Repubblica 3.9.18
Le idee. Animali politici
Quando la solitudine genera i tiranni
Otto milioni e mezzo di italiani vivono soli
L’individuo separato, diceva Aristotele, o è bestia o è dio. Ma il rischio è di essere bestie al servizio di un dio
Eravamo un popolo, siamo una somma di egoismi, dunque più deboli rispetto alla stretta del potere dispotico
di Michele Ainis
Ci
si può sentire soli vivendo in compagnia di sessanta milioni di
persone? È quanto sta accadendo agli italiani: una solitudine di massa,
un sentimento collettivo d’esclusione, di lontananza rispetto alle vite
degli altri, come se ciascuno fosse un’isola, una boa che galleggia in
mare aperto.
La solitudine si diffonde tra gli adolescenti, presso
i quali cresce il fenomeno del ritiro sociale, altrimenti detto
hikikomori.
Diventa una prigione per gli anziani, la cui unica
compagna è quasi sempre la tv. Infine sommerge come un’onda ogni
generazione, ogni ceto sociale, ogni contrada del nostro territorio.
Ne
sono prova le ricerche sociologiche, oltre che l’esperienza di cui
siamo tutti testimoni: 8,5 milioni di italiani (la metà al Nord) vivono
da soli; e molti di più si sentono soli, senza un affetto, senza il
conforto di un amante o d’un amico. Così, nel 2015, Eurostat ha
certificato che il 13,2 per cento degli italiani non ha nessuno cui
rivolgersi nei momenti di difficoltà: la percentuale più alta d’Europa.
Mentre
l’11,9 per cento non sa indicare un conoscente né un parente con cui
parli abitualmente dei propri affanni, dei propri problemi. Non a caso
Telefono Amico Italia riceve quasi cinquantamila chiamate l’anno. Non a
caso, stando a un Rapporto Censis (dicembre 2014), il 47 per cento degli
italiani dichiara di rimanere da solo in media per 5 ore al giorno. E
non a caso quest’anno, agli esami di maturità, la traccia più scelta
dagli studenti s’intitolava «I diversi volti della solitudine nell’arte e
nella letteratura».
Questa malattia non colpisce soltanto gli italiani. È un fungo tossico della modernità, e dunque cresce in tutti i boschi.
Negli
Stati Uniti il 39 per cento degli adulti non è sposato né convive;
mentre l’Health and Retirement Study attesta che il 28 per cento dei più
vecchi passa le giornate in uno stato di solitudine assoluta. Succede
pure in Giappone, dove gli anziani poveri e soli scelgono il carcere,
pur di procurarsi cibo caldo e un po’ di compagnia; o in Inghilterra,
dove la metà degli over 75 vive da sola.
Tanto che da quelle parti
il governo May, nel gennaio 2018, ha istituito il ministero della
Solitudine, affidandone la guida a Tracey Crouch; ma già in precedenza
funzionava una commissione con le medesime funzioni, inventata da Jo
Cox, la deputata laburista uccisa da un estremista alla vigilia del
referendum su Brexit. Insomma, altrove questo fenomeno viene trattato
come un’emergenza, si studiano rimedi, si battezzano commissioni e
dicasteri. In Italia, viceversa, viaggiamo a fari spenti, senza
interrogarci sulle cause delle nuove solitudini, senza sforzarci di
temperarne gli effetti. Quanto alle cause, l’elenco è presto fatto. In
primo luogo la tecnologia, che ci inchioda tutto il giorno davanti allo
schermo del cellulare o del computer, allontanandoci dal contatto fisico
con gli altri, segregandoci in una bolla virtuale. In secondo luogo
l’eclissi dei luoghi aggreganti – famiglia, chiesa, partito – sostituiti
da una distesa di periferie che ormai s’allargano fin dentro i centri
storici delle città.
In terzo luogo le nuove forme del commercio e
del consumo: chiudono i negozi, dove incontravi le persone; aprono gli
ipermercati, dove ti mescoli alla folla. In quarto luogo
l’invecchiamento della popolazione, che trasforma una gran massa
d’individui in ammalati cronici, e ciascuno è sempre solo dinanzi al
proprio male. In quinto luogo e infine, la precarietà dell’esistenza:
una volta ciascuno moriva nel paesello in cui era nato, dopo aver
continuato lo stesso mestiere del nonno e del papà; ora si cambia città e
lavoro come ci si cambia d’abito, senza trovare il tempo di farsi un
nuovo amico, di familiarizzare con i nuovi colleghi.
Con quali conseguenze?
Secondo
un gruppo di ricercatori della Brigham Young University, la solitudine
danneggia la salute quanto il fumo di 15 sigarette al giorno: giacché
provoca squilibri ormonali, malumore, pressione alta, insonnia, maggiore
vulnerabilità alle infezioni. Altri studiosi (John e Stephanie
Cacioppo, dell’Università di Chicago) mettono l’accento
sull’aggressività dei solitari, le cui menti sviluppano un eccesso di
reazione, uno stato di perenne allerta, come dinanzi a un pericolo
incombente. C’è un altro piano, tuttavia, ancora da esplorare: la
politica, il governo della polis. L’individuo separato o è bestia o è
dio, diceva Aristotele.
Ma nelle società contemporanee la solitudine di massa ci rende tutti bestie alla mercé di un dio.
Sussiste
una differenza, infatti, tra solitudine e isolamento. La prima può ben
corrispondere a una scelta; il secondo è sempre imposto, è una condanna
che subisci tuo malgrado. Nell’epoca della disintermediazione, della
crisi di tutti i corpi collettivi, della partecipazione politica ridotta
a un tweet o a un like, questa condanna ci colpisce uno per uno,
trasformandoci in una nube d’atomi impazziti. Eravamo popolo, siamo una
somma d’egoismi, senza un collante, senza un sentimento affratellante.
Dunque più deboli rispetto alla stretta del potere.
Perché è la
massa, non il singolo, che può arginarne gli abusi. E perché il potere
dispotico – ce lo ha ricordato Hannah Arendt (Vita activa), sulle orme
di Montesquieu – si regge sull’isolamento: quello del tiranno dai suoi
sudditi, quello dei sudditi fra loro, a causa del reciproco timore e del
sospetto.
Sicché il cerchio si chiude: le nostre solitudini ci consegnano in catene a un tiranno solitario.