venerdì 28 settembre 2018

Repubblica 28.9.18
Il film verità sull’odissea dei migranti in arrivo in tv
”It will be chaos", il doc italiano che ha conquistato gli Usa
di Alberto Flores d’Arcais


NEW YORK Era il 3 ottobre 2013 quando un peschereccio libico naufragò a mezzo miglia dall’Isola dei Conigli. Aveva a bordo centinaia di migranti, ne morirono quasi quattrocento. Tra i 155 superstiti (di cui 41 minori) c’era anche Arigai, un eritreo che vide morire accanto a sé tre suoi cugini, inghiottiti dal mare a poche centinaia di metri da Lampedusa. Nel 2015 inizia invece il drammatico viaggio di Wael per fuggire dagli orrori della guerra in Siria, che porterà la sua famiglia (moglie e quattro figli piccoli) attraverso l’intero corridoio balcanico, in un’odissea piena di fame, di pericoli, di ansie e di terrore che si conclude, dopo aver attraversato sette diverse nazioni, in Germania.
Arigai e Wael (con famiglia) sono i protagonisti dello straordinario documentario It will be chaos, prodotto da HBO che sarà ora visibile anche in Italia (su Sky Atlantic il 7 ottobre, anteprima al Milano Film Festival il 2 ottobre) dopo aver vinto al festival di Taormina il premio per la migliore regia. Lo hanno realizzato due registi italiani, Lorena Luciano e Filippo Piscopo, che da venti anni vivono (sono sposati) e lavorano come filmaker a New York, impegnati nel raccontare soprattutto storie sociali, senza però dimenticare il ritmo filmico della narrazione e la bellezza delle inquadrature.
Quando nel giugno scorso HBO lo ha presentato in anteprima mondiale a Manhattan, il film è stato accolto da applausi scroscianti e ha ricevuto ottime critiche dai media americani.
Per i due registi e sceneggiatori — Filippo è anche direttore della fotografia, Lorena lavora anche con Netflix — questa produzione è la definitiva consacrazione nel mondo del cinema documentaristico.
«Per chi fa documentari-verità, la sfida maggiore è trovarsi nel pieno di situazioni tragiche durante le riprese e doverne raccontare il senso più grande». Filippo Piscopo racconta a Repubblica quel giorno del 2013, «quando sul molo di Lampedusa un’enorme gru dell’esercito sollevava una a una le bare delle vittime, davanti agli occhi dei familiari in preda al dolore. Riprendere la scena non è stato facile. Come raccontare quel dolore senza essere scandalistici, rispettando la pena delle vittime e nello stesso tempo cercando di trasformarlo in storia che sopravviva alla cronaca?».
«La domanda più comune che ci rivolgono — interviene Luciano — è sempre relativa a quanto sia stato difficile girare questo film mentre seguivamo i nostri personaggi. In realtà, soprattutto nel documentario, la difficoltà più grossa è quella di mantenere la propria visione e di non diventare il megafono di nessuno. Si è erroneamente convinti che con una camera a disposizione sia sufficiente andare sul luogo, girare, montare le immagini in sequenza e avere una storia. In realtà il processo creativo è complesso e rigoroso. Bisogna essere etici e muoversi all’interno dei "fatti", attenersi al "reale": ma nello stesso tempo il documentario è cinema, con storie strutturate, con un linguaggio fotografico e sonoro preciso, con scelte di montaggio cruciali».
Per i due registi italiani è stato un lungo viaggio durato cinque anni, «un viaggio di perdita e di ricerca proprio come quello dei due protagonisti e che racconta una crisi antica come il mondo, di cui siamo protagonisti e spettatori al tempo stesso». HBO ha lasciato ai due filmaker «carta bianca sia in produzione che in montaggio» e grazie anche a Sara Bergamaschi, funzionaria delle Nazioni Unite (diventata poi produttrice associata) «che si è avventurata nei Balcani con noi», questa storia «dai mille volti, senza diavoli e santi, fortemente radicata nella crisi d’identità di un’intera epoca», alla fine è stata completata. «Il film è un omaggio agli eroi quotidiani di questo dramma: Aregai, Wael e la sua famiglia, i sindaci intrepidi, e i pescatori siciliani».