martedì 25 settembre 2018

Repubblica 25.9.18
Per capire dove siamo finiti torniamo a leggere "La montagna incantata"
di Fernardo Villespin


Capitalismo in crisi, derive nazionaliste, irrazionalismo dilagante E persino Steve Bannon. Thomas Mann aveva già previsto tutto nel suo capolavoro ambientato in un ospedale svizzero. Con un paziente: l’Occidente
A ottobre sarà passato un secolo dall’uscita del primo volume del Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler.
Credo siano poche le cose recuperabili da questo insieme confuso di filosofia della storia.
Una in particolare lo è su tutte: l’insistenza di questo saggio sullo smarrimento delle élite di fronte alla società di massa. Ma se volete godere della vertigine provocata dal sapere di essere sull’orlo di un collasso di civiltà, il mio consiglio è quello di tornare a leggere La montagna incantata di Thomas Mann, scritto più o meno nello stesso periodo del libro di Spengler: dopo la prima guerra mondiale. La buona letteratura spesso esprime in modo più lucido ciò che i filosofi o i teorici sociali intravedono più tardi.
L’argomento non potrebbe essere più attuale: la descrizione della decadenza di una società in chiave simbolica. La trama del libro si svolge in un ospedale svizzero per pazienti affetti da tubercolosi.
La macchia sul polmone come simbolo della malattia di un’intera civiltà disorientata.
Il cambiamento dei codici a cui si è costretti dal ricovero, la vicinanza della morte e l’onnipresenza della malattia, diventano elementi controfattuali che ci permettono di ripensare tutto. Che cosa potremmo recuperare da quella narrazione che ci sia utile per descrivere ciò che ora ci affligge?
Nessuno ignora che stiamo provando quella stessa inquietudine per il venire meno di conquiste che un tempo consideravamo consolidate.
Abbiamo di nuovo individuato quella macchia sul polmone e cerchiamo di trovare nuovi punti di orientamento e ricomporre l’ordine perduto. A tal fine, e nonostante la loro rilevanza storica, mi sembrano secondari i sintomi che indicano la fine dell’egemonia occidentale, ma non la frammentazione della sua unità culturale e di valori. Forse è proprio qui, nella verifica della perdita della nostra identità comune, che sorge quest’ansia.
Questa era anche la tesi di Mann: la convinzione che il processo di civilizzazione fosse entrato in collisione con gli ingredienti della cultura profonda, con il mondo in cui si forgia la nostra identità originaria, ma anche con quello della disciplina, della gerarchia, delle fonti dell’autorità e dell’io.
Questo scontro tra due dimensioni fino ad allora immaginate come compatibili si riflette nei dialoghi tra i personaggi di Settembrini e Naphta. Il primo è il tipo ideale del razionalista illuminista, che crede nel progresso tecnologico: è cosmopolita, democratico, repubblicano, individualista; confida in uno Stato universale e laico e nel controllo della natura attraverso la scienza. Naphta, invece, è l’epitome dell’autoritarismo e dell’irrazionalismo politico; si oppone a tutto: al mercato, al capitalismo; è al tempo stesso il rappresentante della reazione e della rivoluzione proletaria, religioso e rivoluzionario marxista e, quindi, dogmatico a partita doppia. Aspira all’annullamento dell’individualità in nome di impulsi millenaristici. Ed è nazional-statalista. La storia mostra che, in questo gioco di antagonismi, i Naphta finiscono inizialmente col vincere. Come voleva il personaggio, alla fine si è imposta "la comunità mitica attraverso il terrore e la violenza", tanto quella nazista che quella stalinista.
Dopo la devastazione, è venuto il trionfo di Settembrini. Anche se, come temeva Mann, alla fine è rimasto vittima della sua "superficialità": la sua dimensione commerciale ha avuto la meglio su quella civico-repubblicana; non ha vinto l’universalismo dei diritti umani, né la democrazia, ma il capitalismo, l’unica cosa che, con lo Stato-nazione, abbiamo globalizzato con successo. La razionalità strumentale associata al progresso tecnologico ha anche smesso di essere un’esclusiva dell’Occidente e si è combinata con la banalità di un consumismo di massa che si è diffuso ovunque.
Oggi l’Occidente torna ad avere un’anima scissa. Ancora una volta ci troviamo nella stessa dialettica: cosmopoliti contro nazionalisti. O difensori della democrazia liberale contro il nazional-populismo. Ogni tanto si affaccia qualche bel Settembrini, come Macron o Obama, a suo tempo. Anche se io, come il bambino del film Il sesto senso, vedo Naphta ovunque. E il più sinistro di tutti, la sua migliore incarnazione contemporanea, è Steve Bannon, che si è autoeletto guida spirituale per condurre il nazionalpopulismo alla vittoria nelle prossime elezioni europee.
Crisi dell’Occidente? No, penso che sia piuttosto fatica, stanchezza di civiltà.
Un secolo fa, venne proclamato il nostro declino e andiamo avanti.
Come dimostra questo stesso articolo, non possiamo smettere di guardare al passato. Abbiamo una terribile paura del futuro.
Invece di affrontare di petto le sfide del futuro e di rafforzare tutto ciò che ci ha resi grandi, ricorriamo di nuovo a soluzioni del passato presuntamente salvifiche. Pur sapendo tutti dove ci hanno portato.
Che cosa posso dirvi: se sono costretto a schierarmi tra questi due estremi, preferisco la leggerezza e la "superficialità" di un Settembrini a tutto il peso mistico-religioso-rivoluzionario di un Naphta. E questo non mi rende meno sensibile né mi trasforma in un uomo senza patria.
L’autore, politologo, insegna all’Università di Madrid © El País / LENA (Leading European Newspaper Alliance) Traduzione di Luis E. Moriones