Repubblica 29.9.18
La lezione (da ricordare) del mondo antico
Quando le élite aprirono ai barbari e salvarono Roma per undici secoli
di Silvia Ronchey
Da
sempre l’ideologia politica dell’America si nutre di un’analogia
simbolica, perfino iconografica, con l’impero romano. Basta guardare
l’architettura del potere a Washington, dal Lincoln Memorial al
Jefferson Memorial, dal Supreme Court Building a Capitol Hill. Era stato
già Thomas Jefferson a volere che la sede del Congresso degli Stati
Uniti replicasse un antico edificio romano. Negli anni 80 del secolo
scorso Francis Ford Coppola aveva immaginato di ambientare in quella
eloquente scenografia un film sulla congiura di Catilina, in cui perfino
il casting fosse calcato sui volti della statuaria dei Musei
Capitolini. Fin dal secondo dopoguerra l’idea di pax americana, in
analogia con quella augustea, ha dominato il lessico politico e anche se
da qualche decennio la cosiddetta tardoantichistica, ossia la storia
del declino dell’impero romano, è divenuta una specialità delle
università statunitensi, gli Stati Uniti hanno continuato a darsi il
ruolo "romano" di garante della sicurezza globale del mondo. Fino alla
svolta odierna, in cui le parole d’ordine dell’amministrazione Trump
fanno parlare, invece, di "impero chiuso".
Ma proprio nel tempo
della cosiddetta decadenza e caduta dell’impero romano, narrata da
Gibbon, vediamo come la tendenza di un impero alla chiusura può essere
non solo contrastata ma integralmente ribaltata da una parte delle sue
classi dirigenti, delle sue élite intellettuali, delle sue aristocrazie.
Il cosiddetto Impero romano d’occidente, dopo la grande crisi del III
secolo, il collasso del sistema economico e finanziario, il calo
demografico, il blocco del dinamismo sociale, l’approfondirsi del
divario tra poveri e ricchi, il confluire delle classi medie nella
fascia degli humiliores, uniti a una nuova ondata di movimenti migratori
globali e alla pressione di nuovi soggetti etnici ai confini, si chiuse
in se stesso. Tutte le energie dello Stato vennero spese in
provvedimenti difensivi. L’aristocrazia romana si arroccò nelle sue
ville sull’Aventino.
Ma contemporaneamente un’altra parte
dell’élite politica e intellettuale reagì a questo moto di chiusura
costituendo una formula alternativa dello stesso impero e traghettandola
dalla Prima alla Seconda Roma: Costantinopoli. Tra il IV e il V secolo,
dalla fondazione della nuova capitale da parte di Costantino alla
cosiddetta "caduta silenziosa" della vecchia nel 476, un modello di
impero romano ancora più aperto, se possibile, mostrò al mondo come
quegli stessi soggetti etnici che a Roma si chiamavano barbari potessero
partecipare dell’antica cultura grecoromana, della sua filosofia e
prassi politica, integrarsi nelle classi dirigenti e nelle strutture
militari, rifondare su scala più ampia il principio di dinamismo
verticale, di ricambio delle élite, di mescolanza tra etnie e
circolazione tra classi, che aveva fatto la forza di Roma antica. È da
questo riaprirsi quasi istantaneo dell’impero romano tra il IV e V
secolo, al momento cioè della sua apparente caduta, che nasce la cultura
umanistica che oggi chiamiamo europea.
Bisanzio, i cui cittadini
si autodenominavano Rhomaioi, "romani", e tali erano giuridicamente e
politicamente, e sarebbero stati ancora lungamente, per undici, prosperi
secoli, perpetuò e perfezionò la tradizione del diritto e la dottrina
politica, la struttura economica e finanziaria, la rete commerciale e
viaria, e in generale la funzione di tutela di quella "pace globale" che
era stata propria dei discendenti di Enea — migranti anche loro,
stranieri fuggiti da un’espugnata Troia alla quale anche geograficamente
l’impero era tornato.
Perché un impero, per aprirsi, o riaprirsi,
sembra avere bisogno anzitutto di questo: di stranieri, di barbari.
Scriveva Kavafis: «Si è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. /
Alcuni sono arrivati dai confini, / hanno detto che di barbari non ce ne
sono più. / E adesso cosa sarà di noi, senza più barbari?».