Repubblica 4.9.18
Le riflessioni di Zygmunt Bauman
Il lato oscuro della nostra Europa
Quando il futuro si trasforma in un incubo
di Roberto Esposito
L’Europa
dell’abbondanza e della libertà era la luce verso la quale si
dirigevano i popoli alle sue frontiere esterne. Una luce abbagliante. Ma
quando gli occhi si furono abituati e i contorni delle cose divennero
di nuovo visibili, ciò che apparve fu un tunnel buio». Chi altri, se non
Zygmunt Bauman, ancora a metà degli anni Novanta, poteva avere uno
sguardo così penetrante da anticipare quanto sarebbe accaduto parecchio
più tardi? Chi altri poteva prevedere, come lui, che l’Europa avrebbe
rapidamente visto nei popoli liberati dal regime sovietico la minaccia
di una massiccia immigrazione ed eretto «in fretta e furia nuove e più
efficaci barriere di confine»? Se c’è qualcosa che caratterizza l’intera
opera del grande sociologo – riduttivamente ancorata alla troppo citata
metafora della società liquida – è la straordinaria capacità di
cogliere il negativo che percorre ogni fase della civilizzazione. Esso
ne costituisce insieme il motore e il rischio, la sfida e la potenziale
deriva.
Di questa capacità diagnostica il libro di Bauman, Il
disagio della postmodernità (ora riedito da Laterza), fornisce
un’ennesima testimonianza esemplare.
Rispetto al celebre scritto
di Freud, di cui ricalca il titolo, esso sposta l’angolo visuale dalla
modernità alla postmodernità, sporgendosi anche oltre di essa, fino a
lambire i nostri giorni.
L’analisi di Bauman – centrata sulle
figure dello straniero, dell’artista, del vagabondo, del paria, in un
dialogo continuo con i grandi scrittori e filosofi contemporanei – ha un
andamento sempre comparativo.
A confrontarsi sono i caratteri
sintomatici della società moderna con quelli della stagione che allo
stesso tempo la prolunga e la supera, deformandone i connotati. In
entrambi i casi è in atto una sorta di compromesso, sempre rinegoziato,
tra vantaggi e rinunce, soddisfazioni e sofferenze. Come ha insegnato
Freud, la civiltà moderna è edificata sulla repressione delle pulsioni
immediate, soprattutto sessuali e aggressive, necessaria a garantire
l’ordine, ma anche la pulizia e la bellezza assenti nelle epoche
precedenti. A un certo punto, tuttavia, quegli stessi valori si sono
rovesciati in impulsi distruttivi. Così dalla ricerca della purezza a
ogni costo si è arrivati alla sindrome razzista che, in particolare col
nazismo, ha portato prima ad espellere e poi ad annientare coloro che
sembravano contaminare il sangue tedesco. In questo modo si è realizzato
il detto freudiano che il cocchio della modernità è guidato da
Thanatos.
La postmodernità nasce da una diversa attitudine. In
essa lo scambio tra libertà individuale e sicurezza non pare più
accettabile perché troppo gravoso. Il principio di realtà è scavalcato,
nella sensibilità postmoderna, da quello del piacere, che si erge a
tribunale supremo dei comportamenti umani. Ogni coazione, ogni
sacrificio, appare un’aggressione ingiustificata al libero accesso a un
godimento potenzialmente illimitato.
Tuttavia anche in questo caso
il negativo torna a reclamare la sua parte. Intanto perché, come ben
sapeva Simmel, ogni valore appare tale solo se, per ottenerlo, bisogna
rinunciare a qualcos’altro. La stella della libertà non splende mai
tanto quando si è costretti a sacrificarla sull’altare della sicurezza.
Gli uomini godono solo di qualcosa che contrasta con quanto hanno e che
proprio per questo non li soddisfa più. Perciò quella felicità che i
postmoderni bramano non è che una fuggevole impressione che balena
nell’attimo del cambiamento. Non solo, ma l’uomo postmoderno finisce per
pagare un prezzo assai alto alla perdita della stabilità moderna. La
fluidità della deregulation, rispetto ai solidi canoni della stagione
precedente, provoca confusione e ansietà, incertezza e smarrimento.
La
cultura di Bauman – imparagonabile alla povertà della sociologia
quantitativa di matrice anglosassone – gli consente di sperimentare il
passaggio di paradigma dal moderno al postmoderno in tutti gli ambiti
della vita: dall’arte all’apprendimento, alla medicina, all’informatica,
alla religione.
Senza però mai smarrire il baricentro del proprio
discorso, incentrato sempre sul rapporto tra inclusione ed esclusione,
identità ed estraneità. Da questo lato la prospettiva di Bauman si
allunga verso le minacce e le sindromi del nostro tempo, di cui il libro
indaga la genealogia profonda. Lo "straniero" – nella comoda veste del
turista, in quella drammatica del migrante e in quella tragica del
rifugiato – è il prodotto artificiale delle società con cui viene a
contatto. Da sempre ogni società crea il "proprio" straniero – vale a
dire qualcuno che non è collocabile nella propria mappa cognitiva,
estetica e morale. Egli, nella sua diversità reale o immaginaria,
costituisce una chiazza opaca nel quadro limpido delle culture
nazionali. Così nascono i fondamentalismi e gli integralismi, che
promettono ai loro convertiti di liberarli da una libertà difficile da
sostenere perché confliggente con l’utopia di un ordine definitivo, come
l’autore sostiene nel precedente Stranieri alle porte (Laterza).
La
ferita sempre più profonda inferta al tessuto sociale da un mercato
privo della necessarie tutele innesca un circuito perverso in cui
un’"economia politica dell’impazienza" finisce per prevalere
sull’"economia politica della speranza". Qua il discorso di Bauman entra
in contatto diretto con quanto accade oggi in tutta l’Europa – con una
proterva punta in Italia.
L’utopia moderna e anche postmoderna
s’incurva in una fosca "retrotopia" – è il titolo del suo ultimo libro
(Laterza 2018) – che fugge dal presente alla ricerca di una presunta età
dell’oro.
Quando ormai il futuro si è tramutato in incubo, non
resta che rifugiarsi nel cono d’ombra di un passato mai esistito come
tale. Ma ciò – è l’insegnamento che l’opera e la vita stessa di Bauman
ci trasmettono – non arriva mai a chiudere definitivamente la porta alla
speranza. A patto che non si rimuova la forza ambivalente di un
negativo che non smetteremo mai di fronteggiare.