venerdì 28 settembre 2018

Repubblica 28.9.18
L’analisi
L’occidente sta sparendo
di Timothy Garton Ash


Donald Trump può essere peggio di così? Parafrasando lo slogan di Obama, yes he can. Ma se ci fissiamo sulle sue pessime qualità, sfoggiate questa settimana all’Onu, perdiamo di vista le forze più ampie che stanno dietro tanta immondizia. Negli ultimi giorni, qui a Washington, mi sono chiesto cosa resterà del vecchio Occidente transatlantico indipendentemente dal fatto che Trump esca di scena nel gennaio 2021 — o, volesse il cielo, anche prima. La risposta è inquietante. Anche nel migliore dei casi gli Stati Uniti e i loro alleati non si riprenderanno come accadde dopo il Watergate e il Vietnam. Questa volta è diverso, per motivi legati alla realtà interna ed esterna agli Usa.
Sì, Trump è responsabile di buona parte dei guai. Nell’ormai famoso articolo anonimo sul New York Times, un " importante esponente" dell’amministrazione ha scritto: " In pubblico e in privato Trump mostra di preferire autocrati e dittatori, come Putin e Kim Jong-un, e non manifesta apprezzamento per ciò che ci lega ai Paesi alleati". Tutto questo Trump lo ha dimostrato nel discorso all’Onu. È un attivista del fronte sovranista Xi- Putin- Orbán, l’internazionale impossibile di nazionalisti, nemico giurato dell’ordine liberale. Ho chiesto ai ben informati chi è l’anonimo autore dell’articolo. Parecchi hanno indicato l’entourage del vicepresidente Pence, che si presume abbia interesse a insidiare Trump. L’ipotesi più intrigante però è Huntsman, ambasciatore Usa a Mosca, futuro candidato alla nomination repubblicana alla presidenza. (Entrambi negano). Si profila così la prospettiva di un futuro presidente repubblicano che prenda le distanze dal disastro Trump. Ma per ora tutti mi dicono che « Trump ha in mano i Repubblicani » . Se le ripercussioni dell’indagine di Mueller non raggiungeranno un livello da Watergate, se Trump andrà avanti e l’economia continuerà a crescere, il presidente potrebbe conquistare il secondo mandato. Non oso neppure immaginare l’impatto di otto anni di Trump sulle relazioni transatlantiche.
Ma anche nella migliore delle ipotesi è improbabile che gli Usa si riprendano come dopo il Watergate e il Vietnam. Mettiamo che un democratico centrista e responsabile come Joe Biden conquisti la presidenza, magari con una vice come Kamala Harris. Mettiamo che il presidente Biden si sforzi di tornare al punto a cui eravamo prima. Anche in quel caso possiamo al massimo sperare in qualcosa di meno di Obama, non di più. E non dimentichiamo che è stato Obama, non Trump, il primo a dare priorità al nation- building in patria.
In quei quattro anni il mondo sarà cambiato, ma sarà cambiata anche l’America. Come dopo un ictus, si stabiliranno nuove connessioni in sostituzione delle vecchie, ormai esaurite. Mentre America e Gran Bretagna sono ossessionate dalla minaccia della Russia, il vero antagonista strategico e concorrente ideologico globale dell’Occidente, ossia la Cina, sta estendendo la sua influenza. Se la Brexit andrà avanti — a mio giudizio può e deve essere scongiurata da un secondo referendum — un divorzio astioso tra Regno Unito e Ue diminuirà ulteriormente l’impegno Usa nei confronti dell’Europa.
Ma indipendentemente dagli sviluppi esterni, questo processo è già in atto negli Usa. L’atlantismo americano è diminuito e continuerà a diminuire. Un esperto mi ha detto che è come « andare in chiesa e trovare metà delle panche vuote». E si riferisce alle élite della politica estera che costituivano il coro atlantista. Il resto dei fedeli americani sono sempre stati restii a frequentare quella chiesa.
Dalla finestra del mio albergo vedo il monumento che celebra il generale John J. Pershing e l’offensiva della Mosa- Argonne che, 100 anni fa, nel settembre 1918, contribuì a spezzare la resistenza dell’esercito imperiale tedesco e condusse all’armistizio dell’ 11 novembre. L’intervento americano nella Prima guerra mondiale fu la prima straordinaria manifestazione dell’Occidente transatlantico, geopolitico. Ma gli Usa in seguito si ritirarono per più di vent’anni nell’immensità del loro continente, mentre le democrazie europee soccombevano al fascismo e al comunismo. Solo nel 1941 l’attacco giapponese a Pearl Harbor consentì a Roosevelt di far entrare il suo Paese nella Seconda guerra mondiale. Ma nel 1945 il primo impulso nazionale degli Usa fu di nuovo quello di ritirarsi. Thomas Wright, dell’istituto Brookings, ci ricorda quanto affermato dall’ambasciatore in Unione sovietica Averell Harriman, ossia che gli americani volevano appianare le differenze con la Russia e poi «andarsene a bere Coca cola al cinema». Ci vollero l’eloquenza di Churchill e la brutalità di Stalin per fargli cambiare idea.
L’epoca della Guerra fredda fu eccezionale sotto il profilo storico. La sensazione opprimente di avere un nemico comune nel cuore dell’Europa unì Europa occidentale e Stati Uniti, rendendoli un unico attore geopolitico. Quell’unità di azione transatlantica è stata messa in discussione. Oggi più che mai i fedeli americani voltano le spalle all’impegno internazionale e non vogliono farsi intrappolare in alleanze, preferendo dedicarsi ai problemi interni. Un ex segretario di Stato Usa mi dice che l’opinione pubblica esprime poco interesse per la politica estera. Chiunque utilizzi aeroporti, autostrade o ferrovie capisce perché gli americani intendano migliorare le strutture sul territorio più che pensare a scuole in Afghanistan o Iraq. "Prima l’America" non è solo uno slogan di Trump. È uno stato d’animo nazionale a cui persino il più internazionalista dei presidenti avrebbe dovuto adeguarsi.
Trump è terribile, ma è tanto sintomo che causa. Il problema della divergenza transatlantica era presente prima di Trump, ha cause più profonde e resterà dopo Trump. I cento anni di partenariato transatlantico a intermittenza dal 1918 hanno lasciato un imponente retaggio: l’intreccio internazionale economico maggiore e più stretto del mondo; la Nato alleanza di sicurezza con un rinnovato impegno alla mutua difesa grazie a Putin; un’intimità culturale e intellettuale senza pari. L’Occidente transatlantico è un corpo possente, muscoloso — ma con la mente svagata, il cuore debole e l’anima divisa.
Traduzione di Emilia Benghi