Corriere 4.9.18
Chi gridava evviva Mao
Il mito affascinò illustri intellettuali non si allinearono Bocca e Tornabuoni
In
un volume curato da Mario Tesini e Lorenzo Zambernardi (Le Monnier) la
rassegna di coloro che esaltarono il dittatore comunista cinese: Dario
Fo, Sartre, Godard, Sanguineti. Luigi Pintor fu tra i pochi ad ammettere
l’errore
di Paolo Mieli
Il 24 settembre 1970, i
Rolling Stones decisero di interrompere un loro concerto alla Porte de
Versailles per cedere il palco a Serge July, futuro direttore di
«Libération» ma all’epoca leader della formazione più filocinese
d’Europa, la Gauche prolétarienne, il quale ebbe così l’occasione di
denunciare di fronte ad un immenso pubblico l’arresto di alcuni suoi
compagni e di muovere, inneggiando a Pechino, accuse non lievi al
governo di Parigi. Fu quello una sorta di tributo eccezionale pagato da
Mick Jagger e dalla sua band allo spirito dei tempi. E soprattutto al
culto di Mao Zedong. Culto a cui resero omaggio molti grandi artisti e
intellettuali dell’epoca: da Jean-Luc Godard con il film La Chinoise ad
Andy Warhol con un celeberrimo dipinto pop che ritraeva, appunto, il
«grande timoniere» (altri dello stesso genere erano dedicati a Marilyn
Monroe e a Liz Taylor), da Jean-Paul Sartre, che assieme a Simone de
Beauvoir si fece strillone del giornale ipermaoista «La cause du
peuple», a Louis Althusser, Philippe Sollers, Claude Roy e Roger
Garaudy. È da quelle esperienze che ha idealmente preso le mosse un
intelligente libro curato da Mario Tesini e Lorenzo Zambernardi, Quel
che resta di Mao. Apogeo e rimozione di un mito occidentale, che sta per
essere dato alle stampe da Le Monnier. A cinquant’anni di distanza è
impossibile sottovalutare il fenomeno per cui alla fine degli anni
Sessanta furono approntate traduzioni in una quarantina di lingue e
diffuse — solo nelle edizioni ufficiali — oltre un miliardo di copie del
Libretto rosso che conteneva citazioni dal «pensiero» del leader
rivoluzionario cinese. Tra gli estimatori di quel libricino, e ancor
prima dell’esperienza cinese, ci furono moltissimi scrittori italiani.
«Me
ne innamorai più o meno nel ‘63», raccontò con candore Edoardo
Sanguineti; «rappresentava la speranza di un socialismo non burocratico,
non tiranno, in movimento, ed appariva come l’unica alternativa per chi
aveva scarsa simpatia per il capitalismo e forti dubbi sull’Unione
Sovietica». Charles Bettelheim si disse sicuro che la Rivoluzione
culturale (iniziata nel 1966) avesse «contribuito alla distruzione del
mito della pretesa “superiorità” degli esperti e dei tecnici»; le masse
popolari avevano, a suo dire, «preso coscienza della propria capacità di
padroneggiare collettivamente tecniche complesse». Dario Fo esultò per
aver constatato di persona come «la divisione dei ruoli, la barriera fra
lavoro manuale e lavoro intellettuale» fosse lì lì per cadere. Lo
psichiatra argentino Gregorio Bermann, in La salute mentale in Cina
(Einaudi, 1972), testimoniò che l’esperienza maoista aveva aperto «una
nuova via alla conoscenza e alla pratica della psichiatria e della
psicoterapia». Giovanni Jervis gli fece eco giudicando convincenti le
tesi di un libro dal titolo più che mai esplicito: Fare affidamento sul
pensiero di Mao Zedong per guarire le malattie mentali. La psicologa
americana Carol Tavris sostenne che era sufficiente varcare i confini
della Cina per lasciarsi alle spalle «la crisi energetica, la
criminalità, la proprietà privata, i cinema a luci rosse, il cinismo e
il sesso» ed entrare «in un’oasi di sicurezza, di stabilità, di
entusiasmo, di strade pulite, di discorsi puliti e di pensieri positivi»
Maria
Antonietta Macciocchi, in Dalla Cina (Feltrinelli), si entusiasmò per
la «rieducazione» del direttore di un albergo in cui aveva soggiornato:
«Ce lo indicano: è rotondo, gentile e modesto; pare che prima avesse
maniere presuntuose, ma ora, rieducato come lavoratore, fa il suo
mestiere con relativa soddisfazione degli altri… Ogni tanto lo sentiamo
cantare, seduto al banco dove si ritirano le chiavi del piano». Alberto
Jacoviello sentenziò che Mao aveva trasformato la Cina un «Paese di
filosofi». Il giornalista francese Robert Guillain ebbe l’impressione
che anche il sesso ai tempi di Mao fosse diverso: «Sono di una castità
incredibile, perché il Partito lo esige. I film sono morali al cento per
cento. Quando si esce da questo Paese disinfettato per passare a Hong
Kong, si ricade all’improvviso nell’erotismo del nostro mondo, con
giornali pieni di porcherie, con l’oppio, il gioco, la prostituzione».
Simon
Leys, uno dei pochi studiosi della Cina che non si lasciarono sedurre
dal culto di Mao, mise per tempo a nudo la miseria dell’esperienza di
questi artisti che si lasciarono conquistare dall’uomo della Lunga
marcia: «I loro soggiorni di tre settimane in Cina seguono lo stesso
invariabile programma; tutti i viaggiatori — dai teologi ai logopedisti,
dagli ornitologi ai mistagoghi e dai minatori ai ministri — visitano la
stessa acciaieria, la stessa scuola, e si siedono allo stesso festino a
base di anatra alla pechinese; ognuno, tuttavia, riesce a ricavare da
questa identica e in fin dei conti modesta esperienza nuove rivelazioni,
una rimessa in questione di tutte le prospettive nella sua sfera
d’attività e, a volte, persino la materia di un poderoso volume».
Ma
come fu possibile che si restasse abbagliati dal mito di Mao, quando
erano trascorsi oltre dieci anni dalle rivelazioni di Krusciov al XX
congresso del Pcus (1956) che aveva denunciato i crimini di Stalin e
messo a nudo gli abbagli nei confronti della dispotica Urss staliniana
della generazione intellettuale precedente a quella delle personalità
testé elencate? La domanda se la pone Gianni Belardelli in un saggio
introduttivo al libro di Tesini e Zambernardi. Tra l’altro, nota
Belardelli, ancora oggi si parla della Cina di Mao continuando ad
«attingere all’immagine circolante negli anni Sessanta in Occidente… di
una rivoluzione libertaria e non violenta, destinata, più che a
obiettivi di tipo politico o sociale, a rendere migliori gli esseri
umani». Secondo Belardelli, a favorire la permanenza in Occidente, se
non di un mito del capo dei comunisti cinesi in senso proprio, di un
diffuso atteggiamento indulgente o benevolo verso la sua figura, di una
quasi totale sottovalutazione delle vittime legate alla sua azione
politica, «sta anche l’assenza di una vera critica a Mao proveniente
dall’interno del regime». Non vi è stato nulla in Cina che fosse
paragonabile alla denuncia kruscioviana di cui si è detto.
Resta
il problema dell’abbaglio generalizzato. Un problema che si pose già
trent’anni fa Paul Hollander in quello che è ancor oggi considerato un
testo fondamentale per la trattazione di tale questione: Pellegrini
politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba (il
Mulino). «La coscienza del fallimento sovietico», ha scritto Hollander,
«invece che creare una riserva di scetticismo in merito ai progetti di
ingegneria sociale e di sperimentazione su larga scala, ingigantiva al
contrario il fascino della Cina».
Ancora quando Mao morì, il 9
settembre del 1976, i toni dei giornali italiani furono oltremodo
generosi. Editoriali di grande apprezzamento nei confronti del leader
del Partito comunista cinese comparvero sulla «Stampa» (a firma di
Alberto Cavallari e Furio Colombo) e sul «Messaggero». Più trattenuti
gli articoli di fondo su «Repubblica» (Tiziano Terzani) e quelli del
«Corriere della Sera». Quasi irridenti, quelli sul «Giornale» (Indro
Montanelli scrisse del «pensiero» di Mao che aveva mandato «in visibilio
tanti imbecilli nostrani»). «Il manifesto» giudicò Mao, per la penna di
Rossana Rossanda, «più simile a Marx che a Lenin», mentre K.S. Karol
metteva in guardia da Deng, «revisionista non pentito che è andato
contro le giuste conclusioni della Rivoluzione culturale proletaria».
Più cauti i giornali comunisti, in particolare «Rinascita», su cui
comparve un articolo di Giuseppe Vacca che spiegava che cosa i suoi
coetanei avevano «creduto di vedere» nella rivoluzione maoista.
Sull’«Avanti!» piansero Mao Pietro Nenni, che lodò la sua concezione di
una «rivoluzione da ricondurre sempre alla misura umana per evitare il
rischio di cadere nella tirannia», e Bettino Craxi, che fece una
previsione: «Il segno che Mao lascia nella vita del suo popolo e in
quella dell’umanità non sarà cancellato dal tempo, anzi è destinato a
divenire più grande e marcato via via che la storia gli renderà per
intero le ragioni del suo pensiero e della sua opera».
In generale
il mondo politico, in particolare quello cattolico, si vestì a lutto:
Raniero La Valle ne parlò come di un «eroe del Vecchio Testamento»;
Benigno Zaccagnini lodò la sua «riscoperta politica e morale dell’uomo
cinese riportato — dopo un periodo di gravi mortificazioni — alla
dignità essenziale di una riconquistata autonomia politica, culturale e
spirituale»; Vittorino Colombo, presidente dell’Istituto italo-cinese,
garantì della «profonda riconoscenza che il popolo cinese riservava al
suo prestigioso leader».
Tesini e Zambernardi notano due articoli
che invece furono particolarmente corrosivi nei confronti della Cina
maoista. Il primo è, sul «Corriere», di Lietta Tornabuoni. «Son
diventati tutti maoisti», scrive la giornalista, «il dolore dei politici
italiani, percossi e attoniti alla scomparsa del grande leader
antisovietico impressiona per la sua unanimità»; e anche per come «nei
commenti funebri rinasca irresistibile la retorica del demiurgo,
dell’uomo che da solo muta il corso della storia». L’altro è, su
«Repubblica», di Giorgio Bocca: «È certamente edificante la lettura del
Mao pedagogo che esorta i suoi allievi allo studio e all’informazione:
ma, lui al potere in uno Stato socialista, i cinesi sono stati senza
giornali degni del nome e non li hanno informati neppure che un uomo era
sbarcato sulla Luna». Talché, secondo Tesini e Zambernardi, bisogna
rendere a Bocca l’onore del riconoscimento «di aver scritto sulle pagine
di un quotidiano che nel suo primo anno di vita procedeva esitante tra
la volontà di rappresentare una moderna sinistra riformista e le
simpatie per l’insorgenza sessantottina, protrattasi in Italia per un
intero decennio, cose in perfetta coerenza con quanto affermato a molti
anni di distanza». Tra tanti «maoisti più o meno ravveduti», proseguono i
due curatori, Bocca «si sarebbe dimostrato un critico non solo
tempestivo, ma anche tenace, del processo di trasformazione di un uomo e
di un regime in un mito politico».
Qualcuno, però, aveva nutrito
dei dubbi (non certo paragonabili per sistematicità a quelli di Bocca)
fin dall’inizio. Come Goffredo Parise che, in Cara Cina (Longanesi),
manifestò il sospetto che l’interprete di cui disponeva a Pechino non
esaurisse la sua funzione nel tradurre le parole delle persone
incontrate e che la commovente storia di una donna che riferiva delle
drammatiche condizioni della sua infanzia sotto il precedente regime
fosse una recita a beneficio del visitatore straniero (l’aveva letta,
identica, in un libro che aveva portato con sé). Come Alberto Moravia
che, pur entusiasta del viaggio nella Cina di Mao, mise in chiaro il
limite della propria esperienza in quelle terre lontane: «Non pretendo
certo di conoscere la folla cinese nella maniera, diciamo così,
tradizionale; sono stato troppo poco in Cina. Ma l’ho guardata, questo
sì. E forse, limitandomi a guardarla, l’ho in fondo conosciuta quasi
come vi fossi vissuto in mezzo degli anni». O come Mario Vargas Llosa,
che in Avventure della ragazza cattiva (Einaudi) ha raccontato la
pessima impressione che gli fece il fatto che a Lima alcuni sconosciuti
maoisti avessero impiccato, ai pali della luce nel centro della
capitale, dei poveri cani a cui erano attaccati cartelli con il nome di
Deng Xiaoping, accusato di aver tradito lo spirito di Mao.
In
Italia sono stati pochissimi a riconoscere di essersi sbagliati. Luigi
Pintor ebbe il coraggio qualche anno dopo di ammettere la cantonata. «Fu
un errore», confidò a Simonetta Fiori, «una clamorosa scivolata,
causata dalla necessità di sostituire quello sovietico con altri modelli
internazionali; restammo abbagliati dalle suggestioni della rivoluzione
cinese, cui attribuimmo — sbagliando — valenze liberatrici». Tra coloro
che anche dopo la caduta del muro di Berlino hanno continuato a dirsi
comunisti, Pintor è stato l’unico (o quasi) a non aver cercato
attenuanti.