Repubblica 4.9.118
Il modello Shenzhen
E in Tanzania la Cina costruirà il porto del futuro
Tecnologia e dieci miliardi di dollari per il più grande scalo del Continente
di Filippo Santelli
PECHINO
Trasformare un sonnolento villaggio di pescatori in uno dei più grandi
centri portuali e tecnologici dell’Africa. La Cina sa come si fa: la sua
Shenzhen, oggi capitale globale dell’hi-tech, fino agli anni ’80
praticamente non esisteva.
Ora il Dragone vorrebbe replicare
l’esperimento in Tanzania. Il progetto disegnato per Bagamoyo, cittadina
sulla costa dell’Oceano Indiano un centinaio di chilometri a Nord della
capitale Dar Es Salaam, vale la bellezza di 10 miliardi di dollari.
Tanti
ne servono per realizzare nella laguna il complesso di moli più grande
del continente, circondato da una zona economica speciale (proprio come
quella che Deng Xiaoping creò a Shenzhen, primo esperimento di economia
di mercato) che dovrebbe attirare industrie, startup, centri di ricerca e
anche un parco giochi per turisti.
Lo schema è quello collaudato
degli investimenti cinesi: a finanziare, gestire e controllare il mega
cantiere sarebbe il colosso mandarino China Merchants, con l’interessata
partecipazione del fondo sovrano dell’Oman.
Condizionale
d’obbligo, visto che nonostante se ne parli addirittura dal 2013
l’ultimo via libera ai lavori non è ancora arrivato.
Nel 2016 il
neoeletto presidente John Magufuli ha bloccato l’iter di approvazione,
preferendo puntare sul rinnovamento del vecchio porto di Dar Es Salaam.
Perplessità
alimentate dall’imprudenza di Gibuti, qualche centinaia di chilometri
più a Nord, sul Corno d’Africa: concessa alla Cina la costruzione di un
porto e una base militare, la prima oltre confine per l’esercito del
Dragone, il piccolo Paese ha consegnato il settantasette per cento del
debito estero nelle mani di Pechino, rendendola di fatto padrona del suo
destino finanziario.
Invece, proprio alla vigilia del Forum tra
Cina e Africa che si è aperto ieri con Magufuli in prima fila, la
situazione sembra essersi all’improvviso sbloccata. Il motivo, anche per
i media locali, non è del tutto chiaro. Forse semplicemente la paura
del presidente della Tanzania di perdere un treno di sviluppo su cui uno
dopo l’altro stanno salendo tutti i suoi colleghi.
I cittadini
della Tanzania, come tutti gli africani, guardano con favore alla Cina.
Rispetto a Gibuti, l’economia del Paese è molto più solida, la
dodicesima del continente, con un debito al momento sotto controllo.
Ma
è anche vero che il porto di Bagamoyo vale da solo un quinto del suo
prodotto interno lordo e che quando sarà costruito, pare in dieci anni,
avrà bisogno di essere connesso via terra, strada o rotaia, con i Paesi
confinanti, per non restare una cattedrale nel deserto.
Niente
paura, anche questo la Cina lo ha già fatto altrove. Al Nord, per
quattro miliardi di dollari, Pechino ha costruito la ferrovia che
collega la capitale etiope Addis Abeba proprio a Gibuti.
E si dà
il caso che i vicini della Tanzania, Congo e Zambia, siano già due dei
suoi maggiori debitori. Altri cantieri, altri investimenti, altri
prestiti. La Cina è lì per quello.