Il Fatto 27.9.18
Gli anni “neri” di Pavese con Mussolini e Hitler
di Massimo Novelli
Non
compreso tra le opere di Cesare Pavese, e uscito soltanto in un
quotidiano o rammentato in qualche saggio, il taccuino segreto e
politicamente assai scorretto del 1942-1943 dello scrittore di Santo
Stefano Belbo sta per avere dignità di libro. L’editore piemontese Nino
Aragno lo pubblicherà tra qualche mese, fra dicembre e gennaio, in un
volume in cui, oltre al frammento di diario, verrà ricostruita tutta la
vicenda del suo ritrovamento e si darà conto delle polemiche che ne
accompagnarono la tardiva divulgazione. Nel 2016 Aragno aveva dato alle
stampe una traduzione di Pavese della Volontà di potenza di Friedrich
Nietzsche
Era stato il critico letterario Lorenzo Mondo a rendere
noto su La Stampa, l’8 agosto 1990, il taccuino inedito di Pavese
risalente al 1942-43 e contenente, ecco lo scandalo, giudizi favorevoli
al fascismo e al nazismo, a Mussolini e alla guerra nazifascista. Lo
scoop del quotidiano torinese seminò lo sconcerto nel mondo della
cultura, soprattutto tra gli intellettuali di sinistra e i “pavesiani”.
Lo sintetizzò bene nel 1991 il grande italianista Carlo Dionisotti sulla
rivista Belfagor. “La pubblicazione, a quarant’anni dalla morte”,
scrisse, “di un ‘taccuino segreto’ di Pavese (…) ha provocato e provoca
discordi commenti. Nessuno si aspettava che gli eventi politici e
militari del 1942-1943 avessero proposto a Pavese considerazioni,
giudizi e pronostici che suonano oggi scandalosamente favorevoli a
Mussolini e a Hitler e a quella parte, incluso ancora e addirittura
Franco, e avversi, con un po’ di cattiveria ironica, ai pochi e inermi e
perseguitati antifascisti italiani”. Era persino difficile, per molti,
considerare di Pavese, lo stesso che scriveva su L’Unità, quelle pagine
del diario in cui minimizzava le atrocità dei nazisti e commentava
positivamente il Manifesto di Verona della Repubblica di Salò. Tanto
che, come ricordava il compianto Cesare De Michelis nel 2016 su Il Sole
24 Ore, “resiste più di un sospetto sulla sua autenticità, mentre ci si
sforza di trovare plausibili giustificazioni a quella serie di
annotazioni che inequivocabilmente smentiscono la vulgata antifascista
dell’impegno dello scrittore”.
Il taccuino, senza alcun dubbio,
era di Pavese. Mondo lo aveva avuto verso il 1962 da Maria Sini, la
sorella dell’autore de La luna e i falò. Lo fece vedere a Italo Calvino,
allora dirigente dell’Einaudi. “Andai da Calvino – spiegò Mondo – che
stava dietro la sua scrivania. Mentre sfogliava il taccuino, la sua
faccia mi pareva ancora più pallida e magra. Disse che non ne sapeva
niente e stette a guardarmi in silenzio meditabondo. Pensai, a grande
velocità, che per il momento era opportuno mantenere il riserbo sul
testo. Al di là delle probabili e legittime opposizioni della famiglia,
c’era da esporsi alle accuse e al rischio di speculazioni volgari. Non
lo meritava la famiglia, non lo meritava Pavese. ‘Tienilo tu – gli dissi
– mettilo in cassaforte. Quando varrà la pena di pubblicarlo, ricordati
di me’”.
Italo Calvino, e la casa editrice di Pavese, l’Einaudi,
non ritennero opportuno farlo conoscere. Mondo volle rompere il silenzio
quasi trent’anni dopo, affidando a La Stampa il frammento del 1942-43
non inserito nel diario Il mestiere di vivere, che Pavese aveva comunque
conservato tra le sue carte. Raccontò sempre Mondo su La Stampa del
1990: “Dopo l’impresa dell’epistolario (ne uscirono due volumi con
lettere dal 1924 al 1950) vidi solo fuggevolmente Calvino che poi si
trasferì a Roma. E quelle poche volte, nessuno di noi toccò l’argomento.
Avevo del resto una mia idea. Pensavo di scrivere una vita di Pavese
nella quale avrebbe trovato il giusto posto, contestualizzato, il
capitolo sconosciuto della biografia pavesiana”. Ma “il lavoro
giornalistico sempre più intenso”, proseguiva, “la sopravvenuta
disaffezione per l’argomento, la pigrizia, mi fecero accantonare il
progetto e dimenticare le carte. Ne accennai appena, negli anni, a
qualche amico. Chissà dov’era mai finito l’originale. Dimenticato o
perduto nelle vicissitudini della casa editrice, nel viavai di laureandi
che si sono chinati sui fogli pavesiani? A ogni importante occasione
(anniversario o congresso pavesiano) temevo di veder spuntare l’oggetto
misterioso, ero quasi rassegnato a vedermi spossessato del mio piccolo
segreto. Anche perché non riuscii più a rintracciare per parecchio tempo
le mie fotocopie. Poi, dopo la morte di Calvino, mettendo ordine dopo
un trasloco, le vidi riaffiorare. Allora mi sentii all’improvviso
sbloccato. Purché i parenti di Pavese fossero d’accordo. Ma le nipoti
Cesarina e Maria Luisa accondiscesero”.