Repubblica 27.9.18
Éveline Lot- Falck
La donna che rubò i segreti agli sciamani
di Antonio Gnoli
Ci
fu un tempo in cui la vita sociale – nel suo aspetto religioso e
protettivo – era regolata da una sorta di patto sciamanico. La figura
che ne garantiva l’esercizio, cioè lo sciamano, conteneva in sé qualcosa
di bizzarro. Poteva comportarsi in modo strano: urlare, danzare o
rivolgersi al cielo e alla terra con una lingua incomprensibile o magari
segreta e prossima a quella degli animali.
A volte percuoteva uno
strumento – in molti casi un tamburo – il cui suono non aveva nulla di
frivolo, ma favoriva l’estasi, consentendogli perfino di volare.
Nel
suo costume pittoresco, lo sciamano era considerato il solo autentico
contatto tra il visibile e l’invisibile; tra il rito e il sacrificio;
tra la vita e la morte; tra l’animale e l’uomo. Non c’è civiltà ai suoi
albori che non abbia goduto dei suoi poteri. Lo sciamano era un eletto.
La sua iniziazione poteva essere un dono del cielo o trasmessa da un
altro sciamano.
Perfino certe patologie – il grande viaggiatore
Karl Rasmussen parlò, a proposito della labilità nervosa degli
eschimesi, di «isteria artica» – contribuivano ad accrescerne la forza.
Ma nel concreto quale era la sua funzione? Un libro di sorprendente
bellezza, precisione e sapere, ora ne narra l’avventura.
Éveline
Lot-Falck ha dedicato larga parte della sua vita di etnologa e studiosa
di religioni euroasiatiche al mondo degli sciamani. La storia di questa
donna straordinaria è tratteggiata da Claudio Rugafiori nella
postfazione a I riti di caccia dei popoli siberiani (ed. Adelphi).
Figlia
di padre francese e di madre russa, vissuta a Parigi, dove a lungo ha
insegnato alla École pratique des hautes études, scomparsa nel 1974,
Lot-Falck ha ricostruito e svelato la fittissima trama sciamanica che,
come una seconda pelle, ha rivestito il mondo siberiano.
Un paio
d’anni fa Roberto Calasso ne Il Cacciatore celeste esplorò con grande
suggestione quel pantheon antropologico dove uomini e déi potevano
combattersi ma altresì fondersi.
Nel raccontare il Paese del
freddo, la Terra dell’oscurità, dove la Tundra e la Taiga offrivano allo
sguardo del cacciatore la medesima monotonia di paesaggio, Lot-Falck
aprì la sua mente a quei mondi estremi e inospitali nei quali era arduo
ma altresì fondamentale poter decifrare il rapporto dell’uomo con gli
animali. Quel nesso si rafforzava sotto il segno dell’imitazione e della
metamorfosi. Sicché qualunque cosa, perfino una pietra, era animata.
Questo pensava Lot-Falk convinta che orsi, trichechi, pesci, cervi,
balene prima ancora di essere animali erano spiriti in grado di
proteggere o tormentare, a seconda del modo in cui il cacciatore si
disponeva davanti alla "preda". Per ucciderlo l’animale doveva dare il
suo assenso, rendersi complice della sua uccisione. Sicché l’orso andava
dal cacciatore quando era giunta la sua ora. Un detto siberiano recita
che se la renna non ama il cacciatore, costui non sarà in grado di
ucciderla.
Una tale partecipazione alla propria morte è
inconcepibile solo per chi, come noi, è del tutto estraneo alla
struttura segreta del cosmo, alla sua ineffabile e fluida armonia in cui
gli spiriti-signori (quelli animali) sono per così dire i guardiani.
Qual era dunque il ruolo che vi svolgeva lo sciamano? All’inizio delle
stagioni di caccia o in caso di carestia toccava a lui visitare i
signori, i guardiani, gli spiriti sotterranei per ottenere la promessa
di una selvaggina abbondante. La sua intermediazione tra il mondo
terrestre e quello degli spiriti garantiva la difesa del benessere del
suo popolo. Non sempre, tuttavia, lo sciamano contrastava le forze
ostili. Nel suo potere si nascondeva il limite di una arroganza
capricciosa, di una competizione violenta che lo spingeva a duellare con
altri sciamani. Il violento antagonismo trasformava i signori della
foresta, dell’acqua e del focolare in avversari che non avrebbero mai
deposto le armi. Un mondo tutt’altro che pacificato sembrò dunque
camminare con quelle popolazioni di cacciatori pescatori e pastori
nomadi che dai ghiacci artici, dalle foreste siberiane, dalle steppe
euroasiatiche si spostarono lentamente verso Occidente.
Si è molto
discusso dell’influenza che la mitologia caucasica ed euroasiatica ha
avuto sulla Grecia antica; è un fatto che alcune divinità e certe
fisionomie sciamaniche si rincorrano nel tempo e nello spazio. Ci
ricorda Carlo Ginzburg nel suo bellissimo Storia notturna che nel
santuario di Brauron Artemide, signora degli animali, era venerata da
fanciulle vestite da orse. Il culto estatico di tipo sciamanico che
ritroviamo in molti luoghi della Grecia antica deriva dalle divinità
euroasiatiche protettrici della caccia e della foresta. Ma la caccia
nella mente divina di Artemide non ebbe più nessuna vitale utilità. Si
ridusse soltanto a un gioco. Fu così che per la prima volta venne
scoperta la gratuità della violenza.
"Sciamanico" è oggi diventato un aggettivo di pronto impiego.
Qualunque
reazione quella parola susciti sembra prevalere la destituzione del
senso, ha perso la sua pregnanza sociale e religiosa.
Somiglia al rombo di una metropolitana che si allontana.
C’è
il mondo sotterraneo, c’è il rumore inquietante e c’è il buio della
galleria. Ma è un viaggio senza iniziazione, senza enigmi da sciogliere o
demoni da affrontare.
Solo stazioni da cui scendere o salire.