamentale diritto sociale all’abitazione. Le risorse impiegate in materia, pari dal 26% degli investimenti pubblici totali negli anni Cinquanta, sono crollate a meno dell’1% negli anni Duemila, per scendere ulteriormente – secondo una ricerca dell’Università Bocconi – ad appena lo 0,09% delle spese per il welfare (contro l’1,19% del Regno Unito, il 2,05% della Germania e il 2,62% della Francia). Le sole politiche degli ultimi anni in materia sono state quelle rivolte a reprimere i comportamenti privati di reazione al disagio abitativo, di cui la recente circolare sugli sgomberi voluta dal ministro degli Interni (della quale in queste ore si cominciano a vedere gli effetti pratici) non è che l’estremizzazione, posto che la sua base legislativa resta il cosiddetto «decreto sicurezza Minniti-Orlando» (convertito nella legge numero 48 del 2017).
È il ribaltamento dell’impostazione costituzionale: anziché dare attuazione al diritto all’abitazione previsto nella Carta fondamentale, in modo da soddisfare le esigenze materiali a esso sottostanti, il legislatore interviene esclusivamente per impedire che tali esigenze possano sfociare in azioni volte a farvi autonomamente fronte. Con il risultato che comportamenti – come l’occupazione di immobili abbandonati – mossi dall’intento di dare soddisfazione a un bisogno riconosciuto come diritto costituzionale provocano la reazione delle autorità pubbliche sulla base di previsioni normative di rango legislativo. Un vero e proprio cortocircuito logico-giuridico.
La situazione è andata aggravandosi al punto che, secondo Federcasa, l’edilizia residenziale pubblica è attualmente in grado, sul territorio nazionale, di far fronte alle esigenze abitative di 700 mila famiglie, pari ad appena un terzo di quelle che avrebbero realmente necessità di un alloggio e non sono in condizione di procurarselo attraverso i meccanismi del mercato. Nel contempo – come riportato su questo giornale il 28 gennaio dell’anno in corso – dei circa 31 milioni di appartamenti esistenti in Italia, 7 milioni sono vuoti e 1,5 milioni sottoutilizzati: uno su quattro. Di fatto, l’offerta potenziale di abitazioni supera di sei volte la domanda, inclusa quella proveniente dall’utenza non italiana.
Non si tratta, dunque, necessariamente di costruire nuove case popolari, incrementando il già elevatissimo consumo di suolo, ma di intervenire sugli assetti proprietari esistenti, a partire dai patrimoni improduttivi dei grandi possidenti (società commerciali o singole persone fisiche). L’art. 42 Cost. delinea chiaramente il quadro normativo in cui muoversi, sancendo che la proprietà privata – oltre che riconosciuta e garantita nei limiti in cui ne sia assicurata la funzione sociale e sia resa accessibile a tutti: altro che sacra… – «può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale». Tra i quali non si può negare rientri quello far fronte all’emergenza abitativa che grava su una parte sempre più ampia della popolazione.

il manifesto 6.9.18
Un elettroshock su persone disarmate, è partita la sperimentazione del Taser
Repressione. In dodici città italiane viene introdotta l'arma che ha già suscitato proteste negli Stati Uniti, come racconta la maxi inchiesta di Reuters. Altissimo il rischio di abusi.
di Patrizio Gonnella

Da ieri una settantina di agenti in dodici città per i prossimi tre mesi (Milano, Napoli, Bologna, Torino, Firenze, Palermo, Genova, Catania, Padova, Caserta, Reggio Emilia, Brindisi) avranno in dotazione una pistola che spara scariche elettriche. La pistola è comunemente chiamata Taser dal nome della prima ditta produttrice (che però oggi si chiama Axon Enterprise).
L’ESPERIENZA statunitense, fortemente contestata da Amnesty International, dall’American Civil Liberties Union, dai gruppi di advocacy americani Truth Not Tasers e Fatal Encounters, ha evidenziato come quest’arma a partire dal 2000 negli Usa sia stata potenzialmente mortale. Essa non è stata usata come alternativa meno violenta rispetto alle tradizionali pistole che sparano pallottole ma come più facile e meno faticosa alternativa alla parola, alle manette, all’opposizione fisica.
STRAORDINARIA per cura e ampiezza è la ricerca dei giornalisti della Reuters che la scorsa estate ha pubblicato sul web un’inchiesta approfondita sui danni collaterali da Taser. L’indagine giornalistica è stata costruita a seguito della visione di documenti giudiziari, rapporti di polizia, autopsie, certificati medico-legali e notizie di stampa locali. Dunque in un arco di tempo pari a circa sedici anni, oltre mille sarebbero state le persone morte negli Stati Uniti in scontri con la Polizia a causa dell’uso dell’elettroshock. In ben 153 casi la Reuters ha scoperto che i medici legali hanno esplicitamente citato la pistola Taser come causa della morte. In 442 casi di uso improprio della Taser sono state presentate denunce da parte dei parenti delle vittime che per ora sono costate, in termini di risarcimenti alle istituzioni o alle assicurazioni, ben 172 milioni di dollari.
QUESTO ACCADE perché con la pistola che spara scariche elettriche si colpiscono non persone armate pericolose (in questo caso nessuno farebbe a meno delle più tradizionali pallottole), ma uomini o donne giudicati agitati, che si muovono scompostamente, che si oppongono al fermo. Dunque va chiarito che il Taser è un’arma usata contro persone non armate.
EPPURE quando il fondatore della società Taser, Rick Smith, lanciò il prodotto nel mercato pazzo dell’America neo-liberale lo definì un prodotto sicuro, con rischi minimi. Ma le sue affermazioni sulla sicurezza non avevano alcun avallo scientifico. Il punto non è l’uso dell’arma su persone sane, ma su persone con pregressi problemi cardiaci o neurologici. E in tali casi che il rischio diventa letale. Douglas Zipes è un cardiologo che, come ricorda la Reuters, ha testimoniato in decine di cause contro l’azienda Taser. Ha ricordato come i test e le sperimentazioni scientifiche effettuate erano state del tutto inadeguate. Nel 2009 lo stesso Smith, dopo un decennio e una sperimentazione su cavie animali con problemi cardiologici, dovette ammettere che il Taser era potenzialmente letale.
MA LA SBORNIA SECURITARIA è cieca, dunque nel mondo sono state messe in commercio circa un milione di pistole Taser. L’azienda continua a sostenere che la sua arma sia alla stregua di uno spray orticante e ha fatto di tutto, sempre secondo i giornalisti della Reuters, per condizionare la scienza medica.
DUNQUE ORA anche in Italia c’è un’arma in più nelle nostre città. Obiettivamente non ce ne era bisogno, visti gli usi e abusi avvenuti in America. C’è inoltre chi nel Governo (Salvini, ovviamente) e tra i sindacati autonomi di Polizia Penitenziaria ne ha evocato l’uso anche negli istituti di pena.
IL TASER NELLE CARCERI è inutile, pericoloso, nonché vietato dagli organismi internazionali. In carcere ci vogliono pazienza, dialogo, esperienza, comunicazione e non scariche elettriche. La gran parte degli operatori ha straordinarie capacità professionali e i conflitti li risolve senza aver bisogno del Taser che invece andrebbe ad aumentare i conflitti. In carcere bisognerebbe avere più operatori sociali, più psicologi, più mediatori, più medici, più direttori. Finanche più giovani poliziotti. Ma meno armi. Questa è l’idea costituzionale della pena.
INFINE speriamo proprio che il Taser non sia l’ennesimo strumento di dissuasione contro chi legittimamente protesta nelle piazze. Lo spazio democratico va preservato dall’elettroshock.

il manifesto 6.9.18
Al via la scuola pentaleghista: Daspo, polizia e telecamere
Securitarismo. Stanziati 2,5 milioni per «progetti» in 15 città, prevista anche la sorveglianza negli asili. La protesta degli studenti Uds: «Un modello dannoso: si alimenta un clima di paura e pregiudizio invece che un confronto aperto ed informato sulle droghe. Vogliamo scuole aperte e inclusive». Convocata una manifestazione studentesca il prossimo 12 ottobre.
di Roberto Ciccarelli


Il nuovo anno scolastico è alle porte (ieri è iniziato a Bolzano, dal 10 settembre nelle altre regioni) e il ministro dell’Interno, vicepremier tutto fare, Matteo Salvini ha presentato il daspo urbano per i «pusher» che spacciano vicino alle scuole di 15 città, il potenziamento degli impianti di video-sorveglianza, l’assunzione di agenti di polizia locale a tempo determinato (un anno) e campagne informative. In una conferenza stampa ieri al Viminale, tenuta insieme al capo della polizia Franco Gabrielli, Salvini ha confermato che per il «progetto pilota» chiamato «scuole sicure» sono stati stanziati 2,5 milioni di euro, attinti dal «Fondo unico giustizia». Tra le città interessate ci sono Roma (727 mila euro), MIlano (344), Napoli (243), Torino (222), Palermo (168) e Genova, Bologna, Firenze, Bari, Catania, Venezia, Verona, Messina, Padova, Trieste. Il governo pensa anche di installare videocamere negli asili nido e nelle strutture per anziani e disabili. I sottosegretari all’Interno Stefano Candiani e Nicola Molteni hanno confermato: «È una storica battaglia della Lega. L’obiettivo è passare dalle parole ai fatti, come già stiamo facendo in altri campi come l’immigrazione».
«NON CI SARANNO i carri armati fuori dalle scuole – ha assicurato Salvini – Sarà qualcosa di soft, a carattere preventivo, non punitivo». L’intento è di coinvolgere sindaci, presidi e prefetture invitati a fare «segnalazioni». A ottobre sarà fatto un primo bilancio. L’obiettivo, ha detto Salvini, «è sequestrare droga per un importo pari ai 2 milioni e mezzo investiti». Intento rivelatorio di un’idea di «produttività» legata a una misura di pubblica sicurezza. Un simile parametro presuppone inoltre l’esistenza fuori dalle scuole di legioni di malintenzionati, probabilmente immigrati. Per raggiungere un simile obiettivo l’ingresso degli studenti a scuola potrebbe essere trasformato in quello allo stadio: cani antidroga, polizia, telecamere alla ricerca della «droga». Non è escluso che questa operazione di inizio legislatura, per un governo sensibile al securitarismo à la carte, possa anche produrre effetti dentro gli istituti. I casi di cronaca di piccolo spaccio di hashish nelle scuole già registrati negli ultimi due anni, a Roma e in altre città, hanno già prodotto un impazzimento del sistema mediatico e la stigmatizzazione degli studenti. Nuovi, eventuali, episodi dello stesso genere potrebbero essere usati per rafforzare l’impianto propagandistico del provvedimento. In questo senso va anche valutato l’orientamento di Salvini che sostiene di non fare «distinzione tra droga leggera e pesante». Inoltre, l’insieme delle misure è stato giustificato dal ministro con l’aumento delle statistiche legate all’aumento di tutti i reati legati allo spaccio, arresti e denunce comprese, non con quelli che riguardano nello specifico reati commessi davanti alle scuole. Una generalizzazione giustificata, come spesso accade a Salvini, con il suo essere «ministro e papà» e in base ad altre statistiche sul calo dell’età media della prima assunzione degli stupefacenti. Invece di coinvolgere i docenti, e gli studenti, in una campagna di prevenzione e consapevolezza si stanziano risorse per polizia e telecamere. «Un modello inutile e dannoso – sostiene Giulia Biazzo (Uds) – si alimenta un clima di paura e pregiudizio e le scuole sono private del loro ruolo educativo». L’Uds manifesterà il prossimo 12 ottobre.
LA MISURA più simbolica di questo sistema di sorveglianza è il «daspo urbano», strumento già previsto dall’articolo 13 nelle «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città» approvate in un decreto legge del 20 febbraio 2017 del precedente governo, con Minniti al Viminale. Questa misura, già oggetto di polemiche per il ripristino dell’arresto in flagranza differita (entro 48 ore), prevede l’allontanamento dal comune di soggetti nelle manifestazioni sportive, politiche o per comportamenti giudicati «devianti» per il «decoro urbano». La direttiva «Scuole sicure» evidenzia la possibilità di applicarlo anche davanti alle scuole. Senza contare che di «Daspo ad aeternum» per i corrotti si parla nel ddl anticorruzione voluto fortemente dall’altro vicepremier, il pentastellato Di Maio. Diversamente da quello per le «Scuole sicure», in questo caso Salvini ha evocato il garantismo: «Bisogna stare attenti a garantire che fino al terzo grado di giudizio si è innocenti, processi sommari non sono da paese civile» ha detto.
SULLE MATERIE più attinenti alla vita scolastica, il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, in quota Lega, ha chiarito che il governo non intende al momento fare nuove riforme (in campagna elettorale i Cinque Stelle avevano proposto l’abolizione della «Buona scuola» di Renzi). Le ore dell’alternanza scuola-lavoro saranno dimezzate nei licei, mentre negli istituti tecnici se ne faranno «qualcuna in più». Il ministro intende evitare che «sia al centro dell’esame orale della maturità».

Corriere 6.9.18
La ministra Trenta (Difesa): prematuro parlare del voto
«No all’azione militare I francesi? La Libia non ha bisogno di ingerenze straniere»
«Così cambierà la Difesa»
di Emanuele Buzzi

«Le competenze della Difesa vengano messe a disposizione del sistema Italia»: così la ministra Elisabetta Trenta al Corriere . «Penso all’azione di supporto che il genio militare può dare al ministero per la verifica delle infrastrutture viarie e alla possibilità di usare i satelliti per monitorare lo stato di una infrastruttura civile».
Ministra Trenta, in Libia c’è una tregua. Come pensa sia necessario agire?
«Seguiamo una strategia precisa che mira al rafforzamento del contesto di sicurezza e della capacità di governance. Credo fermamente che in Libia sia indispensabile in questo momento dare sostegno alle autorità locali e alle aziende di Stato».
Se la situazione in Libia dovesse precipitare cosa farà l’Italia?
«Escludo categoricamente ogni intervento militare, anche perché cosa porterebbe? Ricordiamo tutti l’errore del 2011, che ha finito per creare maggiore instabilità mettendo a rischio in primis l’Italia. Dobbiamo ricordare le lezioni del passato».
Cosa pensa di Haftar?
«Penso che debba essere considerato un interlocutore in Libia, poiché rappresentativo di una realtà. Occorre dialogare con tutti».
Elezioni a dicembre per la Libia: crede sia prematuro?
«Credo di sì, ma questo non lo diciamo solo noi, lo dicono anche i libici. Non si possono dettare tempi o date, solo i libici possono scegliere il loro futuro e in questo vanno sostenuti».
Lei come Salvini ha parlato di responsabilità della Francia per la crisi libica...
«Non abbiamo detto nulla di nuovo, i francesi stessi hanno riconosciuto alcuni errori, ora quel che è importante è che l’Unione Europea si mostri compatta al fianco dei libici».
Cosa pensa dell’impegno militare francese?
«Non sta a me esprimere giudizi sull’operato di un Paese estero, diffido quando qualcuno lo fa con l’Italia, ma capiamoci: i libici hanno bisogno di essere sostenuti, non di ingerenze. E questo, mi auguro sia un concetto chiaro a tutti».
Non teme un lacerarsi dei rapporti con Parigi?
«I buoni rapporti con Parigi sono fondamentali, ma mi permetta di dire che in questo momento la mia attenzione è rivolta alla sicurezza del nostro Paese. Questa è la prima delle priorità. E tra alleati, ogni tanto, fa anche bene parlarsi chiaro, questo non implica alcuna lacerazione dei rapporti».
In tema di migranti, è stato corretto lasciare la Diciotti ferma al largo di Lampedusa così a lungo?
«Ma guardi che sulla Diciotti è stato montato un caso mediatico assurdo. I migranti erano a bordo di una nostra nave, assistiti e seguiti dal nostro personale militare, che ringrazio per l’ottimo lavoro svolto. Chi tiene in ostaggio queste povere persone che fuggono da guerre e carestie non siamo certo noi, ma l’immobilismo dell’Europa».
Lei ha proposto di cambiare la Difesa .
«Penso a un’azione strutturata attraverso la quale le competenze della Difesa vengano messe a disposizione del sistema Italia. Penso per esempio, facendo riferimento alle ultime tragedie, all’azione di supporto che il nostro genio militare può dare al ministero delle Infrastrutture per la verifica della stabilità dei ponti e delle infrastrutture viarie, oppure alla possibilità di usare i satelliti per monitorare lo stato di una infrastruttura civile».
Il Movimento si è espresso per annullare il programma sugli F35: cosa farete?
«Appena concluse le valutazioni tecniche comunicheremo in modo trasparente ai cittadini, ma le posso anticipare che stiamo lavorando verso una riduzione, coerentemente con quanto avevamo detto».
Si dice ci sia malessere nelle forze armate sui possibili tagli alle pensioni ...
«Nessun malessere e il provvedimento toccherà solo le pensioni d’oro» .

il manifesto 6.9.18
Il derby di Roma sfratta il sit-in del Pd
red. pol.


L’ex vice segretaria del Pd renziano Debora Serracchiani scivola ancora sui social quando scrive di migranti. Se quindici mesi fa aveva definito «più odioso» uno stupro se compiuto da un richiedente asilo, martedì ha scritto su twitter che «per volontà del ministro dell’interno Salvini ci sono oltre 12mila clandestini in più liberi di girare l’Italia».
Il ricorso alla terminologia della destra le è stato contestato da diversi utenti del social network e anche da alcuni dirigenti del partito, come l’esponente dei «Giovani turchi» Giuditta Pini, che anche lei su twitter ha scritto: «Se vogliamo ripartire non chiamiamo i migranti clandestini, smettiamola di rivendicare di aver fatto più rimpatri di Salvini». Anche in questo caso, come nel tweet sullo stupro, Serracchiani non si è scusata. Ma ha risposto a una persona che la criticava ha risposto che dietro quel «clandestini» c’era una strategia. «Uso le parole di Salvini – ha scritto – per metterlo in contraddizione».
Intanto ieri il partito ha annunciati la modifica della data della prossima manifestazione nazionale contro il governo: non più sabato 29 settembre, la concomitanza con il derby calcistico della capitale ha convinto a spostare l’appuntamento al giorno dopo, domenica 30 settembre. Non sarà un corteo, ma un raduno, alle 14.00, in piazza del Popolo.
Non solo immigrazione nel manifesto-appello, ma scuola, politica estera, politiche economiche, Europa. «Scendiamo in piazza per costruire un’alternativa alla politica dell’odio, del declino, dell’isolamento e della paura. Scendiamo in piazza perché tante persone vogliono un paese diverso: più giusto, più forte, più solidale, aperto al mondo e al futuro». Nel testo anche un riferimento alla politica di alleanze annunciata come un desiderio da Martina. «Vogliamo riorganizzare il campo delle forze progressiste, un progetto ampio, aperto a tutti i cittadini, le organizzazioni, le realtà sociali».

La Stampa 6.9.18
Gianni Cuperlo
“Bene gli applausi della nostra gente a Fico
Il Pd deve spaccare la saldatura M5S-Lega”
di Alessandro Di Matteo


Gianni Cuperlo, il Pd continua a discutere sul “che fare” con M5S, c’è stata anche una polemica contro Nicola Zingaretti. Poi, però, sono arrivati gli applausi a Fico alla Festa dell’Unità…
«In questo momento il M5S è una delle due forze che regge un governo che si presenta con un’azione confusa e di destra. Conducono una campagna elettorale permanente, svolgendo contemporaneamente il ruolo di maggioranza e di opposizione. Questo modo di intendere l’esercizio del potere dura fino a quando riescono a scaricare ogni colpa su chi c’era prima, fabbricando sempre un nemico di comodo. Ma io penso che sia uno schema destinato a logorarli. Vediamo cosa sta succedendo già adesso, dalla tragedia di Genova alla Diciotti, fino all’Ilva e alle divisioni sulla manovra…».
Cioè il Pd non dovrebbe limitarsi ai «pop-corn» evocati da Renzi …
«Questo è un governo pericoloso, dannoso, perché isola l’Italia. È una responsabilità soprattutto di Salvini, che sta facendo dell’Italia un avamposto del blocco di Visegrad. Dobbiamo fare ogni sforzo per farlo cadere e soprattutto evitare una saldatura strategica tra Lega e M5S. Non ho condiviso i pop corn allora, figuriamoci adesso. Una saldatura definitiva tra Lega e M5S alle prossime elezioni sarebbe un fatto storico enorme: per la prima volta dopo la fine della seconda guerra mondiale avremmo in un Paese fondatore dell’Europa un movimento radicale, di destra e di massa. Siamo di fronte a un accordo di governo che pratica un “populismo dall’alto”. Non una novità in senso assoluto, Gramsci parlava di “sovversivismo delle classi dirigenti”. Ma questo ci mette in una condizione mai conosciuta in tempi recenti, stravolgendo la nostra vocazione internazionale».
E Fico può essere un interlocutore…
«Bene gli applausi a Fico, la nostra gente ha mostrato un grado di civiltà politica e di correttezza. Non so se a parti invertite un nostro presidente della Camera sarebbe stato accolto in quel modo a una kermesse 5 Stelle. Ho apprezzato anche le parole di Fico sulla Diciotti, una posizione politica chiara. Il tema però non sono gli applausi, ma capire quale forza e coerenza avrà quella parte del movimento nel condurre la sua battaglia».
Ma il Pd potrà ricostruire il centrosinistra coinvolgendo l’ala sinistra M5S?
«Mai proposto di fare un governo col M5S. Noi dobbiamo cercare in tutti i modi di disancorare M5S dall’abbraccio mortale con la Lega. Anche perché so che un certo numero di elettori di sinistra hanno votato per Grillo. Non voglio fare nessun accordo di vertice, voglio recuperare una parte di quegli elettori. Ma per farlo devi cambiare la casa, perché quella di prima non li soddisfaceva più..»
Cambiare casa? La pensa come Calenda, che chiede di cambiare nome al Pd?
«No, quella del nome del Pd non è adesso il problema. Noi abbiamo bisogno di ridare orgoglio alla nostra gente e ridare un senso di appartenenza. Ma abbiamo anche bisogno di un congresso che non sia la fotocopia dei congressi di prima, se facciamo un arruolamento dietro al “salvatore della patria” non abbiamo compreso che si è rotto un rapporto sentimentale tra sinistra e una parte del suo popolo. Il tema è chi vogliamo rappresentare nella società, chi chiamiamo alla mobilitazione e in questo senso bene la piazza del 30 settembre. Come ricostruire un rapporto tra politica e cultura. Vorrei un congresso diverso, che discuta delle alleanze in Europa. Le europee saranno un appuntamento fondamentale, si tratterà di decidere se l’Europa sarà ancora il continente della solidarietà o la terra di un nuovo nazionalismo».

il manifesto 6.9.18
La 44enne afroamericana Ayanna Pressley vince le primarie
Stati Uniti. Democratici verso il midterm. In Massachusetts un'altra vittoria a sinistra
di Marina Catucci


Ancora un’altra vittoria a sinistra: la 44 enne afroamericana liberal Ayanna Pressley nelle primarie democratiche che si sono tenute in Massachusetts, ha battuto il candidato sicuro, il bianco Michael Capuano, e potrebbe diventare la prima donna afro-americana a rappresentare lo Stato al Congresso. Una vittoria in sintonia con il clima politico che sta alimentando le vittorie di donne e minoranze in questa stagione elettorale, lanciando un messaggio chiaro ai democratici riguardo dove debba andare il partito, ed entra a far parte dell’ondata di donne di colore che stanno irrompendo in tutto il Paese per occupare posizioni di potere tradizionalmente bianche e di appannaggio maschile.
In caso di vittoria alle elezioni di midterm di novembre, Pressley potrebbe diventare il primo governatore afroamericano nella storia degli Stati Uniti, ed è cronologicamente, l’ultimo candidato cane sciolto ad essere emerso per sfidare entrambi gli establishment, democratici ora e repubblicani a novembre, da Andrew Gillum in Florida a Beto O’Rourke in Texas, e il risultato riecheggia quello di Alexandria Ocasio-Cortez a New York e Stacey Abrams in Georgia. Risultati che suggeriscono uno spostamento verso un’agenda più audace e progressista in netto contrasto e in reazione al managerialismo di partito che aveva caratterizzato la campagna di Hillary Clinton.
A differenza di tutti gli altri candidati liberal, socialisti e spesso semi-sconosciuti, peró, Pressley non è una sconoscouta nel partito, ma ci lavora da anni, e non ha battuto un moderato centrista, ma un candidato altrettanto liberal, che proponeva sanità ed istruzione pubblica, diritto alla casa, innalzamento del salario minimo. Inoltre Capuano aveva votato contro la guerra in Iraq, sostenuto l’Obamacare, ed è membro del Congressional Progressive Caucus, l’ala democratica progressista della Camera. La differenza l’ha fatta proprio la non appartenenza di Pressley alla categoria di maschi bianchi di mezza età, vista ormai come il fumo negli occhi, per cui, a parità di credenziali, la candidata afroamericana più giovane, vince.
Questa spinta propulsiva della base che sta spostando il partito a sinistra e su candidati meno scontati, si sente anche fuori dalle urne, come dimostrano le udienze di conferma per la nomina del giudice Kavanaugh alla Corte Suprema. L’udienza del comitato giudiziario del Senato appena cominciata durerà una settimana ed è iniziata con le contestazioni di cittadini – decine i fermati – che hanno interrotto il dibattito, mentre i democratici si sono mossi con rabbia per rimandare l’inizio e poter esaminare i documenti necessari a valutare la conferma che sono stati rilasciati dai repubblicani solo la sera prima dell’udienza, si parla di più di 40.000 documenti.
Le contestazioni a Kavanaugh vertono sull”impresentabilità delle sue posizioni su diritto alle armi e più di tutto diritto all’aborto, e nelle dichiarazioni di apertura sia i repubblicani che i democratici hanno posto alcune questioni chiave proprio riguardo questi temi caldeggiati dai manifestanti che hanno fatto irruzione in aula.
E non va molto meglio alla Casa Bianca, dove si sono abbattuti gli stralci del libro sull’amministrazione Trump di Bob Woodward, uno dei due leggendari reporter del Watergate che portò alla fine della presidenza Nixon. Il libro in uscita tra qualche giorno è il terzo che decostruisce questa presidenza, dopo quello quello del giornalista Wolf, e quello dell’ex collaboratrice della Casa Bianca Omarosa.
Woodward ha raccolto testimonianze all’interno di questa amministrazione, giustificate da documenti, date, dettagli; stando agli stralci si apprende che i principali consiglieri di Trump hanno sottratto carte dalla scrivania del presidente per impedirgli di prendere decisioni pericolose per il Paese, che il Segretario della Difesa James Mattis ha ignorato l’ordine di uccidere Assad ed ha detto ai suoi collaboratori che il presidente agisce e ha la comprensione di un «alunno di quinta elementare o prima media».

La Stampa 6.9.18
L’ala sinistra degli «insurgent» negli Stati Uniti
Una ultraliberal afroamericana conquistai democratici
di Paolo Mastrolilli


L’ala sinistra degli «insurgent», i ribelli che si oppongono all’establishment, sta conquistando il Partito democratico. Lo conferma la vittoria di Ayanna Pressley nelle primarie di martedì in Massachusetts, dove ha battuto il deputato uscente Michael Capuano per conquistare a novembre il distretto di Boston rappresentato un tempo da John Kennedy. Ora si tratta di capire se questa tendenza si trasformerà nel «trumpismo» di sinistra, aiutando l’opposizione a riconquistare la maggioranza in Congresso, oppure se condannerà i democratici alla sconfitta spingendoli troppo lontano dal centro.
Interpretare lo scontento
Pressley, se vincerà a novembre, diventerà la prima donna nera a conquistare un seggio da deputato in Massachusetts. Le sue idee non erano molto diverse da quelle di Capuano, che aveva rappresentato il distretto per vent’anni da posizioni liberal. Lei però rappresentava il cambiamento, e il suo slogan secondo cui nell’era di Trump non si può aspettare a rivoluzionare il partito ha convinto la maggioranza. Lo stesso, grosso modo, era accaduto a giugno, quando la candidata sostenuta dal senatore Bernie Sanders, Alexandria Ocasio-Cortez, aveva battuto a New York l’incumbent Joseph Crowley, e poi in Georgia, Maryland e Florida, dove Stacey Arams, Ben Jealous e Andrew Gillum hanno ottenuto le nomination per la corsa a governatore. Non c’è dubbio che l’insurrezione sia in corso, resta da vedere ora quali saranno i risultati.
Durante le presidenziali del 2016, molti nel Partito democratico avevano sostenuto che la risposta a Trump doveva essere Sanders, cioè l’unico candidato capace di interpretare e intercettare lo stesso sentimento di scontento, ma da sinistra. L’establishment però aveva preferito Hillary, e il risultato è noto. Altri rispondevano che candidare Sanders significava suicidarsi, perché avrebbe spostato il partito su posizioni troppo lontane dal centro moderato, per poi riuscire a vincere la sfida a livello nazionale.
Ora il dilemma si ripete, in vista delle elezioni Midterm di novembre. I risultati delle primarie dimostrano che i «ribelli» hanno la forza degli elettori dalla loro parte, e riescono a suscitare l’entusiasmo mancato nel 2016. Le elezioni Midterm naturalmente hanno caratteristiche diverse da quelle presidenziali, e a novembre si vedranno i risultati di questo movimento. Se i democratici riprenderanno la Camera grazie agli «insorti», si rafforzerà la spinta a scegliere un loro candidato anche per le presidenziali del 2020.

Repubblica 6.9.18
Le primarie
Il voto di mid-term
Ribelli e radicali così Insurgency spacca i dem Usa
Donne, liberal, multietnici: i nuovi candidati specchio dell’altra America
di Federico Rampini

NEW YORK Insurgency, insurrezione, rivolta dal basso. E’ così che comincia a essere descritta questa stagione delle primarie, che devono riempire le caselle dei candidati per il voto di mid-term il 6 novembre: senatori, deputati, governatori. L’ultimo segnale "rivoluzionario" viene da Boston, una delle roccaforti del partito democratico, quella in cui regnò per generazioni la dinastia Kennedy. A vincere le primarie per un seggio alla Camera che rappresenterà il Massachusetts è stata Ayanna Pressley: donna, afroamericana, e molto vicina alla senatrice Elizabeth Warren che rappresenta l’ala sinistra del partito. Niente a che vedere, insomma, con quei clan italo-irlandesi che per decenni fecero il bello e il cattivo tempo.
La vittoria di Pressley è stata subito paragonata ad un altro risultato-shock di un’altra primaria democratica: la vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez per la candidatura al Congresso nel 14mo distretto di New York.
Ocasio-Cortez ha 28 anni, è figlia di una donna delle pulizie portoricana, e ha avuto l’endorsement del "socialista" Bernie Sanders, colui che sfidò Hillary Clinton per la nomination del 2016. Contro di lei correva un notabile del partito. Un caso analogo è accaduto in una primaria in Florida: per l’elezione a governatore di quello Stato, la base democratica ha scelto a sorpresa un candidato afroamericano, il sindaco di Tallahassee Andrew Gillum: anche lui sponsorizzato da Sanders, ha sbaragliato quattro candidati dell’establishment.
Donne, giovani, neri, ispanici: l’onda insurrezionale sta cambiando i connotati del partito democratico, la fisionomia con cui si presenterà alle urne tra due mesi. In questo clima anti-establishment, ci sta pure l’annuncio di Rahm Emanuel che non si ricandiderà come sindaco di Chicago. Per certi aspetti era prevedibile, o auspicabile: Chicago continua ad essere una delle metropoli più insicure d’America, in molti quartieri la situazione dell’ordine pubblico è disastrosa, le sparatorie sono all’ordine del giorno. Emanuel con un bilancio del genere non è certo un sindaco dalle credenziali forti. Però è un personaggio-chiave: amico da sempre dei Clinton, fu anche scelto da Obama come suo chief of staff alla Casa Bianca. Sia pure sconfitto dal suo malgoverno, è un altro pezzo di classe dirigente tradizionale che se ne va.
Tutto questo rimescolamento, affermazione femminile, rinnovamento generazionale, etnico e politico, va visto nello scenario più generale. Anzitutto, i sondaggi — da maneggiare con cura — danno i democratici vincenti alla Camera, ma con la possibilità che i repubblicani conservino una risicata maggioranza al Senato. Se è vero, questo significa che nel paese non soffia un vento impetuoso a favore dell’opposizione di sinistra. La battaglia è ancora aperta. A maggior ragione molti risultati, seggio per seggio e Stato per Stato, dipenderanno dalla qualità delle candidature. Chi pensava di cavalcare una "automatica" ondata democratica, da sfruttare con candidature di routine e riconferme di volti noti, deve ricredersi.
Interessante è anche quello che accade sul fronte opposto: il partito repubblicano si "trumpizza". Nonostante tutte le critiche al presidente — soprattutto dalla stampa liberal — e nonostante l’effetto-nostalgia creato dal funerale di John McCain, non c’è un ritorno dei repubblicani all’alveo della tradizione moderata. Prevalgono nelle primarie soprattutto candidati che ostentano fedeltà a questo presidente, perché è ciò che vuole la base che partecipa alle primarie (cioè solitamente la frangia più militante e radicale).
A questa "trumpizzazione" del Grand Old Party, nel partito democratico si danno risposte divaricanti. A New York emerge un personaggio come Cynthia Nixon, socialista e lesbica militante, che tenta di scalzare (con pochissime chance) il potente e dinastico governatore democratico Andrew Cuomo. Ma nell’America di mezzo, la più conservatrice, spesso i democratici puntano su personaggi ultra-moderati, com’è accaduto in Pennsylvania.

Repubblica 6.9.18
Per chi suona la campana della Svezia
di Stefano Folli


Il centrosinistra rivendica il voltafaccia sui vaccini della maggioranza giallo-verde come un suo successo. E non ha torto. Il senso è: sono stati costretti a cambiare posizione e ad ammettere — come dicevamo noi e la comunità scientifica — che l’obbligo a scuola è indispensabile. In sostanza una posizione giusta, purché non si pensi di ricavarne qualche indicazione politica a breve termine. Del resto, il ripensamento sui vaccini va di pari passo con altri temi su cui la coalizione 5S-Lega comincia a camminare con i piedi di piombo. Più Salvini che i Cinque Stelle, a quanto sembra, ma nel complesso entrambi i soci hanno scelto alcuni temi da stemperare o da rinviare. O addirittura da mettere nel cassetto. Le accise sulla benzina, la semplificazione burocratica, la stessa flat tax, eccetera: l’elenco comincia a essere lungo.
Questo non significa che sulle vaccinazioni i partiti di governo abbiano ceduto alla pressione assai debole dell’opposizione parlamentare. Hanno ceduto invece agli scienziati e a un mero calcolo di convenienza: la questione non è abbastanza popolare, anzi genera sconcerto nelle famiglie e complica la vita di chi ha figli che vanno a scuola. In termini elettorali, il danno supera i vantaggi. Tuttavia c’è un punto politico che merita di essere sottolineato: la marcia indietro è forse possibile proprio perché Salvini e Di Maio sentono di potersela permettere. Nel senso che non c’è ancora nessuno, nel centrosinistra e tanto meno nel vecchio centrodestra berlusconiano, in grado di servirsi di questo tema per trasformarlo nel punto d’appoggio di una risalita elettorale. A tal fine ci vorrà molto di più e secondo tempi non prevedibili. Allo stato delle cose questi sussulti di realismo, da parte delle forze governative, sono più una manifestazione di forza che di debolezza.
Le novità possono venire da altri fronti.
Interni — la manovra economica — e soprattutto esterni. Sotto questo aspetto le elezioni in Svezia di domenica hanno tutte le caratteristiche per segnare una svolta storica negli equilibri europei, specie se si considera che in ottobre andrà a votare anche la Baviera. E in entrambi i casi è l’immigrazione il tema che tiene banco e che deciderà l’esito del voto. Ora gli ultimi sondaggi a Stoccolma indicherebbero un primo arretramento dell’estrema destra rispetto ai livelli clamorosi raggiunti nei giorni scorsi a danno dei socialdemocratici. Ma si parla in ogni caso di un esito che collocherebbe il partito anti-immigrati al secondo posto. Un dato destinato a cambiare il volto del paese. Così come un’eventuale avanzata della destra di Afd in Baviera cambierebbe la prospettiva del rapporto fra Cdu e Csu e quindi della stessa Unione.
In Italia Salvini aspetta con trepidazione il risultato di Stoccolma, domenica sera.
Anche lui dal suo punto di vista non ha torto. Più la destra intransigente guadagna voti, più le ricadute sull’Europa del Nord saranno significative. Più l’Europa settentrionale subirà l’impatto del voto svedese e più la pressione si rovescerà sulla Germania, minando la stabilità del patto istituzionale che regge l’Unione. È una specie di gioco del domino: per prendervi parte basta detestare l’assetto franco-tedesco che governa l’Europa.
Quindi, altro che vaccini. La partita politica italiana si decide lontano da Roma e la campana svedese suona anche per noi. Un successo nazionalista a Stoccolma fornirà parecchio carburante ai nostri "sovranisti". Un qualche recupero socialdemocratico, pur sempre possibile, potrebbe valere da ricostituente per l’esangue centrosinistra.

il manifesto 6.9.18
Lieberman pronto a demolire Khan al Ahmar
Cisgiordania occupata. La Corte suprema israeliana ieri ha respinto il ricorso ‎presentato dai palestinesi e ha dato il via libera alla distruzione del ‎villaggio beduino alle porte di Gerusalemme e della Scuola di ‎Gomme costruita dalla Ong italiana Vento di Terra.‎
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Era raggiante di gioia ieri il ministro della difesa Avigdor Lieberman ‎dopo la sentenza, ampiamente prevista, dei giudici della Corte ‎suprema israeliana che ha dato il via libera definitivo alla distruzione ‎del villaggio beduino di Khan al Ahmar e della Scuola di Gomme, ‎costruita dalla ong milanese Vento di terra, e al trasferimento forzato ‎dei suoi abitanti. Per Lieberman i massimi giudici israeliani ‎sarebbero dei «coraggiosi» perché, incuranti delle pressioni locali e ‎internazionali, hanno emesso una sentenza «esemplare» tenendo ‎conto solo di ciò che prevede la legge. «Nessuno può fermarci ‎dall’attuare la nostra sovranità. Nessuno è al di sopra della legge», ha ‎proclamato con soddisfazione il ministro. Ma è la legge ‎dell’occupante quella di cui parla Lieberman, la legge imposta su un ‎territorio che il diritto internazionale considera occupato ‎militamente. La legge del più forte non quella della giustizia, ‎altrimenti le 35 famiglie beduine di Khan al Ahmar non verrebbero ‎cacciate via dalle terre dove vivono da decenni, provenienti da ‎un’altra località che erano stati costretti a lasciare dopo il 1948. Se ‎quella applicata nei territori occupati dai tre giudici della Corte ‎suprema fosse una legge giusta allora non non sarebbero mai stati ‎legalizzati gli avamposti coloniali costruiti in Cisgiordania senza ‎alcun permesso ufficiale dalla destra religiosa israeliana. Ciò che ‎‎”illegale ” per i palestinesi sotto occupazione è perfettamente legale ‎per i coloni israeliani.
 Nulla hanno potuto la mobilitazione palestinese, le proteste ‎dell’Ue e dell’Onu e le modeste pressioni dell’Italia su Israele rimaste ‎sempre dietro le quinte e mai rese pubbliche per non turbare i ‎rapporti eccellenti tra Roma e Tel Aviv. Per questa comunità ‎beduina, riunita ieri per fare il punto della situazione e decidere i ‎prossimi passi assieme ai suoi tanti sostenitori, anche israeliani, la ‎prospettiva immediata è lo sgombero con la forza entro sette giorni e ‎il trasferimento a 12 km di distanza in un nuovo sito nell’area di ‎Azariya-Abu Dis, non lontano da una discarica di rifiuti. Per Khan al ‎Ahmar passerà una nuova strada, di collegamento tra alcune colonie, ‎che darà il via alla realizzazione dei progetti israeliani nell’area nota ‎come E1, un corridoio che da Gerusalemme Est corre verso Gerico e ‎passa per la colonia ebraica di Maale Adumim. Se questo corridoio ‎verrà interamente colonizzato, renderà impossibile la nascita di un ‎Stato palestinese con un territorio omogeneo.
 La conferenza stampa di ieri pomeriggio a Khan al Ahmar si è ‎svolta in un clima di rabbia e tristezza però non di rassegnazione. «Ci ‎schiereremo contro questa decisione e non lasceremo la nostra terra», ‎ha avverito Ibrahim Abu Dahuk, un abitante. Dura la condanna delle ‎Nazioni Unite che hanno parlato di grave violazione dei diritti umani. ‎‎«Queste comunità – ha detto Scott Anderson, direttore operativo ‎dell’agenzia Unrwa – sono per lo più rifugiate, originariamente ‎sfollate dalle loro terre nel Negev. Non dovrebbero essere costrette a ‎vivere una seconda evacuazione contro la loro volontà». Le famiglie ‎di Khan al Ahmar, della tribù dei Jahalin, provengono dal Negev, da ‎cui furono cacciate negli anni Cinquanta, negli anni successivi alla ‎Nakba del 1948, e costrette a spostarsi in Cisgiordania. Netto il ‎giudizio di Saleh Higazi di Amnesty International: «siamo di fronte a ‎un crimine di guerra, la Corte suprema israeliana si è resa complice ‎di un progetto criminoso. Il trasferimento con la forza di una intera ‎comunità è una violazione del diritto internazionale».
 Ieri si è parlato tanto anche della Scuola di Gomme, l’istituto ‎scolastico costruito a Khan al Ahmar dalla ong italiana Vento di ‎Terra su progetto di ArCò, con i finanziamenti di enti locali, ‎istituzioni religiose e dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione‏.‏‎ ‎Costruita con criteri innovativi utilizzando pneumatici, è stata per ‎anni l’asilo e la scuola per bambini e ragazzi di cinque comunità ‎beduine. Il suo destino è segnato, malgrado l’impegno ad ogni livello ‎della ong italiana per sottrarla alla demolizione. «È un giorno triste ‎per la comunità di Khan al Ahmar e per la nostra ong» ci diceva ieri ‎Giulia Schirò, rappresentante in Palestina di Vento di Terra, «è un ‎giorno in cui appaiono evidenti l’ingiustizia e la discriminazione nei ‎confronti del popolo palestinese. Nonostante ciò a Vento di terra non ‎mancano le energie e le motivazioni per proseguire il proprio lavoro ‎e per stare accanto alla comunità di Khan al Ahmar nel percorso ‎difficile che dovrà fare nel prossimo periodo».‎

La Stampa 6.9.18
Nella destra xenofoba dell’AfD nasce il gruppo degli ebrei
di Walter Rauhe


Ebrei che militano nelle file di un partito populista e di estrema destra, e questo proprio in un Paese come la Germania? Quella che può apparire come un’antitesi poco verosimile è invece realtà all’interno dell’Alternative für Deutschland (AfD). Ufficialmente sono almeno tre i cittadini tedeschi di fede ebraica iscritti al partito ultra-nazionalista e anti-tutto (anti-islamico, anti-immigrati, anti-euro, anti-globalizzazione, anti-Merkel) accusato di condividere e propagare ideologie apertamente negazioniste, xenofobe e antisemitiche. Ma il vero numero degli ebrei già in possesso di una tessera del partito e di quelli intenzionati ad aderirvi in futuro è più alto e sembra destinato ad aumentare ulteriormente.
Secondo indiscrezioni che già da qualche tempo circolano sulla stampa tedesca, ai primi di ottobre verrà fondata a Offenbach, nei pressi di Francoforte, la prima associazione degli «Ebrei nella AfD». Promotore dell’iniziativa è un certo Wolfgang Fuhl, dal settembre del 2017 deputato della AfD al Bundestag e membro della comunità ebraica di Lörrach, nel Sud-Ovest della Germania. La biografia politica del 58enne è piuttosto movimentata: da giovane militava negli ambienti del movimento studentesco in una cellula d’ispirazione maoista. Successivamente è passato agli Jusos, la federazione giovanile del Partito socialdemocratico, è stato per alcuni anni attivista e funzionario dei sindacati e nel 2013 è passato all’Alternative für Deutschland. Insieme a Emanuel Krauskopf, delegato dell’AfD a Francoforte dove era anche membro del consiglio amministrativo della comunità ebraica locale, Krauskopf motiva la sua scelta di aderire al partito della destra populista con la sua netta opposizione alla politica migratoria di Angela Merkel. Aprendo nel 2015 le frontiere a quasi un milione di profughi provenienti prevalentemente dalla Siria, dall’Afghanistan e dall’Iraq, la cancelliera avrebbe contribuito ad accelerare il processo di islamizzazione della società tedesca. «Per noi ebrei questo ha provocato un drastico aumento delle aggressioni e degli episodi di antisemitismo dal momento che la stragrande maggioranza dei migranti è di fede islamica e odia lo Stato d’Israele e più in generale tutti gli ebrei», spiega Krauskopf. Il fatto che il co-presidente dell’AfD Alexander Gauland abbia minimizzato più volte i crimini commessi dalla Germania nazista, che il leader regionale della Turingia Björn Höcke abbia definito il Memoriale dell’Olocausto a Berlino come un monumento vergognoso o che i partecipanti ad una visita guidata nell’ex campo di concentramento di Sachsenhausen organizzata dalla capogruppo dell’AfD al Bundestag Alice Weidel abbiano messo in dubbio l’esistenza delle camere a gas, non sembra dare fastidio a Krauskopf, Fuhl e agli altri ebrei iscritti al partito.
«Ma la presenza di ebrei in partiti d’ispirazione xenofoba e antisemita non è un’eccezione», spiega Micha Brumlik del Centro di Studi ebraici di Berlino. Nel 1919, ai tempi della Repubblica di Weimar, alcuni reduci della Prima guerra mondiale fondarono l’associazione ultraconservatrice dei «Soldati ebrei del fronte» mentre alcuni anni dopo un gruppo di fanatici sostenitori di Adolf Hitler diedero vita all’«Unione degli ebrei tedesco-nazionali». Il loro appoggio incondizionato all’ideologia nazista e persino alle sue dottrine razziali non risparmiò ai componenti del gruppo persecuzioni e la deportazione nei campi di sterminio.

La Stampa 6.9.18
Da Anversa e Berlino è il timore per l’estremismo islamico a spingere gli ebrei verso destra
di Sofia Ventura


La notizia che in ottobre dovrebbe essere creata una componente ebraica all’interno del partito tedesco di estrema destra Afd potrebbe lasciare esterrefatti. Ma il fenomeno non è nuovo. In piccole dimensioni, ma comunque in grado di far suonare un campanello d’allarme, è apparso in altri Paesi europei. Ciò che tiene insieme le diverse esperienze è la paura del radicalismo islamico, ferocemente antisemita, contro il quale i partiti di estrema destra fanno sentire una voce avvertita come più forte e convincente rispetto a quella dei partiti tradizionali. Già in occasione delle elezioni del 2004, in Belgio, ad Anversa, era emerso il fenomeno di un voto non irrilevante di cittadini ebrei al Vlaams Block, poi divenuto Vlaams Belang, un partito di estrema destra nato come partito nazionalista fiammingo. Un partito che prometteva di fermare gli arrivi dai Paesi islamici e il cui messaggio non casualmente era stato recepito ad Anversa, una città con numerosi immigrati arabi e dove le provocazioni di gang di giovani arabi all’inizio degli Anni Duemila erano sfociate nella morte di un ragazzino ebreo. In Austria, in occasione delle elezioni presidenziali del 2016, il capo della Conferenza dei Rabbini europei ammise che «una parte non insignificante» della comunità ebraica aveva sostenuto il candidato di estrema destra Norber Hofer. Anche il Fronte Nazionale di Marine Le Pen sembra in grado di attrarre una piccola quota di voto ebraico. Il motivo è sempre lo stesso, la paura dell’Islam, dell’Islam radicale, ma anche di un Islam che porta con sé il sentimento antisemita dei Paesi di origine, che si è acutizzato dopo la seconda Intifada (2000) e che, sfociato in alcuni casi in omicidi, produce anche un clima di paura quotidiana, in particolare nelle periferie.
Accanto a questo fenomeno, di attrazione verso l’estrema destra, vi è tuttavia una decisa reazione di diversi responsabili delle comunità ebraiche, che rifiutano ogni contatto con i partiti estremisti. Ma ciò che dovrebbe inquietare è che ancora una volta cittadini europei di appartenenza ebraica debbano guardarsi attorno per capire dove trovare una via per potere vivere senza paura, o per sopravvivere. Lo sguardo verso l’estrema destra è illusorio, perché chi fa differenze tra gli esseri umani e cerca facili capri espiatori prima o poi cade nella (o torna alla) antica malapianta dell’antisemitismo. Tuttavia, questa inquietudine delle comunità ebraiche europee, cresciuta negli ultimi vent’anni, è uno dei segnali, forse uno dei più drammatici, dei troppi errori prodotti dai governanti europei, che non hanno seriamente affrontato il problema dell’integrazione e per incapacità, ignavia o convenienza hanno consentito che l’immigrazione producesse enclave al confine della legge; per il quieto vivere e un malinteso politicamente corretto hanno finto di non vedere il preoccupante sorgere di un nuovo e diverso antisemitismo. Con il paradosso che oggi, tra gli ebrei, per disperazione vi è chi pensa l’inconcepibile: trovare rifugio nella destra estrema.

il manifesto 6.9.18
Palestina, il governo italiano tace
Medio Oriente. I palestinesi altro non sono che il precedente storico dell’attuale crisi dei migranti. Non a caso sono chiamati il «popolo dei campi», profughi a casa loro in Cisgiordania e Gaza, sradicati e dispersi in tutto il Medio Oriente: sono circa 5 milioni e mezzo,di serie B nei Paesi arabi e, in Palestina, in una condizione di status sospeso, occupati militarmente dall’esercito israeliano tra i più efficienti al mondo
di Tommaso Di Francesco


«Aiutiamoli a casa loro», è lo scellerato proposito derivato da destra e giunto prima del 4 marzo fin dentro il governo di centrosinistra a guida Pd. E ora mantra governativo del dramma dei profughi. Una parola d’ordine che azzera la tragedia delle migrazioni come realtà epocale, a fronte di guerre e miseria che derivano per buona parte dal nostro modello occidentale di sviluppo.
Eppure il «mantra» viene invece assolutamente disatteso se si tratta dei diritti dei palestinesi. I quali altro non sono che il precedente storico dell’attuale crisi dei migranti. Non a caso sono chiamati il «popolo dei campi», profughi a casa loro in Cisgiordania e Gaza, sradicati e dispersi in tutto il Medio Oriente: sono circa 5 milioni e mezzo,di serie B nei Paesi arabi e, in Palestina, in una condizione di status sospeso, occupati militarmente dall’esercito israeliano tra i più efficienti al mondo; senza Stato, economia, terra, attraversata com’è da Muri, occupata da insediamenti colonici così tanti che ormai mettono in discussione la continuità territoriale di una formazione statale possibile. E repressi violentemente nelle loro istanze di libertà, imprigionati a centinaia nelle galere dell’«unica democrazia» del Medio Oriente in mano all’estrema destra e a guida Netanyahu; costretti a vivere tra i posti di blocco e a subire la negazione della loro storia con l’attribuzione di tutta Gerusalemme all’occupante israeliano.
Almeno, pensò la comunità internazionale e gli Stati uniti in primis nel 1949 – a ridosso della Nakba, la cacciata dei palestinesi dalla loro terra -, aiutiamoli in questa condizione di profughi con un sostegno «che implementi la pace», la Risoluzione 194 nella fattispecie. Nacque coì l’Unrwa, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi. Non ha aiutato la pace a quanto pare, ma solo la sopravvivenza di milioni di bambini, donne lavoratori e soprattutto ha comunque salvaguardatocosì il diritto dei profughi a pensare di potere tornare nella loro terra. Diritto, del resto, costitutivo dello Stato d’Israele.
Bene. Ora il presidente Usa Trump, non contento della concessione a Netanyahu di «Gerusalemme capitale d’Israele», di fatto con lo spostamento dell’ambasciata americana, annuncia la cancellazione dei fondi statunitensi all’Agenzia Unrwa-Onu della quale sono stati il maggior contribuente con circa 380milioni di dollari. Un atto criminale, che svela insieme alla natura dei rapporti di forza e la tragedia di un popolo.
Un atto rischioso però, già qualcuno parla di una nuova Intifada che potrebbe essere innescata proprio da questo gesto che azzera l’intera condizione di un popolo senza offrire alcuna contropartita e alternativa di pace. Anzi no. Per i palestinesi c’è la tragicomica riproposizione-riedizione Usa, dagli anni Settanta e lì morta e sepolta, della «confederazione con la Giordania».
La protesta monta, ma c’è qualche reazione europea avveduta e importante insieme a troppi silenzi colpevoli e assordanti. Soprattutto da parte dell’Italia che ha storicamente avuto un ruolo importante nella crisi mediorientale. E che tace invece anche di fronte alla distruzione decisa dalla Corte suprema d’ Israele di una scuola, alle porte di Gerusalemme, costruita dagli italiani.
Così, mentre la «perfida» Germania e la Spagna hanno deciso, in risposta a Trump, di raddoppiare il loro contributo all’Unrwa, il governo italiano, a contratto M5S-Lega, tace. Sarà per l’andirivieni di Salvini e Di Maio all’ambasciata americana, sarà per la sostanziale subalternità, certo ereditata dai governi di centrosinistra, a gestire i disastri delle troppe guerre alle quali abbiamo partecipato.
Oppure sarà perché Trump finalmente mette in chiaro le volontà di potenza. Ma imbroglia, come sta facendo adesso con la crisi siriana e Idlib. Per non accettare la sconfitta della coalizione alleata che voleva fare a Damasco quello che nel 2011 era riuscito a Tripoli, ora il presidente americano si dice preoccupato della sorte dei civili a Idlib, circa 2milioni e mezzo di persone in mezzo a due fuochi, e intanto ostaggio di un raggruppamento a guida qaedista. Che dovrebbe invece abbandonare il campo, dice l’inviato dell’ Onu De Mistura, permettendo l’uscita e la liberazione della popolazione. Com’è accaduto nelle sconfitte jihadiste precedenti.
Intanto si prepara un’altra provocazione sulle presunte «armi chimiche» con spot di “caschi bianchi” finanziati dallo Stato cofondatore dei jihadisti, l’Arabia saudita. Trump poi diventa umanitario, a 5 giorni dalla dichiarazione della coalizione a guida Usa che bombarda in Siria, che ha ammesso tranquillamente di avere ucciso «involontariamente» – si chiama terrore dall’aria – mille civili nei raid su obiettivi siriani. E c’è da temere che anche i raid russi non risparmieranno i civili.
Ecco che Trump diventa «umanitario» in Siria e intanto cancella gli aiuti a 5 milioni e mezzo di profughi palestinesi. I quali, se potessero arrivare nel Mediterraneo sulle nostre coste e in tutta Europa, renderebbero ben chiara la loro disperazione. Ma non lo possono fare perché sono dentro un grande recinto di fili spinati, un posto sicuro, la «democrazia» militare israeliana.
Dovremmo aiutare i palestinesi a casa loro, almeno secondo la vulgata populista corrente. Ma l’Italia tace. E chi tace…

Repubblica 6.9.18
Sull’ambasciata è scontro tra Israele e il Paraguay
Asuncion, Paraguay


Il Paraguay ci ripensa e dopo appena 4 mesi trasferisce nuovamente la propria ambasciata in Israele da Gerusalemme a Tel Aviv. A decidere di spostare la delegazione diplomatica nella città santa — non riconosciuta come capitale dalla comunità internazionale — era stato in maggio l’ex presidente Horacio Cartes, sull’onda del gesto del presidente americano Trump.
Ma il mese scorso alla guida del paese è arrivato un suo compagno di partito, Mario Abdo, e ora la mossa di Cartes viene definita "viscerale e senza giustificazione". La decisione di ieri ha provocato l’immediata reazione del presidente Benjamin Netanyahu, che ha ordinato la chiusura dell’ambasciata israeliana in Paraguay e richiamato l’ambasciatore per consultazioni.

il manifesto 6.9.18
Yanis Varoufakis, la Grecia e il dilemma del prigioniero
«Adulti in una stanza», il memoir su sei mesi di lotta contro la Troika. L’ex ministro greco dell’economia è il cavaliere solitario contro il potere cieco, sordo e criminale. Il racconto della tragedia di un popolo, una versione del Macbeth nel paese di Edipo. Oggi al Festivaletteratura di Mantova per discutere il suo nuovo libro.
di Roberto Ciccarelli

Ci sono momenti in politica nei quali devi essere dalla parte giusta e perdere. È questa la regola seguita da Yanis Varoufakis in Adulti nella stanza. La mia lotta contro l’establishment europeo (La Nave di Teseo, euro 22), 896 pagine di racconto, scritto con mano epica, sui sei mesi in carica da ministro greco delle finanze terminati il 13 luglio 2015. Quel giorno il primo ministro Alexis Tsipras dichiarò la resa e accettò di firmare il terzo memorandum della Troika, nonostante il 61,5% raggiunto dal «No» nella consultazione referendaria avvenuta il 5 luglio precedente. In questa trama, piena di colpi di scena, intrighi ai massimi livelli, un noir economico-finanziario dal quale il regista Costantin Costa Gravas ha detto di volere trarre un film, Varoufakis si presenta come il cavaliere solitario, convinto delle proprie strabordanti capacità intellettuali, pronto a sfidare il potere cieco, sordo e criminale che ha condannato il suo paese.
SENTIRSI DALLA PARTE giusta, tuttavia, non solleva dalla sensazione che la vicenda raccontata possa essere descritta come il dilemma del prigioniero: obbedire alla Troika significa sottomettere la popolazione a conseguenze tremende simili a quelle subìte dal popolo greco; disobbedire significa trasformare un paese nel Bailoutistan (Bailout: salvataggio finanziario, quindi «Paese del Bailout»). Questo dilemma conosce un aggiornamento. Oggi, da un lato c’è chi evoca un nazional-populismo che predica il ritorno alle piccole patrie; dall’altro lato, un centrismo neoliberista che ripropone un’Europa senza referenti reali, capace di trasformare paesi come la Grecia in una «moderna versione della dickensiana prigione per i debitori, della quale avevano poi buttato via la chiave». Uno scontro tra due debolezze, entrambe fatali, che potrebbero peggiorare la miserabile agonia di un continente dopo le elezioni europee del 2019, contesa alla quale parteciperà anche Varoufakis  con la lista trasnazionale Diem25.
NON SAPPIAMO SE la soluzione al dilemma prospettata dall’ex ministro greco funziona. Al suo progetto di essere al tempo stesso dentro l’Europa e contro l’Europa antidemocratica e illiberale – «l’unica alternativa alla distopia che sta invadendo l’Europa che si sfalda» – non è stato dato il tempo necessario. Ma il brillante narratore, a cui non manca l’ironia che si trova nel Paul Krugman che scrive editoriali sul New York Times, resta convinto delle sue tesi. Basandosi su un lungo lavoro di ricerca accademica, Varoufakis affronta la tragedia con la teoria dei giochi in economia. Guarda l’abisso e dice la verità. È la forza della vittima: non ha scampo, ma usa virtuosamente la sua disperazione.
CON ALEXIS TSIPRAS, Varoufakis scrive di essersi accordato nel 2013-4 sulla linea della «disobbedienza costruttiva» articolata in tre punti: dire «no» alla continuazione del rinnovo dei finti debiti e dell’austerità che ne seguiva; fare ragionevoli proposte per ristrutturazione del debito, riduzione delle tasse e riforme; evitare che la signora Merkel dovesse dire ai suoi parlamentari la verità su quello che aveva fatto nel 2010: salvare gli investimenti delle banche tedesche e francesi facendo pagare il popolo greco, vittima dei suoi stessi governanti.
A DIFFERENZA di quelli che si oppongono all’euro e che vedono nella crisi l’opportunità di promuovere l’uscita della Grecia (Grexit), la posizione di Varoufakis è disobbedire alle direttive delle istituzioni dell’Eurozona. Andare ufficialmente in bancarotta, non pagare i creditori, è orrendo – annota l’economista – ma ha un aspetto positivo: il debito si riduce e hai di nuovo la possibilità di lavorare, metterti in sesto e riconquistare la fiducia di potenziali investitori. Come si è risanata la General Motors nel 2009, e come la Germania è tornata nel mondo dei vivi negli anni Cinquanta grazie a un sostanziale taglio dei debiti. Un taglio che non è stato concesso, imponendo alla Grecia una tragedia che Varoufakis descrive come «una versione di Macbeth nel paese di Edipo».
NEL RUOLO di Lady Macbeth c’è Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, tra l’altro favorevole al taglio del debito. «Quello che è fatto non può essere disfatto» avrebbe detto se fosse stata la protagonista della tragedia di Shakespeare. La Troika, Francia e Germania avevano investito troppo nel fallimentare programma per la Grecia per tornare indietro. Il libro di Varoufakis è dedicato alla tecnocrate francese a cui si deve anche il titolo Adulti in una stanza, espressione usata nel corso di una riunione. Ce ne sarebbero voluti molti per risolvere il dramma, ma in quella stanza non ci sono mai stati.
QUANDO ERA IN CARICA da ministro Varoufakis intendeva avviare un sistema parallelo dei pagamenti per assicurare una minima liquidità allo Stato e, nel frattempo, continuare a trattare. Se la Bce di Mario Draghi avesse chiuso le banche greche – cosa effettivamente avvenuta con conseguenze devastanti su un governo democraticamente eletto – Varoufakis avrebbe voluto rispondere svalutando unilateralmente i titoli cosiddetti «Smp» [Securities Market Programme] del debito. Nelle sue intenzioni ciò avrebbe dovuto boicottare il progetto di Draghi di comprare titoli del debito italiano, francese, spagnolo, irlandese e portoghese per salvare l’Eurozona. Tsipras non lo ha seguito e Varoufakis è stato costretto a dimettersi.
SE IL NEMICO mette sul tavolo una pistola, e tu sei disarmato, l’intelligenza non basta contro la violenza. Per sfidare dall’interno il sistema devi avere una politica capace di affrontare una guerra, non solo un progetto razionale. Varoufakis non aveva le truppe. Del resto nessuno oggi in Europa possiede una simile forza, nemmeno per imporre un europeismo politico e radicale. È difficile essere dentro e contro il sistema, questa l’amara conclusione del libro. Si resta outsider, e liberi, ma da fuori non è possibile cambiare il sistema. Dentro è peggio. È il limite dell’eroe-Varoufakis: la sua politica è individuale, forte solo della reputazione. La politica, tuttavia, è fatta anche di masse, egemonia, contraddizioni. Oggi, come ieri, è difficile andare in guerra da soli.
IL LIBRO, pubblicato in inglese nel 2017, non parla della fine del terzo memorandum avvenuto l’agosto scorso. Varoufakis non ha cambiato idea. In un recente articolo sul Guardian ha scritto che la Grecia è entrata «in un nuovo ciclo di austerità che durerà altri 42 anni di più profonda schiavitù per debiti (2018-2060)». «I creditori (…) hanno spinto il nostro popolo fuori da una scogliera e hanno celebrato il loro rimbalzo sulla dura roccia di una grande depressione come prova di “recupero”. Per citare Tacito, hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace».
QUESTA È ANCHE la storia di una reazione possente iniziata a piazza Syntagma nel 2011. Il racconto di Varoufakis si fa potente quando evoca lo spirito di un movimento che ha scosso profondamente la società greca, e quella europea, portando al governo Tsipras. Ed è la storia della disillusione che ha spezzato la voce di milioni di greci ed europei che hanno salutato con entusiasmo il «No» al referendum. Non si finirà mai di discutere se le decisioni di Tsipras siano state un tradimento della volontà popolare espressa dal referendum o se l’avere accettato il ricatto abbia permesso di evitare guai addirittura peggiori. In ogni caso il dilemma del prigioniero contiene una verità: l’austerità non è una politica economica, ma un moralismo disonesto che legittima il trasferimento di ricchezza a favore di chi ha, a spese di chi non ha.
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Oggi al Festivaletteratura
Autore del Minotauro globale (Asterios), libro sulle cause della crisi finanziaria, oggi Yanis Varoufakis è al Festivaletteratura di Mantova. Al palazzo Ducale in piazza Castello alle 15 interverrà con Tonia Mastrobuoni su «Europa, sovranità, democrazia». Adulti nella stanza è pubblicato da la Nave di Teseo.

il manifesto 6.9.18
La misura del Sole contro tirannide, sofismi e ipocrisia
Un percorso di letture su Tommaso Campanella, a 450 anni dalla nascita
Marco Bagnoli, «Città del sole» (1988, il dettaglio è del lucernaio)
di Gregorio De Paola


Il 5 settembre 1568 a Stilo, un piccolo paese della Calabria ultra, da Geronimo Campanella, ciabattino analfabeta e Catarinella Martello, nasceva Giovan Domenico, che più tardi, indossato il saio dei domenicani, prenderà il nome di Tommaso. Ricorrono dunque i 450 anni dalla nascita di uno dei «massimi pensatori del tardo Rinascimento» – per dirla con Eugenio Garin – noto soprattutto per un’operetta, capolavoro della letteratura utopistica, destinata (ma solo in tempi relativamente recenti, vale a dire dalla metà dell’Ottocento e sempre di più nel Novecento) a un grande successo, La Città del Sole.
Molto meno nota è invece la straordinaria ricchezza, nonché la complessità della sua figura e del suo pensiero, che emerge invece nitidamente da un recente saggio di Luca Addante dal titolo Tommaso Campanella. Il filosofo immaginato, interpretato, falsato (Laterza, pp. 256, euro 25).
ATEO O ZELANTE sostenitore dell’ortodossia cattolica, ribelle o fautore della monarchia spagnola o francese, dai suoi scritti sembra poter attingere argomenti per sostenere le posizioni più disparate. Nicola Badaloni, a proposito di Campanella, aveva parlato di magma, in cui convivono «la figura dell’astrologo, del profeta, dell’utopista, del realista politico», che ci restituisce un «caleidoscopio di immagini difficili da ricomporre a unità».
Del resto, a spiegare le ragioni profonde della difficoltà di dare di Campanella una lettura univoca, basta ricordare le drammatiche circostanze in cui furono composte le quasi 30mila pagine dei suoi scritti, tra processi e carcere (dove Campanella trascorse oltre 30 dei suoi 70 anni), sotto il controllo occhiuto e feroce di inquisitori e carcerieri, in un periodo in cui l’arte della dissimulazione era indispensabile alla sopravvivenza di chi osava pensare con la propria testa, nonché i mille ostacoli alla loro circolazione, ostacoli che in molti casi durano tuttora.
Il volumetto che al giovane Campanella dedica Piero Bevilacqua dal titolo Il Sole di Tommaso (Castelvecchi, pp. 76, euro 12) è un dramma storico che tiene presente tutto questo eppure, con un’operazione coraggiosa, sceglie di semplificare la complessità della materia, dandoci un Campanella tanto plasticamente costruito su solide basi storiche e documentali (i testi di Amabile e l’opera poetica, in particolare) quanto capace cogliere il senso profondo della sua ricerca e di restituircene insieme l’attualità: «Come è possibile, come può succedere su questa Terra che così pochi uomini si siano impadroniti della vita di tutti?» si chiede Campanella nel lungo soliloquio conclusivo del V atto, ormai sconfitto e in carcere dopo la scoperta della congiura del 1599 per liberare la Calabria dal giogo spagnolo, e sopravvissuto eroicamente alla tortura al prezzo di fingersi folle, pur consapevole che «il viver sporca chi per viver finge».
Non inganni quindi il titolo del lavoro di Bevilacqua: non siamo di fronte all’ennesima riproposizione del Campanella utopistico, decontestualizzato dalle terribili circostanze della composizione e dal resto della sua opera.
SE IL SOLE RIMANDA all’opera più nota di C., e quindi al sogno di una società non più lacerata dalle ingiustizie e dalla violenza, il dramma intende ricostruirne semmai l’altra faccia, grandiosa e tragica. Grandiosa per l’ampiezza del progetto: nei 5 atti che compongono il dramma (Nicastro 1585 e 1588, Napoli 1589 e 1591, Roccella Jonica 1599, di nuovo Napoli aprile e ottobre del 1599) assistiamo partecipi al progressivo ampliarsi dell’orizzonte di Campanella: lo sdegno per le odiose sopraffazioni degli umili (come quelle della vecchietta che fatica a procurarsi la legna indispensabile o l’umiliazione del contadino cui il barone del luogo insidia la moglie e la figlia, del I atto – scene che riportano significativamente al giovane Marx e a Manzoni), si dilata a critica radicale della Chiesa, della nobiltà, del dominio spagnolo, della filosofia scolastica, dell’aristotelismo («pensiero unico» di quell’epoca) e appassionata difesa e progettazione, giustificata anche sulla base di calcoli astrologici e profezie, di un nuovo ordine intellettuale e politico: «I contadini sono più filosofi degli aristotelici. Osservano la natura delle cose, la terra e le piante, l’acqua e il vento, con gli occhi e con le mani, non ripetono le formule dei libri».
DECISIVO L’INCONTRO con la lezione di Telesio, l’intuizione di trovarsi davanti a un passaggio epocale in cui è essenziale la libertà di pensiero, convinzione che porterà Campanella a farsi coraggioso difensore di Galilei. Tragica per l’esito: il tentativo rivoluzionario, come è noto, sarà stroncato sul nascere, e Campanella condannato al carcere a vita, da cui uscirà solo nel 1626.
Ad alimentare una volontà indomita restava però la convinzione di avere ancora come intellettuale una missione da compiere: «Io nacqui a debellar tre mali estremi/ tirannide, sofismi, ipocrisia», a «diveller l’ignoranza» di quel popolo che ignora la sua stessa forza: «il popolo è una bestia varia e grossa/ ch’ignora le sue forze; e perciò stassi/ a pesi e botte di legni e di sassi/ guidato da un fanciul che non ha possa».

il manifesto 6.9.18
Steve Bannon e la società dell’odio
Venezia 75. La Storia e il presente degli Stati uniti raccontato da Errol Morris in «American Dharma». Protagonista del doc è lo stratega di Trump, in un faccia a faccia con il regista
di Cristina Piccino


VENEZIA Tra i «buoni» e i «cattivi» Errol Morris sceglie quasi sempre questi ultimi come lente possibile attraverso la quale indagare la Storia e il presente dell’America – eccezione, la magnifica serie presentata lo scorso anno sul Lido, Wormwood, quasi invisibile su Netflix. Forse perché spogliati dall’accezione «demoniaca» di un male astratto e messi davanti alle macchina da presa a motivare le proprie scelte e azioni, alcuni personaggi «critici» assumono una concretezza che ci costringe a confrontarci con ciò di cui si fanno portavoce – o che riescono abilmente a manipolare. Morris non li mostra come i «nemici», o come il male assoluto, cosa che è per certi aspetti rassicurante; le sue sono investigazioni a tutto campo, costruite sul dubbio più che sulla certezza, che all’attualità uniscono altri elementi, guardano indietro, scandagliano il mito e gli immaginari.
Era così in The Fog of War: Eleven Lessons from the Life of Robert S. McNamara (2003), lunga conversazione con uno dei principali artefici della guerra in Vietnam, o in The Unknown Known, faccia a faccia con Donald Rumsfeld, guerrafondaio segretario della difesa di Bush (e di molti altri). Lo stesso accade in questo nuovo American Dharma, presentato fuori concorso ieri, la cui materia è ancora più sfuggente perché le questioni che solleva hanno contorni ancora indefiniti, appartenendo a un presente in svolgimento. Il protagonista è infatti Stephen K. Bannon (presenza clandestina alla proiezione ufficiale ieri dove sembra sia entrato di soppiatto a luci spente scomparendo prima degli applausi), ideologo dell’alt right, e principale stratega della campagna elettorale di Trump che lo ha nominato consigliere della sicurezza per allontanarlo dalla Casa Bianca nel 2017 dopo le violenze di Charlottesville (l’attacco dei suprematisti contro il corteo antirazzista) che Trump non ha mai condannato apertamente.
Un gesto di opportunismo o di convenienza? – perché il potere di Bannon era troppo cresciuto al punto che c’è chi lo rappresentava come il burattinaio del presidente («Time»). Questo non significa che sia declinato, anzi Bannon è divenuto l’ispiratore dei movimenti nazionalisti e populisti in Europa, Salvini compreso con cui condivide gli obiettivi, razzismo, caccia all’immigrazione, ma soprattutto l’abilità di stumentalizzare quella parte della società più debole e incazzata, facendogli credere di essere a suo fianco mentre elabora alleanze coi grandi capitali che li schiacceranno.
Destino, dovere, fede, cosa è il «dharma» per Bannon che potremmo definire «un abile figlio di puttana» ascoltandolo nelle sue convinzioni? E quale la «rivoluzione» incendiaria di cui vede l’arrivo imminente? Morris e Bannon si conoscono da tempo, al rimprovero che l’uomo gli fa per avere votato Hillary Clinton alle primarie il regista risponde che lo ha fatto per paura: «Avevo paura di voi, di te», e Clinton era la candidata pensava potesse farcela. Nella conversazione, uno di fronte all’altro e davanti a un tavolo, quasi nient’altro a parte qualche divagazione di stile – orologi fermi, lampadari che oscillano – Morris pone le sue domande senza attaccarlo, non è questo che lo interessa appunto. Non è il processo o la messa in accusa o la presa di distanza dichiarata con nettezza sin dall’inizio. Il suo metodo di osservazione punta alla sostanza, vuole capire cosa sono quelle idee, da dove nascono, in che modo diventano pensiero condiviso e linguaggio che affranca violenza e intolleranza.
Bannon identifica in Trump la figura ideale per «ristrutturare» la vita politica, solo uno come lui che nel proprio linguaggio affranca la «cautela» politica anche dei conservatori – «Aveva il fegato per farlo», lui ha già iniziato curando il sito di estrema destra di Andrew Breitbart, «Breitbart news», sa come usare media – e spettacolarizzare «bene» e «male»”. Il Bannon buono è quello accanto ai poveri, il cattivo tutto il resto. Peccato che come gli fa notare Morris i piani della loro politica sono tutti a favore dei ricchi. Dunque? Il film preferito di Bannon, citato molte volte nel corso della conversazione è Cielo di fuoco di Henry King (1949), la doppia idea di leadership sul campo della seconda guerra mondiale espressa da un vecchio comandante, più vicino ai sioi uomini, e un altro più duro ma che non reggerà lo stress.
Ci sono altri film che dialogano con il Bannon-pensiero, Sentieri selvaggi di Ford o Falstaff di Welles, Il ponte sul fiume Kwai di Lean in una relazione con l’immaginario che ne strumentalizza i significati secondo la necessità, quasi che lì si rispecchino i desideri di una nazione. Questione di punti di vista, naturalmente. Questa prospettiva ne spalanca altre: l’America del «caos» in cui è precipitata dal 2016 – come dice Morris – è quella della violenza durante la campagna elettorale, dei commenti feroci sui social network, dell’insulto utilizzato come «normale» mezzo di confronto, della rete che diviene l’arma privilegiata per rovinare l’avversario a colpi di wikileaks scandali sessuali.
La strategia di Bannon fa rimbalzare quell’immaginario nel presente social, nello sfogo della rete per renderlo realtà. La campagna di Trump la costruisce sui posti di lavoro, sulla miseria che i migranti contribuiscono a accrescere, sulla necessità del protezionismo. Replica Morris: «Ma davvero pensate che la gente creda che se si blocca l’immigrazione ci sarà più occupazione? Diciamo più semplicemente che alla gente non piacciono i messicani». Questo è il punto. L’immaginario come cartografia del rancore contemporaneo, quel razzismo sedimentato, che quel linguaggio politico (come in Italia il linguaggio di Salvini) accarezza, esalta, libera, rende parlare comune, scelta di voto. È la stessa tattica di ogni populismo, è la consapevolezza necessaria al confronto con la realtà del presente che Morris illumina con chiarezza. Senza soluzioni pronte, ma l’inquietudine di una domanda che è l’urgenza dell’oggi.

il manifesto 6.9.18
Errol Morris: «Il mondo è in pericolo, non possiamo rifiutarci di vederlo»
Venezia 75. L'incontro con il regista che ha portato fuori concorso «American Dharma», sulla figura di Steve Bannon. «Quell’uomo - spiega - riesce ad attirare l’attenzione dei media. Dargli l’opportunità di aver ancor più visibilità è sbagliato, ma al contempo indagare è necessario»
di Giovanna Branca


VENEZIA All’incontro stampa di aAmerican Dharm Steve Bannon non c’è – non è invitato dal regista Errol Morris né dal Festival – ma l’ex stratega di Trump ha fatto ieri la sua comparsa «in incognito» alla proiezione ufficiale del film, dove è entrato quasi di soppiatto, mescolandosi col pubblico e – come riporta Variety – ha assistito alla proiezione dalla balconata, negandosi ai giornalisti probabilmente per attirare ancor più l’attenzione su di sé. E proprio «l’attenzione» data a Bannon dal documentario del quale è protagonista è stata al centro di un acceso dibattito con il regista, accusato di aver con il suo American Dharma «normalizzato» il male che Bannon rappresenta, di aver partecipato a una sovraesposizione mediatica che fa il gioco di uno dei peggiori esponenti dell’Alt Right americana . «Anche io sono stato combattuto su questa idea, e lo sono tutt’ora, ma la mia risposta non è stata rimanere zitto, non fare questo film», ha risposto Morris. «Steve Bannon, come anche Trump, ha un’abilità straordinaria nell’attirare l’attenzione dei media. Dargli un’opportunità di avere ancor più visibilità è un male, ma allo stesso tempo indagare, cercare di capire, è assolutamente necessario». La necessità di capire, sottolinea Morris, è alla base del suo documentario: «Nel mondo, e negli Stati uniti, stanno accadendo cose profondamente inquietanti: è fondamentale comprendere cosa sta succedendo – su di noi incombe un terribile pericolo e non possiamo rifiutarci di vederlo». Il suo mestiere, anche da giornalista – sottolinea – non è solo «discutere le opinioni altrui, ma indagare».
Tutti gli eventi che negli Stati uniti hanno portato all’elezione di Trump nel 2016 sono stati come «una tempesta perfetta». Così come la carriera di Bannon «che lo ha portato a diventare all’ultimo secondo il manager della campagna elettorale» del tycoon. «Come è potuto succedere, e perché?», si chiede quindi Morris. Girare questo film, continua, gli ha consentito di scoprire cose che ignorava su Bannon, come ad esempio la sua cinefilia: «È stato uno shock sentirmi dire che il mio documentario Fog of War era stato così determinante per lui». Ma i film sono anche quelli che Bannon cita spesso e volentieri nella lunga intervista con Morris: «Quando ho scoperto che era un cinefilo gli ho chiesto di mandarmi la lista dei suoi film preferiti, e mi ha sorpreso. C’erano opere di John Ford, Kubrick, Orson Welles… Nel dialogo con lui i film funzionano come delle macchie di Rorschach: Bannon ci vede delle cose spesso completamente all’opposto di come le interpreto io».
Una delle domande alle quali Morris dice di aver cercato di trovare una risposta attraverso il suo film è la reale natura delle convinzioni dell’uomo che è stato così determinante nell’elezione di Trump: «Crede davvero a ciò che dice o è solo un venditore, un opportunista che sfrutta delle idee terribili per ottenere potere? Io propendo per la seconda ipotesi ma c’è qualcosa nelle sue affermazioni che mi fa pensare che invece faccia per davvero. E questo lo rende ancora più pericoloso: nelle sue convinzioni c’è un fondo apocalittico che va ben oltre lo stesso rischio posto da Trump, che secondo me non ha neanche un’ideologia, vende solo se stesso». Parlarne, Morris ne è convinto, «è straordinariamente importante».
Il ventesimo secolo – continua infatti il regista – «è stato teatro di una terribile carneficina, per questo ci siamo dati delle organizzazioni internazionali affinché questo non accada più. Ma oggi in America sembra che si sia persa la consapevolezza della Storia». E ora Bannon punta sul Vecchio continente che, spiega Morris: «vorrebbe ridurre a un insieme di stati nazionali in guerra tra loro, distruggendo la moneta unica, le Nazioni Unite. Sta cercando di esportare il suo metodo in Europa, una cosa che deve fare molta paura».

il manifesto 6.9.18
A Utoya il testacoda della democrazia
Venezia 75. In concorso «July 22» di Paul Greengrass sul terribile eccidio sull'isola norvegese da parte del neonazista Anders Breivik
di Silvana Silvestri


VENEZIA Un corretto esempio di cinema civile, anche se convenzionale nella sua costruzione è il film in concorso 22 July del regista inglese Paul Greengrass che racconta la strage avvenuta il 22 luglio 2011 nell’isola di Utoya compiuta dal neonazista norvegese Anders Breivik dopo aver fatto esplodere un’autobomba di fronte al parlamento di Oslo. Il film si concentra soprattutto sul funzionamento della democrazia e dell’ordinamento giudiziario in Norvegia e per riflesso nel nord Europa a dimostrare la superiorità culturale di fronte a qualunque estremismo.
I 77 morti e il centinaio di feriti sono il prologo agghiacciante per concentrarsi poi sulle vicende giudiziarie del «Capitano dell’ordine di Malta» che si considerava un soldato in missione di guerra per sterminare liberali, marxisti e figli della classe dirigente, i futuri leader di un paese diventato troppo multiculturale, guerra solitaria scatenata per riprendere il controllo della Norvegia. Il regista di Bloody Sunday sui fatti di Derry nel 1972, e altri successi di pubblico come Bourne Supremacy, Jason Bourne, sul funzionamento dei servizi segreti in Inghilterra, si basa in questo caso sul libro di Åsne Seierstad, Uno di noi, la storia di Anders Breivik dove conseguenze, elaborazione del lutto e situazione processuale sono il centro del racconto.
Storie di impatto ancora più forte dopo aver assistito nella prima settimana della mostra a film dove la costante violazione dei diritti civili era la norma in più di un paese latino (Italia, Argentina, Brasile, Messico…). Breivik appena arrestato è subito messo in contatto con il suo avvocato, con un medico, con gli psichiatri che potrebbero anche far sospendere la pena detentiva. Le domande che si pone la gente comune di fronte al massacro, il diritto alla difesa sia pure di un mostro, il corretto svolgimento del processo sono la chiave del film che vuole mostrare la superiorità della democrazia liberale, aperta e multiculturale. «Il cinema – ha spiegato in conferenza il regista – può mostrarci amore e meraviglia, ma qualche volta deve guardare con coraggio e risolutezza il mondo così com’è, come si muove, dove va e come possiamo affrontarlo. Sono partito da questa idea per raccontare questa terribile vicenda».

Corriere 6.9.18
Quei ragazzi uccisi a Utoya Tensione e crisi di coscienza
Greengrass racconta la strage e i dubbi dell’avvocato di Breivik
di Paolo Mereghetti


Come tanti film che raccontano fatti reali, anche 22 July di Paul Greengrass si chiude con una serie di cartelli su fondo nero. Prima, il film ha ricostruito la follia omicida di Anders Breivik (l’autobomba a Oslo e la spedizione sull’isolotto di Utoya armi in pugno: 77 morti e più di 300 feriti) e poi ha raccontato in parallelo la difficile riabilitazione di uno dei giovani, la difesa che un avvocato progressista si sente obbligato a offrire al terrorista e l’inchiesta promossa dal primo ministro per accertare le responsabilità.
Dopo che la ricostruzione (in corretto stile professional-seriale: Greengrass sa come tenere alta l’attenzione) è terminata con la condanna dell’imputato, sullo schermo nero leggiamo i destini dei vari protagonisti: Breivik in isolamento, l’avvocato al lavoro a Oslo, il giovane all’università, il primo ministro in carica fino al 2013.
Ma per una volta il «messaggio» ci viene da quello schermo nero, perfetta rappresentazione della resa del cinema (cosa c’è di più evidente della mancanza di immagini per rappresentarla?) di fronte a qualcosa che per tutta la durata del film abbiamo avuto sotto gli occhi ma che sembrava volerci sfuggire: la radicale distanza tra l’agire degli uomini — le loro leggi e le loro regole — e l’agire di chi quel patto sociale lo nega col terrore. L’impossibilità di un qualsiasi confronto.
Nelle scene finali, l’avvocato si rifiuta di stringere la mano al suo «cliente» e il giovane, che ha perso anche un occhio, finisce per esserne contento perché così può «non vederlo».
Ma l’imperturbabile volto di Breivik è lì a ricordarci che né la condanna del tribunale né il dolore o il disprezzo sono riusciti a scalfire le sue certezze. E quello schermo nero ribadisce una distanza drammaticamente invalicabile, una differenza così radicale da non essere nemmeno rappresentabile.
Chi invece non si tira indietro rispetto alle immagini è Carlos Reygadas che impiega i 173 minuti di Nuestro tiempo (Il nostro tempo) per raccontare la crisi matrimoniale tra Juan e Esther, allevatori di tori da combattimento nella campagna messicana. Lui, che è anche un poeta di fama mondiale, ha sempre teorizzato la libertà del vincolo matrimoniale ma quando lei si accende di passione per un addestratore di cavalli, le sue teorie entrano in crisi. Juan le rinfaccia la mancanza di sincerità, Esther le sue contraddizioni mentre si moltiplicano le tentazioni adulterine, a volte favorite da un marito voyeur.
Rispetto al precedente e discusso Post Tenebra Lux, Reygadas abbandona i simbolismi e le situazioni simil-hard, stemperando anche il suo spirito anti-borghese; ma l’impressione è che la sincerità che a tratti si legge tra gli estenuanti soliloqui dei protagonisti (pensieri o lettere declamati a voce alta) finisca per perdersi nella sua voglia di filmare tutto e il contrario di tutto.
I tori allo stato brado che lottano per non si sa quale supremazia possono anche essere metafore del maschilismo alfa, i bambini che giocano e scherzano nel fango sono forse il segnale di una vitalità primigenia ma si fatica a trovare la necessità di queste scene dentro l’economia del racconto. E alla fine vince la sensazione che sia il piacere della ripresa a prendere il sopravvento sulla regia, non viceversa.

Repubblica 6.9.18
Paul Greengrass "La strage di Utoya poteva accadere ovunque in Europa"
Con "22 July" il regista racconta cosa successe dopo la carneficina dell’estremista norvegese Breivik
intervista di Arianna Finos


VENEZIAA pochi mesi da U- July 22, firmato dal norvegese Erik Poppe, presentato all’ultima Berlinale, arriva un film con un titolo simile, 22 July, e sullo stesso tema: la strage del 2011 a Utoya, il campeggio di adolescenti attaccato dall’estremista di destra Anders Breivik, che prima aveva fatto esplodere un’autobomba a Oslo.
Settantasette vittime in tutto.
Si tratta però di approcci e risultati completamente diversi.
Nei 72 minuti del film norvegese si ricostruiva in tempo reale la fuga dei ragazzi sull’isolotto, tra spari e uccisioni, senza mai vedere il killer. Quello del britannico Paul Greengrass invece, che si vedrà su Netflix dal 10 ottobre, è soprattutto il racconto umano e giudiziario di ciò che è successo dopo, attraverso la strategia processuale di Breivik e la riabilitazione fisica e psicologica di uno dei giovani feriti.
Greengrass, perché ha voluto questo film?
«Non ho visto quello norvegese.
In realtà lavoravo a un progetto sulle migrazioni. Ho fatto ricerche in posti come Lampedusa, sul traffico di esseri umani.
Ma poi ho deciso di raccontare i fatti di Utoya perché sono molto preoccupato della crescita della destra, attraverso l’occidente e l’Europa.
Un percorso che è iniziato con la grande crisi economica del 2008, si è accresciuto con i fenomeni della migrazione e la paura degli immigrati cavalcata da forze populiste nel mio paese, la Gran Bretagna, e anche in Italia. Non succedeva dalla Seconda guerra mondiale. I miei nonni e genitori hanno attraversato il conflitto, toccato con mano a cosa portino l’odio e la divisione. Sono riusciti a costruire una struttura capace di contenere il nazionalismo che però si è erosa negli ultimi quindici anni. Ciò che è successo in Norvegia poteva accadere in ogni parte d’Europa e degli Stati Uniti».
Nel film norvegese Breivik non compariva, lei lo ha messo al centro.
«Non volevo creare un ritratto simpatetico, ma sarebbe stato un errore dipingerlo come un mostro. Ma attraverso la caratterizzazione che ne abbiamo dato si capisce come, malgrado il passato tribolato e i problemi familiari, la motivazione principale di ciò che ha fatto era politica. Si vedeva come il portabandiera della rivolta dell’estrema destra in tutto l’Occidente. Quello che mi interessa è la sua retorica, gli argomenti usati che oggi sono diventate posizioni mainstream».
Alla Mostra c’è anche un documentario di Errol Morris dedicato a Steve Bannon.
«Non sarebbe giusto fare un collegamento diretto tra le posizioni di Breivik e quelle di Bannon. La retorica è la stessa, ma i metodi sono molto diversi.
Ma di certo in comune ci sono certe parole, certi argomenti, certi modi di vedere il mondo.
Il problema è che dentro forze di destra legittime che sono nate, anche in Europa, raccogliendo la rabbia degli sconfitti dalla globalizzazione, si annida un nucleo più oscuro che è quello del nazismo, della violenza.
E a quelle dobbiamo fare attenzione, perché è già successo negli anni Trenta in Germania e sappiamo come è andata a finire».
La reazione della Norvegia è stata una riaffermazione delle regole della democrazia, che tutela anche i colpevoli. Breivik è stato condannato a 21 anni.
«Sì. La reazione è stata la stessa da parte della società, dei politici, degli avvocati, delle famiglie delle vittime. Il mio non è un film sull’attacco ma su cosa è successo dopo la strage. Nei miei film ho dipinto spesso politici corrotti, è divertente e aiuta la democrazia essere scettici sui leader.
Ma stavolta volevo ricordare quelli che si pongono al servizio dello stato, come è successo in Norvegia. La democrazia deve lottare per difendere sé stessa attraverso i mezzi che ha a disposizione».
Il suo film sembra diretto al pubblico dei giovani.
«Non è la mia generazione ma quella nuova che dovrà rendersi conto di quel che succede e dovranno reagire per scegliere in che mondo vogliono vivere.
Non penso che si lasceranno sopraffare. Gramsci diceva: "Il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Se non saremo più in grado di far nascere una più razionale organizzazione della società sulle rovine dell’attuale, andremo incontro a un’epoca ancora più oscurantista e imbarbarita della presente".
È quel che viviamo ora: dopo quarant’anni c’è qualcosa che sta cambiando nell’Occidente, ma non è chiaro cosa succederà.
Io sono ottimista».

Corriere 6.9.18
Khaled Hosseini e il monologo per Alan: accogliere è un dovere, in Sicilia generosità travolgente
In libreria per Sem la «Preghiera del mare» che l’autore del «Cacciatore di aquiloni» dedica al padre del bimbo siriano annegato
«Con me, nella pelle dei profughi »
di Luigi Ippolito


LONDRA Un libro in controtendenza, l’ultimo lavoro di Khaled Hosseini, l’autore di bestseller planetari come Il cacciatore di aquiloni o Mille splendidi soli. Un libro che parla di profughi, di chi affronta la traversata, spesso mortale, delle acque del Mediterraneo: e che si mette dalla loro parte, nei loro pensieri, nella loro pelle. E questo nel momento in cui l’Europa, l’Italia, preferisce guardare da un’altra parte, alzare i ponti, chiudere i porti. Come se distogliere lo sguardo servisse a negare la tragedia.
Preghiera del mare è il monologo di un padre che stringe tra le braccia il suo bambino su una spiaggia, di notte, prima di affrontare il viaggio verso l’ignoto. È un testo breve, scritto di getto, in un pomeriggio — forse resterà deluso chi si aspettava un nuovo romanzo di Hosseini — ma di grande intensità, illuminato da una parola poetica che è accompagnata dai disegni evocativi di Dan Williams, artista londinese.
Il libro è stato ispirato direttamente dall’immagine di Alan Kurdi, il piccolo profugo siriano fotografato morto, bocconi su una spiaggia turca, nel settembre di tre anni fa: un’istantanea che aveva scosso, per una breve stagione, le coscienze del mondo. «Ho visto Alan come genitore — racconta Hosseini — i miei pensieri sono andati subito a suo padre, che era sopravvissuto al naufragio. Ho provato a immaginare come fosse essere lui, quali potessero essere i suoi pensieri. Ho voluto scrivere un tributo a quella fotografia: ma non soltanto a loro, bensì alle migliaia di persone che si trovano in quella stessa situazione».
Hosseini è andato a scavare nella singolarità del profugo, nella sua umanità irripetibile, perché «dietro i titoli dei telegiornali e le statistiche che leggiamo ci sono esseri umani, che hanno diritto di esistere e di essere trattati con rispetto». Ma chi è il profugo, per lo scrittore afghano trapiantato in America? «Prendi uno specchio e guardati — dice — potresti essere tu. Ognuno di noi può diventare profugo, avere la vita sconvolta da eventi imprevedibili, essere costretto ad abbandonare tutto». E lui sa di cosa sta parlando: aveva 14 anni quando i carri armati sovietici invasero l’Afghanistan, sorprendendo lui e la sua famiglia a Parigi, al seguito del padre diplomatico. Capirono subito che la loro patria, la loro casa, le loro cose erano perdute. Approdarono da rifugiati negli Stati Uniti: il giovane Khaled si ritrovò in una scuola della California senza parlare una parola di inglese, incapace di comprendere i suoi coetanei e i loro costumi. Finì a passare il tempo con un gruppo di ragazzi cambogiani: non si capivano, ma li accomunava la stessa condizione, quella del profugo.
È per questo, perché l’esperienza dello sradicamento lo ha toccato nel vissuto più profondo, che Hosseini ha dedicato il suo impegno alla causa dei rifugiati, diventando Ambasciatore di buona volontà dell’Unhcr, l’agenzia Onu che si occupa dei profughi: e così anche i proventi di Preghiera del mare andranno ai fondi umanitari. In questo suo ruolo lo scrittore ha visitato le regioni che ospitano gli sfollati, è stato nei campi di raccolta, si è seduto con la gente, ha ascoltato le loro storie. Ed è rimasto impressionato da quello che ha visto in Sicilia: «A Pachino ho visitato un centro per rifugiati minorenni — racconta — e sono stato travolto dalla generosità dimostrata dalla gente locale: l’intera città aveva aperto le porte e i cuori».
Non è sempre così, tuttavia. Anzi. Il sentimento che percorre in questo momento l’Europa è di ostilità verso chi si affaccia sulle sue sponde, i partiti e i movimenti che si fanno impresari della paura mietono consensi.
«Penso che molta della negatività e della paura che vediamo in giro sia basata su una cattiva comprensione della realtà, che però è diventata prevalente. Ogni discussione deve cominciare con questa verità fondamentale: fuggire dal propio Paese non è qualcosa che la gente sceglie di fare. Nessuno mette i bambini nella barca finché l’acqua non è piu sicura della terra, nessuno lascia la casa senza che la casa dica: vai via, non so cosa sono diventata. Sono scelte esistenziali, la gente non viene per sfruttare le ricchezze o i lussi dell’Europa, vengono perché sono costretti dalle circostanze che li portano a prendere queste decisioni difficili, che sono la loro ultima istanza. Questo bisogna capire, che non è una scelta».
Lei però in questo modo sembra inquadrare l’intero fenomeno migratorio come una questione di rifugiati, di gente che fugge da guerre o dittature. Siamo invece di fronte a qualcosa di più ampio, di portata epocale, che richiede risposte di lungo periodo.
«Certo, non è solo un problema di profughi, è qualcosa di più grande. Ma il mio primo pensiero va alle persone che hanno bisogno di protezione: che invece viene negata da certe politiche, tipo affidarsi ad autorità al di fuori dell’Europa, come la Libia, dove la gente soffre indicibili abusi. La Libia non è sicura, non si può rimandare lì la gente: che scelte abbiamo quando le persone muoiono sulle nostre spiagge? Non possiamo guardare altrove e spostare le responsabilità fuori dall’Europa. Dobbiamo assicurarci che chi ha diritto all’asilo vi abbia accesso. È vero, non c’è solo questo, molti vengono alla ricerca di una vita migliore: ma dobbiamo guardare perché la gente parte. La risposta a lungo termine è affrontare le condizioni che costringono le persone ad abbandonare le loro case, a pagare i trafficanti e rischiare di annegare per arrivare sulle coste europee: dobbiamo investire in quei Paesi, nello sviluppo, nelle infrastrutture, mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Non ci sono soluzioni semplici o rapide, dobbiamo pensare sul lungo termine».
Cosa direbbe ai politici che scelgono invece la strada della chiusura, dei respingimenti?
«Non giudico chi ha paura ma, a meno che tu non sia un sociopatico, quando ti siedi di fronte a quella gente non puoi non capirli. Allora direi: guarda, pensiamo a politiche che possano ridurre queste tragedie, le persone non dovrebbero morire sulla nostra soglia quando neghiamo alle navi di attraccare. C’è una santità nella vita umana. Quelle persone in mare sono spesso famiglie , bambini soli: in quel momento la priorità deve essere di salvare le vite, la decisione su chi ha diritto all’asilo deve essere presa dopo averli salvati, dopo lo sbarco, in modo sicuro, in centri di accoglienza. Abbiamo una responsabilità legale verso le persone che si presentano alla nostra porta».
Molti in Europa, più che dagli effetti economici, sono spaventati dai contraccolpi culturali dell’immigrazione di massa.
«Io non sono europeo, vivo negli Stati Uniti, dove abbiamo una popolazione di immigrati e rifugiati molto ricca e variegata. E posso dire con la mia esperienza che gli Usa sono diventati una nazione migliore e più forte grazie alla loro diversità. I rifugiati e gli immigrati contribuiscono con milioni di dollari all’economia americana: sì, c’è un costo iniziale, ma dando tempo i rifugiati alla fine sono una risorsa dovunque giungano».

Corriere 6.9.18
Enzo Ciconte ricostruisce le vicende della repressione del banditismo in Italia (Laterza)
Guerra ai briganti , non alle mafie Una politica scellerata e disastrosa
di Gian Antonio Stella


«C’è un diffuso mercato delle teste. È abituale trovare in vari tribunali ambigui figuri che si aggirano con capienti ceste piene di teste tagliate e messe sotto sale perché si conservino meglio e più a lungo». Gela il sangue il racconto di Enzo Ciconte sui momenti più bui della guerra al brigantaggio. Quando, appunto, era in vigore in vari Stati italiani «la regola che, ucciso un bandito e portata la sua testa al podestà, si aveva diritto a scegliere tra una taglia proporzionata alla nomea della vittima e la cancellazione del bando a carico di un parente, di un amico o di un servitore». La testa di un bandito per la libertà di un altro. Ammesso che il decapitato fosse sul serio un brigante e non un poveretto messo a morte perché spiantato, come un certo Antonio Benaglio che il Consiglio dei Dieci veneziano ordinò ai rettori di Bergamo di arrestare «trattandosi di sogeto di conditione vile et consuetudinario nei delitti li soli inditii bastano per ordinarne la retentione».
Fu spietata e disumana, per secoli, soprattutto nel Mezzogiorno ma non solo, la repressione dei «briganti», criminali o idealisti che fossero, di cui parlerà oggi lo storico calabrese presentando a Mantova il libro La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza). Basti ricordare che quasi tre secoli prima dell’eccidio degli abitanti di Casalduni e Pontelandolfo, il peggior crimine compiuto dalle truppe italiane dopo l’Unità, Papa Sisto V era stato così duro nel «metter ordine» che, scrive la Treccani, «il noto avviso del 18 settembre 1585» ironizzava che «quell’anno erano state esposte più teste di banditi a ponte S. Angelo che meloni al mercato».
«Per distruggere il brigantaggio abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi: ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato», ammonì Paquale Villari. Certo, non tutti furono ciechi. Il deputato milanese Giuseppe Ferrari, raggiunta faticosamente Pontelandolfo, denunciò in Parlamento già nel 1861: «Io vi proposi di fare un’inchiesta affinché una metà della nazione conoscesse appieno l’altra metà, e le due parti della Penisola si unissero fraternamente; mi rispondeste essere l’inchiesta inutile, i mali passeggeri…».Tutti sordi.
E così, spiega Ciconte, «esiste un numero sterminato di libri o articoli che hanno descritto le efferatezze, la crudeltà, gli eccidi, le stragi, gli episodi di gratuita e selvaggia violenza dei briganti» e insieme, per citare Giuseppe Galasso, «pagine e pagine di romanzieri o di storici» che al contrario li descrivono «come eroi, uomini senza paura in grado di tenere testa ai potenti del tempo, giovani affascinanti con un grande sprezzo del pericolo», al punto che «le figure dei briganti e le loro gesta sembrano essere entrate nell’albo d’oro delle memorie locali». Ma «come si conciliano o si spiegano due letture così opposte e divergenti?»
Risposta non facile. A volte i briganti furono davvero dei ribelli che via via combattevano le angherie spagnole, francesi, borboniche, savoiarde… Altre erano disperati oppressi dalla fame, altre ancora criminali calzati e vestiti o un impasto degli uni e degli altri. La grande mattanza si concentra però non sui vinti (torto o ragione che avessero), ma sulla belluina «ferocia di Stato» dei vari repressori. Che dichiaravano d’aver tutti lo stesso obiettivo: «Il Terrore. Seminare il Terrore».
Ed ecco le teste mozzate riposte in piccole gabbie di cui scrive Édouard Gachot parlando di «cinquecento gabbie esposte lungo la strada per Napoli». E l’ordine di Gioacchino Murat: «È una guerra di sterminio che voglio contro questi miserabili!» E l’invettiva del generale Manhès contro gli abitanti di Serra San Bruno: «Vivrete come i lupi delle vostre foreste. Voi donne, genererete figli che vi saranno aspidi!» E la lettera del generale Morozzo Della Rocca a Cavour: «Un po’ di metodo soldatesco è medicina salutare a codesto popolo». E certi messaggi da brivido: «La testa di Palma mi giunse ieri verso le sei e mezzo. È una figura piuttosto distinta e somigliante ad un fabbricante di birra inglese. La testa l’ho fatta mettere in un vaso di cristallo ripieno di spirito…».
Solo le mafie, sostiene l‘autore de La grande mattanza, furono lasciate in pace: «Negli anni cruciali della costruzione dello Stato unitario c’è una guerra spietata ai briganti, ma la stessa durezza non è rivolta a fenomeni criminali e mafiosi noti e conosciuti in Campania, Sicilia e Calabria. Con i moderni agglomerati mafiosi lo Stato sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione…». Una scelta scellerata, «le cui conseguenze arrivano sino a noi».

La Stampa 6.9.18
Il mito della storia
Non sempre è vero che ci aiuta a prevedere il futuro
di Alessandro Barbero


Nella sua autobiografia, La luna è un pallone, il grande attore inglese David Niven racconta un dialogo con Winston Churchill, durante la Seconda guerra mondiale. Il primo ministro, masticando il solito sigaro, sentenziò che non c’era nessun dubbio, gli Alleati avrebbero vinto la guerra e Hitler sarebbe stato sconfitto. Niven gli chiese come faceva a essere così sicuro, e Churchill rispose: «Perché, giovanotto, io studio la storia». A me, commenta Niven, vennero i brividi.
Questo aneddoto mi è tornato in mente leggendo, in questi giorni, le dichiarazioni di Liliana Cavani alla mostra del Cinema di Venezia: «Quel che manca oggi è la storia: non si impara più niente dal passato, e ne viene una superficialità pazzesca... Nessuno capisce come la storia aiuti a leggere il presente». Sempre a Venezia il regista Florian Henckel von Donnersmarck, già premio Oscar per quel film bellissimo sulla Ddr e la Stasi che era Le vite degli altri, ha presentato un’opera sulla Germania tra nazismo e stalinismo, e anche lui ha dichiarato ai giornalisti che chi fa politica oggi è inconsapevole della storia che l’ha preceduto, e così è condannato a ripetere gli stessi errori.
Non bisogna però credere che mentre oggi i politici non danno ascolto alla storia, una volta avessero invece l’abitudine di farlo. Churchill era un’eccezione, e se ne vantava; in generale, ai politici non è mai passato per la testa di ascoltare gli storici, altrimenti non avrebbero ripetuto così spesso gli stessi errori. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti. La storia non garantisce molte certezze, ma almeno una sì: non bisogna invadere la Russia (e sarei tentato di aggiungere anche l’Afghanistan). Eppure tutti nel Novecento hanno continuato a provarci lo stesso! Ecco perché non conviene farsi troppe illusioni sul fatto che i governi europei si decidano a lasciare tranquilli la Siria, la Libia, l’Iraq, visto che tutto quello che abbiamo fatto da quelle parti a partire dall’accordo Sykes-Picot ha prodotto soltanto disastri. La storia può anche essere magistra vitae, ma bisogna che ci sia qualcuno che vuole imparare.
Imparare dal passato non significa però illudersi che la storia possa aiutarci a prevedere il futuro. È una frase che si sente ripetere spesso, ma non è vero. L’esperienza del passato ci obbliga a mettere in conto che nessun governo riuscirà mai a mantenere tutte le sue promesse, e che chi invade l’Afghanistan ne uscirà con le ossa rotte, ma questo non significa davvero prevedere il futuro e le sue sorprese. Non c’è niente di più istruttivo che rileggere oggi i racconti di fantascienza che cinquanta o cent’anni fa immaginavano la vita nel Duemila.
Gli abbagli di Bradbury
Un racconto di Ray Bradbury, del 1948, descrive come sarà il parto nel futuro: all’avvicinarsi del momento, marito e moglie partono per l’ospedale sul loro elicottero. Il cielo è solcato dai razzi interplanetari che trasportano i pendolari da Marte. In ospedale, la donna entra nell’apposita macchina da parto, che farà tutto da sola, mentre la puerpera è sotto anestesia e si risveglierà il giorno dopo. In compenso, non sanno ancora se il nascituro sarà maschio o femmina! Bradbury, insomma, non è riuscito a prevedere l’ecografia. Ma la cosa più straordinaria è che nell’attesa del lieto evento il marito viene accompagnato in una sala d’attesa, dove trascorrerà tutto il tempo fumando nervosamente una sigaretta dopo l’altra. Anticipare le nuove tecnologie non è facile, ma la cosa veramente impossibile è prevedere il cambiamento dei comportamenti: nel 1948 non era immaginabile in nessun modo che cinquant’anni dopo i mariti avrebbero assistito al parto tenendo la moglie per mano, e che in nessun ospedale sarebbe stato permesso fumare.
Ed è proprio perché in realtà prevedere il futuro è impossibile, che i politici sono così spesso indotti a ripetere gli stessi errori del passato. È troppo forte la tentazione di scommettere: a tutti gli altri è andata male, ma chissà che stavolta non vada meglio! Solo a cose fatte tutti scrollano il capo e concludono che doveva andare così per forza. Il passato ha per noi il grande vantaggio che sappiamo come è andata a finire, e acquista la stabilità di un macigno, mentre in realtà gli eventi si sono svolti in un presente incerto e fluttuante. La guerra civile americana doveva vincerla il Nord, per forza. E come mai i leader del Sud non lo sapevano? La linea Maginot era destinata a essere aggirata dai tedeschi. E non uno dei politici che l’hanno fatta costruire se ne è reso conto? L’Unione Sovietica era un gigante dai piedi d’argilla, non poteva non crollare. E come mai l’uomo più potente e meglio informato del paese, Gorbaciov, non se lo immaginava?
L’handicap dello storico
In questo senso lo storico che studia un qualsiasi momento del passato ha un enorme vantaggio rispetto agli uomini dell’epoca, inchiodati nel loro presente, e incapaci di prevedere il futuro. È un vantaggio persino sleale: noi sappiamo che Churchill è passato alla storia come un gigante e il suo avversario Chamberlain come un illuso, ma loro non lo sapevano. E chissà quante volte Churchill sarà stato sveglio la notte, chiedendosi se dopo tutto aveva fatto la scelta giusta dichiarando quella guerra, e se tutto non sarebbe andato a finire molto male. A questo punto, però, il vantaggio di cui gode lo storico si trasforma in un handicap: noi possiamo sapere tutto di cosa è successo in una data epoca, anzi lo sappiamo meglio di quelli che c’erano, ma una cosa non riusciremo mai a ricreare: l’incertezza di chi era là, in mezzo agli avvenimenti, e non sapeva cosa sarebbe successo l’indomani. L’incertezza che è la condizione esistenziale di tutti noi, prigionieri come siamo del nostro presente.

il manifesto 6.9.18
Asia Argento, ecco il report che accusa Jimmy Bennett
Gli investigatori privati hanno indagato sull’attore che denuncia molestie: problemi finanziari, di droga e perfino di molestie - Esclusivo -
di Silvia D’Onghia e Stefano Feltri


Che significa quando una donna dice che ti violenta? È mai possibile una cosa del genere?”. A twittare, il 26 novembre 2013 – sei mesi dopo le presunte molestie che gli sarebbero state inflitte da Asia Argento, il 9 maggio –, è Jimmy Bennett. L’“attore-bambino” che, subito dopo l’esplosione del caso Weinstein, a ottobre 2017, chiede e ottiene 380 mila dollari (250 finora) da Anthony Bourdain per tacere su quella stessa presunta “violenza”. Quest’ultima notizia, pubblicata il 19 agosto dal New York Times, ha scosso il movimento del #MeToo, di cui la regista si è fatta paladina. Asia Argento, che già a giugno aveva dovuto subire accuse e insulti sul suicidio del compagno Bourdain, è stata poi allontanata “di comune accordo” dalla giuria di X Factor e le puntate di Parts Unknown – la serie televisivo-culinaria di lui in cui lei è presente (o di cui lei ha curato la regia) sono state cancellate.
Asia Argento ha fatto sapere, tramite il suo nuovo legale, di “non aver mai avuto una relazione sessuale con Bennett” e che “non permetterà che nessun’altra rata del pagamento concordato sia pagata a Bennett. Alla fine si scoprirà che è stata lei a essere attaccata da lui”.
Il Fatto è venuto in possesso della bozza del report stilato dagli investigatori di un’agenzia su Jimmy Bennett. Ecco cosa contiene.
La misura restrittiva
Il 17 luglio 2015, i giudici della Corte Suprema di Los Angeles emettono una misura temporanea a carico del ragazzo dopo la richiesta di protezione – per sé e per sua madre – da parte di Rachel Fox, una giovane attrice (la Kayla Huntington Scavo della serie tv Desperate Housewives). Rachel accusa l’ex fidanzato di averla minacciata e molestata. Il 6 agosto la misura viene ritirata.
“Sesso con minori”
La stessa Fox, un anno prima, aveva già accusato Bennett presso la polizia di L.A. di “sesso illegale con minore” (all’epoca lei aveva 17 anni), di “stalking” e di “pornografia minorile”: “Mi ha manipolato facendomi mandare via Snapchat alcune mie foto nuda. Questo mi ha creato un danno emotivo”. Secondo l’attrice, lui le avrebbe rubato del denaro a causa delle “condizioni di povertà” della sua famiglia. Rachel Fox racconta anche alla polizia che il ragazzo fa uso di sostanze.
Una carriera stentata
Nel 2013, prima e dopo il suo incontro con Asia Argento nell’hotel di Marina Del Rey, Bennett cerca di rilanciare la sua carriera. Senza successo. Tra marzo e aprile chiede fondi su Kickstarter per pagarsi lo studio di registrazione e incidere 20 canzoni. La Jimmy Bennett Band raccoglie 37.006 dollari, 300 li versa Asia Argento. L’11 novembre rilancia l’iniziativa del patrigno, che prova anche lui a raccogliere soldi, ma per un film. Ma non incassa nulla, l’obiettivo era di soli 50.000 dollari. Poi, dal monitoraggio dei social di Bennett, risulta ben poco, giusto qualche piccolo ruolo come quello in Bad Asses on the Bayou nel 2014.
La causa ai genitori
Quando Jimmy Bennett scrive ad Asia Argento nell’ottobre 2017, chiedendo soldi, è in seria difficoltà. Ha sempre avuto qualche problema col fisco, nel 2017 deve ancora 12.271 dollari allo Stato della California per ritardi nei pagamenti sulla dichiarazione dei redditi del 2004 (quando aveva otto anni), ma questo è l’ultimo dei suoi problemi. Nell’ottobre 2014 fa causa ai suoi genitori, Martha Luise Bennett e il patrigno Frank Pestarino che ad agosto lo hanno sbattuto fuori di casa. Pestarino – ha riferito il suo avvocato, William Kersten –, era preoccupato che il figliastro abusasse di droga e gli aveva chiesto di andare in riabilitazione. Ma Jimmy sostiene che i genitori hanno usato i suoi guadagni da attore che lui stesso stima in 2 milioni di euro tra 2002 e 2014 (nel 2017 l’avvocato di Bennett parlerà addirittura di 2,7 milioni) per finanziare le loro fallimentari iniziative imprenditoriali come il negozio di crepes “Rockin’ Crepes” e per comprare la casa in cui tutti abitano, una villetta con un piccolo giardino e due palme davanti al cancello.
Per anni i genitori gli hanno detto di non preoccuparsi delle sue finanze; il giorno del suo diciottesimo compleanno, giusto un mese dopo l’incontro con Asia Argento del 9 maggio 2013, Jimmy è riuscito a farsi dire quanti soldi c’erano sul Coogan trust dove andavano i suoi proventi: soltanto 330.000 dollari. Nella denuncia alla Corte della California, Bennett sostiene di non essere più in grado di sostenere le spese per lui essenziali: l’autista per andare ai provini (Bennett ha un difetto di vista e non può guidare), “pagare allenatore e coach teatrale”. Alla denuncia allega anche la lista dei suoi beni, tra cui si nota un “poster autografato (del film) Goodfellas, valore stimato 800 dollari”, sei chitarre per 8.500 dollari e poco altro. Bennett riesce a ottenere un ordine restrittivo per i genitori che vengono condannati a pagargli l’affitto e a non toccare i 210.000 dollari rimasti sul Coogan trust.
La bancarotta
Nel 2017 le condizioni della famiglia Bennett degenerano. Il 6 luglio il Tribunale federale della California condanna l’azienda di famiglia, la Rockin’ Crepes, a pagare 126.242 dollari per una truffa all’assicurazione Amco che aveva denunciato irregolarità nelle perdite dichiarate e sui danni subiti dai coniugi Bennett, i quali non rispondono neppure alle accuse e perdono. Il 17 luglio Pestarino fa richiesta di bancarotta individuale, cosa possibile negli Usa, ma poi non compila i moduli e la procedura si interrompe. Era la terza richiesta di bancarotta individuale per Pestarino dal 2012. Il 12 ottobre 2017, secondo il report, la famiglia Bennett perde anche l’ultimo bene: la casa di Huntington Beach va all’asta perché Pestarino non paga più il mutuo.
Proprio nel mese di ottobre Jimmy decide di scrivere ad Asia Argento per chiederle 3,5 milioni di dollari come risarcimento per le molestie che dichiara di aver subito nel loro incontro in hotel del 9 maggio 2013.