Repubblica 29.9.18
La lezione (dimenticata) del Novecento
Dietro gli slogan sovranisti l’eterno ritorno del nazionalismo
di Umberto Gentiloni
Come
me nessuno mai, sono stato il più capace di tutti» parole pronunciate
martedì scorso dal presidente degli Stati Uniti nel Palazzo di vetro
delle Nazioni Unite mentre il paragone azzardato con amministrazioni
precedenti scatenava risa e facili battute in platea. Ma come spesso
accade, quando sembra che le frasi di Trump siano destinate al fugace
contesto del suo profilo Twitter, alla fine di un discorso restano gli
interrogativi sui destinatari di messaggi che sono ben più profondi e
impegnativi di una battuta fuori luogo. Gli ingredienti dei suoi
continui richiami al primato americano sono ormai sperimentati e ben
noti tra gli addetti ai lavori e non solo: isolazionismo e chiusura
identitaria, protezionismo come orizzonte di riferimento combinato con
il rilancio di paure e impulsi contro l’immigrazione e l’immigrato in
quanto tale. Una ricetta venduta come grande innovazione del tempo
presente, come scoperta e rivelazione epocale che in realtà ha già
attraversato pagine e tornanti della storia degli Stati Uniti e delle
relazioni tra il nuovo mondo e il vecchio continente. Basta tornare a
dare un senso alle parole che leggiamo o ascoltiamo.
Dietro le
presunte categorie di un "sovranismo" diffuso che va per la maggiore si
celano le più classiche sembianze di un becero nazionalismo che ha
attraversato e insanguinato il secolo scorso. Gli anni tra le due guerre
mondiali portano il segno di un passato rimosso troppo in fretta,
quando la sconfitta del disegno di un ordine internazionale rilancia le
ragioni di un’America chiusa, restia a uscire dai recinti di un
perimetro rassicurante e sperimentato.
Un’oscillazione continua
tra l’apertura e il dialogo per costruire ponti o architetture condivise
e le sirene di un primato fondato sulla forza economica o il predominio
militare. La sconfitta del wilsonismo e dei suoi valori di riferimento
mette da parte, negli anni Venti del Novecento, un’ispirazione morale
che pur tra debolezze e incongruenze aveva abbozzato l’ipotesi di
radicare un sistema internazionale condiviso e partecipato, un embrione
possibile di un governo mondiale come risorsa contro aggressioni e prove
di forza. Ma il pendolo ha continuato a oscillare pericolosamente,
confermando i timori di chi con ambizione e utopia pensava di poter
ridimensionare il ricorso alla guerra come principale strumento per la
risoluzione dei conflitti. Un tracciato che affonda le radici nella
democrazia americana e nelle priorità della sua politica estera per
dirla con Walter Russell Mead e un suo celebre volume del 2001 ( Il
serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti
d’America): l’economia prima di tutto (hamiltoniani), la difesa della
democrazia ad ogni costo (jeffersoniani), la nazione e la sua
rispettabilità minacciata (jacksoniani), i valori morali irrinunciabili e
intoccabili (wilsoniani). Filoni contraddittori e contrastanti di
presenza degli Usa sulla scena internazionale per scrollarsi di dosso le
insinuazioni del cancelliere Bismark che avevano come bersaglio la
proiezione esterna della nascente potenza americana considerata illogica
e pericolosa, salvata da una «speciale provvidenza in grado di mettere
insieme i matti, gli ubriachi e gli Stati Uniti d’America». E il secolo
americano avrebbe rilanciato la dialettica tra egoismo e partecipazione
portandosi dietro il paradosso di una doppia contrarietà: chi ha
contrastato il predominio e l’interventismo unipolare e su un altro
versante chi ne ha sottolineato i rischi per un disimpegno, una fuga da
teatri di crisi di difficile gestione. Troppa o poca America a seconda
dei casi e delle esigenze strumentali. La collaborazione tra diversi
presuppone che il nazionalismo della singola nazione non metta in
discussione un quadro condiviso di regole e riferimenti, non intacchi un
tessuto prezioso eredità di generazioni lontane. Altro che primato in
solitaria di una potenza incontrastata: voltarsi indietro rischia di
essere un cammino senza ritorno. Ogni soggetto è pronto (o dovrebbe
esserlo) a rinunciare a porzioni crescenti di sovranità e potere, questo
il lascito doloroso del secolo XX. Nessuno può salvarsi da solo.