Repubblica 3.9.18
Facebook
L’istruzione di Zuckerberg a spese del mondo intero
di Kara Swisher
Lasciate,
prima di tutto, che vi dica che a me Mark Zuckerberg piace fin dal
primo giorno in cui l’ho conosciuto, più di 13 anni fa. Lasciate, però,
che vi dica anche che sia lui sia Facebook, il social network al quale
egli dette vita al college, mi stanno irritando allo sfinimento da
tempo. Ogni settimana succede qualcosa, e quel qualcosa non è mai buono.
Da
ultimo, si è trattato della rivelazione secondo cui i russi si
starebbero muovendo furtivamente attorno alla piattaforma per causare
problemi anche nelle elezioni americane di metà mandato. A questo punto,
la notizia non dovrebbe costituire una sorpresa per nessuno. Forse,
stupirà il solo presidente Donald Trump. Questa volta dovremmo essere
grati del fatto che a darne notizia sia stato il management stesso di
Facebook, che così ha preso le distanze dalla cocciutaggine di cui ha
dato prova in passato, quando ha opposto resistenza alle pressioni di
media e governi affinché facesse uso di maggiore trasparenza. In un post
sull’ultima campagna di disinformazione, in riferimento alle sfide per
la sicurezza l’azienda ha detto: « Siamo alle prese con avversari
determinati e ben finanziati che cambiano tattiche di continuo. È in
atto una corsa agli armamenti e anche noi dobbiamo migliorare sempre».
La
metafora della corsa agli armamenti è buona, ma non per le ragioni
addotte da Facebook. Per come la vedo io, Facebook, Twitter e YouTube
sono diventati i trafficanti delle armi digitali dell’epoca moderna.
Tutte queste aziende hanno iniziato con il velato proposito di cambiare
il mondo. Ma lo hanno fatto come non avevano immaginato. Hanno
modificato il modo di comunicare degli esseri umani, ma mettere in
collegamento la gente troppo spesso ha voluto dire mettere gli uni
contro gli altri. Queste aziende hanno trasformato in armi i social
media. Hanno trasformato in arma il dibattito pubblico. E, più di
qualsiasi altra cosa, hanno trasformato in arma la politica.
Questo
spiega perché attori ostili stiano continuando a giocare d’azzardo su
quelle piattaforme e perché non vi sia una soluzione concreta in vista:
quelle piattaforme sono state realizzate per funzionare esattamente in
questo modo. E da allora sono cresciute a dismisura e hanno finito con
l’avere la meglio sui più tenaci tentativi in cui si sono prodigati i
loro inventori per tenerle sotto controllo. A un recente botta e
risposta con i dipendenti di YouTube, per esempio, uno di loro mi ha
detto che, mentre un tempo il lavoro si limitava a sporadiche
chiacchierate su filmati di gattini, adesso è degenerato in un inferno
quotidiano di scambi di opinioni sul destino dell’umanità.
Se non
altro, Zuckerberg ha fatto notevoli passi avanti nell’ammettere il
problema e ha detto, più di qualsiasi altro Ceo digitale, che rimpiange
di non aver agito prima. Una cosa è certa: quando l’ho conosciuto, non
mi sarei aspettata niente del genere da lui, anche se, col senno di poi,
qualche piccolo segnale del fatto che stava sbagliando l’ho visto con i
miei stessi occhi. Quando ha attraversato tranquillo l’affollata stanza
del trasandato quartiere generale di Facebook di allora, nel centro di
Palo Alto in California, aveva compiuto da poco 21 anni e, come potete
immaginare, era allampanato. La start up era nata da poco, era ben
finanziata e interessante, ma Zuckerberg si era già fatto la reputazione
dell’arrogante, in parte perché aveva fatto inserire la scritta «A Mark
Zuckerberg production» in calce alla pagina del sito. Inoltre, mi aveva
dato un biglietto da visita su cui era scritto: « Sono l’amministratore
delegato, puttana». Non mi risentii e scherzai con uno dei suoi
dirigenti, dicendo che Zuckerberg sembrava proprio un gran fesso. Così,
quando ci incontrammo, dopo un saluto imbarazzato, la prima cosa che mi
disse fu: « Mi risulta che secondo lei sarei un coglione ».
Chiarisco
di non averlo mai pensato, anche dopo aver passeggiato con lui in
città. Andare a passeggio era ( ed è) la sua mania caratteristica. Ogni
fondatore di start up tecnologica ne ha una. In quella camminata
forzata, non fece altro che ribadire: Facebook era «un servizio
pubblico». La sua definizione era strana, perché non era sullo stesso
piano dell’immagine modaiola del suo rivale di allora, Myspace, né della
festa colorata e senza fine alla Willy Wonka in corso da Google. Era un
concetto banale, mesto, rassicurante, da
non-si-preoccupi-signora-lasciamo-le-luci-accese, a ripensarci.
Abbastanza sintomatico. Si basava sull’idea che Facebook in fondo fosse
qualcosa di buono.
Zuckerberg è rimasto troppo a lungo attaccato a
quel misto di sincerità e ingenuità deliberata. Quello che non è mai
riuscito a comprendere appieno, infatti, è che la società che aveva
creato era destinata a diventare un modello per tutta l’umanità, il
riflesso digitale di masse di persone di tutto il pianeta. Comprese le
peggiori. Ciò dipese dal fatto che Zuckerberg si stava specializzando in
informatica e interruppe gli studi in anticipo, senza frequentare corsi
di materie umanistiche che avrebbero potuto metterlo in guardia nei
confronti degli aspetti peggiori della natura umana? Forse. O dipese dal
fatto che da allora è sempre rimasto immerso nell’ottimismo a oltranza
della Silicon Valley, dove è proibito aspettarsi un risultato negativo?
Probabile. Può essere che, sebbene l’obiettivo iniziale fosse quello di
"mettere in contatto le persone", egli non sia mai riuscito a prevedere
che la piattaforma dovesse essere responsabile di quelle persone anche
quando si comportavano male? Oh, certo. E, infine, può essere che la
mentalità stessa di Facebook, per la quale le- cifre- salgono- sempre-
e- sono- sempre- in- attivo, lo abbia accecato nei confronti delle
scorciatoie imboccate durante la fase di crescita del suo servizio?
Assolutamente sì.
Ci si sarebbe potuti aspettare che tutto il
tempo che è passato, tutti i soldi e il potere che ha accumulato lo
avessero reso saggio. E invece no. Ho chiesto più volte a Zuckerberg
come si sentisse, a livello personale, per i danni arrecati dalla sua
creazione. Iniziava a comprendere il potere che aveva per le mani e che
il mondo che controlla non è un posto così roseo? «Probabilmente » , ha
ammesso, Facebook era « troppo concentrata sugli aspetti positivi e non
abbastanza su quelli negativi». È ragionevole. Ma fargli ammettere un
qualsiasi dispiacere personale è stato impossibile. « Provo un profondo
senso di responsabilità su come porre rimedio al problema — ha
continuato — credo che si debba essere disposti a commettere alcuni
errori quando si dirige un’azienda e si vuole essere innovativi. Non
credo però che sia accettabile ripetere gli stessi errori più volte». È
la classica risposta degli ingegneri benintenzionati della Silicon
Valley che lascia molte persone interdette per ciò che concerne, per
dirne una, la manipolazione della democrazia. Tenere alla larga cattivi
attori come i russi è stato e sarà sempre più costoso. Potrebbe essere
addirittura impossibile. Facebook, in ogni caso, avrebbe potuto fare e
deve fare molto di più.
Adesso, Zuckerberg sta cercando di sedare
ogni dibattito a Washington su come regolamentare la sua azienda in base
a quello che un giorno mi disse che era: un servizio pubblico. Ha anche
trascorso l’ultimo mese ad andare a cena con accademici esperti in
libertà di espressione e propaganda per capire come procedere.
Chiamatela l’istruzione di Mark Zuckerberg e della Silicon Valley, ma è
un’educazione a spese del mondo intero. Ed è impossibile calcolare
quanto sia costata. E quanto costerà.