martedì 25 settembre 2018

l’espresso 23.9.18
La carica dei cristiani senza Dio
Di Marco Damilano

L’Europa attuale è stata costruita dai leader cattolici che volevano unire Chiesa e democrazia. Oggi vacilla di fronte all’attacco dei sovranisti


 no spettro si aggira per l’Europa, la vecchia sinistra socialdemocratica, in picchiata ovunque nei consensi e in crisi di identità. La sua versione italiana, raccolta sotto le bandiere del Partito democratico, non riesce da mesi neppure a raccontare a se stessa e agli italiani le ragioni di una perdita di milioni di voti ed è arrivata a dividersi perfino sugli inviti a cena. È accaduto in occasione dell’improvvida idea di Carlo Calenda, invitare a tavola un ristretto club di primi della classe, Matteo Renzi, Marco Minniti, Paolo Gentiloni, che alla fine hanno lasciato cadere scatenando l’ira dell’ex ministro. L’opposizione continua a discutere di formule e contenitori, mentre la coalizione di governo M5S-Lega litiga, si accapiglia, si divide sulle cose da fare: misure, soldi, risorse per la legge di Bilancio. Occupa tutte le zone del campo (destra, sinistra e centro) e continua a crescere nei sondaggi, malgrado la confusione. Ma c’è un altro fantasma, molto meno analizzato e raccontato, che spiega quanto sta succedendo in Italia e nel resto d’Europa. Attraversa i paesi che ricalcano i confini dell’antico Impero carolingio, Francia e Germania, e gli Stati oggi uniti dal patto di Visegrad e poi l’Austria e il Lombardo-Veneto, culla della Lega prima indipendentista e oggi sovranista: i territori che furono dell’Impero asburgico. È una faglia che a Ovest e a Est dell’Europa spacca i popoli che furono la culla della cristianità europea nel Medioevo, nell’età moderna e nei cinquant’anni seguiti alla fine della seconda guerra mondiale, dopo il 1945. L’Europa unita, sognata dal laico Altiero Spinelli nell’isola di Ventotene, ben più che dalle sinistre socialiste è stata inizialmente costruita dai tre leader dei paesi fondatori: il francese dell’Alsazia-Lorena Robert Schuman, il tedesco della Renania Konrad Adenauer, l’italiano venuto dal Trentino, già deputato del Parlamento asburgico, Alcide De Gasperi. Tre leader venuti da regioni di frontiera, testimoni degli eccidi e delle tragedie del Novecento, tre cristiani interpreti di una potente idea politica: l’incontro tra i cattolici e la democrazia, dopo secoli di guerre di religione, di alleanze tra trono e altare e di separazioni sanguinose. E dunque la fine della lunga stagione aperta in Europa dalla rivoluzione francese del 1789, con la Chiesa e i cattolici relegati all’opposizione della modernità, sul fronte della restaurazione. L’Europa e la democrazia erano i due volti di un progetto ambizioso, insieme politico e religioso, perché richiedeva una Chiesa non più arroccata sul fronte della reazione, anticipava le conclusioni del Concilio Vaticano II. In Italia significava la lunga egemonia del partito-Stato dei cattolici, la Democrazia cristiana, in una logica non confessionale ma di autonomia tra le due sfere, l’ordine temporale e l’ordine spirituale. La garanzia che la democrazia italiana e l’orizzonte europeo avrebbero avuto una base di massa, popolare: contadini, operai, ceti medi, l’immenso bacino dell’elettorato cattolico. Il processo di costruzione dell’attuale Unione europea e l’allargamento ai paesi dell’Est fu completato dagli ultimi esponenti di quella tradizione: l’italiano Romano Prodi, il tedesco Helmut Kohl, cui va aggiunto il più anziano Jacques Delors, che da giovane si era formato nella gioventù operaia cattolica e nella rivista “Témoignage Chrétien”, prima di aderire al partito socialista. Era stato il papa polacco Giovanni Paolo II a coniare lo slogan dell’Europa a due polmoni, uno orientale e uno occidentale, ben prima della caduta del Muro. E alla fine del Novecento e nei primi anni Duemila il progetto era sembrato trionfare.
Oggi, invece, c’è il vuoto. Non ci sono due polmoni, ma l’asfissia. L’Europa non respira, soffoca, ha le porte e le finestre sbarrate, all’esterno e all’interno. La stagione di quella che lo storico Timothy Snyder ha definito in “La paura e la ragione” (Rizzoli, 2018) «la politica dell’eternità»: il ritorno alla politica del suolo, della terra degli avi, contrapposto alla «politica dell’inevitabilità», il culto dei parametri economici come volto finale della liberal-democrazia. Due visioni entrambe anti-storiche, scrive Snyder: «I politici dell’inevitabilità insegnano che i dettagli del passato sono irrilevanti, perché qualunque cosa succeda è acqua per il mulino del progresso. I politici dell’eternità saltano da un momento all’altro, tra i decenni e i secoli, per costruire un mito di innocenza e di pericolo». Oggi l’Economist si interroga sul superamento di un liberalismo inteso come puro vincolo e austerità. Ma intanto il vuoto si è aperto, nel cuore dell’Europa, e nel vuoto tornano di moda parole antiche: Patria, Nazione, Identità. Radici. E il cattolicesimo democratico e europeista è stato spazzato via. Al suo posto c’è un’ideologia, cristianista più che cristiana, che si candida a guidare culturalmente il fronte del sovranismo alle prossime elezioni europee, in Polonia, Ungheria, Austria, Italia. Con un doppio obiettivo: abbattere non solo l’Europa di Maastricht e di Schengen, ma anche l’Europa dei diritti, che è stata una sorta di virtuoso vincolo esterno. In nome della rivincita sulla modernità, la restaurazione, il ripristino della Tradizione immutabile, contro quello che viene considerato un interminabile catalogo di errori. L’Ungheria di Viktor Orbán è l’apripista. Il premier ospitato nel vecchio Ppe, i democristiani europei, in questi anni ha stravolto la Costituzione del suo paese inserendo riferimenti continui al re Santo Stefano, all’identità cristiana della Nazione, alla famiglia «basata sull’unione volontaria tra uomo e donna», con il divieto di aborto e la difesa del feto «fin dal concepimento». È la politica dell’eternità, che aggredisce un’Europa svuotata dai suoi valori fondativi. L’Espresso racconta come sta avvenendo questa metamorfosi anche in Italia. Può far sorridere o inquietare, o entrambe le cose. Di certo è uno dei motori del sovranismo italiano. Un movimento che raccoglie un partito, la Lega, un gruppo trasversale di 150 parlamentari, il gruppo Famiglia e Vita appena nato, un ministro, Lorenzo Fontana, per cui è stato appositamente creato un ministero della Famiglia, di nessuna capacità di spesa ma di ampio potere declamatorio, il leader Salvini che ha sventolato una copia del Vangelo e una corona del rosario nel comizio finale della sua campagna elettorale in piazza Duomo, nel silenzio imbarazzato della gerarchie ecclesiastiche. Il movimento conta su potentissimi appoggi in Vaticano, nell’ala curiale anti-Bergoglio, e su quella rete internazionale che ruota attorno all’enigmatico ex consigliere di Trump Steve Bannon. C’è una storia italiana che ci porta qui. La fine del partito dei cattolici, la Democrazia cristiana, che raccoglieva la gran parte dell’elettorato dei credenti e dei praticanti alla messa domenicale, ma aveva combattuto ogni deriva clericale o sanfedista. La chiusura della Dc, avvenuta esattamente un quarto di secolo fa, avrebbe dovuto lasciare spazio, nella speranza dei sostenitori del bipolarismo, alla presenza di cattolici in entrambi gli schieramenti, a far da lievito con la loro cultura. Era questo il senso più profondo dell’operazione Ulivo: un patto tra laici e cattolici pensanti, come li chiamava il cardinale Carlo Maria Martini. Cattolici aperti alla modernità, laici curiosi del fatto religioso. Quel patto è saltato quasi subito. Perché la gerarchia ecclesiastica italiana, guidata con il pugno di ferro dal cardinale Camillo Ruini, preferì puntare sullo schema opposto: la trasformazione della Chiesa in una lobby, con l’inserimento in Parlamento e nei nuovi partiti della Seconda Repubblica, da Forza Italia alla Margherita, di figure politicamente sbiadite ma docili ai disegni della Conferenza episcopale. Paola Binetti e Eugenia Roccella, per dire. Un disegno che presupponeva la riduzione del mondo cattolico a pura massa di manovra, da spingere in piazza come nel caso del primo Family Day del 2007 contro il disegno di legge sulle unioni civili del governo presieduto dal cattolico Prodi, e da rispedire a casa a piacimento se il momento richiedeva trattative lontane dai riflettori. Il bilancio finale è stato disastroso: l’episcopato, finita l’era Ruini, si è presentato senza leadership e capacità di lettura della nuova realtà italiana, oscillante tra un populismo pasticciato e le buone intenzioni, incapace di proporre nei conclavi del 2005 e del 2013 un candidato all’altezza del papato. Il serbatoio dell’associazionismo, dei movimenti, del sindacato (la Cisl) che forniva i quadri di una classe dirigente diffusa e popolare, con i suoi personaggi di spicco nell’establishment, i Bazoli, gli Andreatta, i Prodi, e gli intellettuali ascoltati dalla cultura laica come Pietro Scoppola, si è esaurito nel conformismo, nella ripetizione delle formule astratte (ieri i principi non negoziabili, la vita e la famiglia, oggi un certo appoggio di comodo alle indicazioni di papa Francesco di cui si coglie l’aspetto più edulcorato, il meno impegnativo), nella distanza dalla sfera della politica, considerata nella stagione precedente lo sbocco privilegiato dell’impegno nella storia, forse obbligato, di certo il più nobile. E, quel che è peggio dal punto di vista della ragione sociale della Chiesa, l’annuncio del messaggio cristiano nel mondo, c’è stato un arretramento vistoso: le chiese vuote, l’ignoranza religiosa, l’incredulità pratica, il silenzio di Dio di cui parla Giuseppe Genna a pagina 34. La riduzione del cattolicesimo dalla dimensione del mistero della vita, del dolore e della Resurrezione alla estenuante difesa quotidiana sui preti pedofili, le beghe curiali che trasforma la Chiesa in una multinazionale corrotta e in disarmo. In questo vuoto si è compiuta la secolarizzazione, «il salto nel vuoto etico», come l’ha definita Scoppola. Quell’attitudine contemporanea a non credere in un dio o in una religione che è finita per capovolgersi nel nichilismo, ovvero nell’impossibilità o nell’incapacità di credere a qualcosa. E, sul fronte opposto, la crescita della reazione. Un cristianesimo dell’eternità, ben rappresentato dal ministro Fontana e dalla sua guida spirituale don Wilmar Pavesi, raccontato da Elena Testi. Un’eternità, però, che ignora il trascendente, perché la partita si gioca tutta qui e ora, su questa terra, in questa Europa e in questa Italia, nella politica, una sfera non più distinta dalla religione. Un processo lungo: già all’inizio degli anni Novanta il Centro Lepanto attaccava il Trattato di Maastricht, «la più grave minaccia contro gli Stati nazionali europei, e dunque contro la stessa Europa, in questo dopoguerra», lo definiva il professor Roberto De Mattei, animatore del centro che aveva promosso l’attacco contro la moschea di Roma e la veglia di preghiera contro il Gay Pride del Duemila: «L’omosessualità è un vizio infame. Ci auguriamo che Sodoma, la città della depravazione, non sia il modello del Parlamento europeo». Già allora il Centro Lepanto aveva intrecciato una serie di importanti relazioni con l’Heritage Foundation, una delle culle del pensiero neo-conservatore Usa, ma restava minoritario e isolato. Oggi, invece, tra i fedeli solo il 33 per cento è critico con Salvini, il 57 per cento è d’accordo con il capo della Lega, nonostante la predicazione di papa Francesco e le ripetute prese di posizione del quotidiano Cei, Avvenire. E concetti fino a poco tempo fa impresentabili risuonano dalla bocca di un prete che un ministro della Repubblica frequenta ogni mattina. C’è una semplice domanda per il ministro Fontana che ha giurato fedeltà alla Costituzione repubblicana: condivide quanto ha detto all’Espresso il suo consigliere spirituale e politico, perché per i neo-reazionari la distinzione tra le due sfere non esiste? Se sì, Fontana sarebbe un ministro che considera le donne incapaci di studio, l’omosessualità un frutto del diavolo e l’alleanza trono-altare un progetto possibile. Un caso unico in Occidente, almeno per ora. All’interno della Chiesa si muove una lobby potente di mezzi e di relazioni, spara i suoi cannoni dalla stampa di destra o da siti influenti e militanti. Nell’indifferenza della cultura laica, ormai insensibile al fatto religioso. Ma è un errore, perché è da questa nuova frattura tra cristianesimo e modernità, tra cattolici e democrazia che nasce il più feroce attacco ai diritti di tutti. Quelle chiese deserte rappresentano un vuoto più profondo che riguarda tutti. In cui avanza un cristianesimo in fondo ateo. Senza Dio perché senza l’uomo, senza l’altro.


l’espresso 23.9.18 Antimoderni all’assalto
Il governo della Reazione
di Elena Testi
I gay? Peccato istigato dal diavolo. I migranti? In Italia, prima i nostri. L’aborto? Un crimine. Per risollevare la civiltà serve una nuova alleanza trono-altare. Chi sono e cosa pensano i preti che ispirano il ministro Fontana. E Salvini

Alle 7 del mattino il ministro prende la messa in latino. La rete comprende il cardinale Burke, nemico di Bergoglio, padre Georg, ed è vicina al guru sovranista Steve Bannon



La luce entra flebile, in lotta con le tenebre, a simboleggiare quanto avviene nelle anime dei presenti. Sei persone, quattro uomini e due donne con il capo coperto da un velo bianco. Pregano, sussurrando un’antica litania, mentre il pugno chiuso percuote il petto in segno di contrizione per tutti i peccati di cui si sono macchiati. Sono le sette e un quarto del mattino, dentro l’antica chiesa romana dalla facciata imponente a due passi da palazzo Farnese, ponte Sisto e via Giulia, le preghiere sono in latino, il prete che dice messa rivolge le spalle ai fedeli, un altro celebra per conto suo a un altare laterale, in prima ila c’è un uomo in disparte genuflesso, con il busto rivolto verso la panca. La bocca in un bisbiglio, le ginocchia rimangono inchiodate nel legno duro, senza fodera, tra le mani stringe un messale consumato, sfoglia le pagine logore velocemente, in cerca del passaggio. «Ite, missa est». Si volta e nel buio si riconosce la linea del volto. È il più ascoltato consigliere di Matteo Salvini, il senatore della Repubblica Lorenzo Fontana, il ministro della Famiglia. Ogni mattina all’alba, quando si trova a Roma, Fontana si dirige nella chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini, affiancato da un collaboratore meno esperto di antichi riti, all’uscita colazione e poi si incammina verso il suo ufficio di ministro della laica Repubblica italiana. Prima, però, ogni giorno, dopo la liturgia ecclesiastica, rimane in contemplazione per alcuni minuti, si alza e si dirige verso l’altare, dove si inginocchia di nuovo. Infine apre la porta della sacrestia e parla con la sua guida spirituale, nonché politica, don Vilmar Pavesi. Prete della Fraternità Sacerdotale di San Pietro, fondata dal vescovo scismatico Marcel Lefebvre, scomunicato da papa Giovanni Paolo II nel 1988. La congregazione venne salvata e riammessa nella Chiesa nel 2008 da Benedetto XVI: da quel momento la Fraternità ha il permesso di celebrare la messa in latino, con l’antico rito tridentino, rifiutando la riforma della liturgia voluta dal Concilio Vaticano II che ha introdotto la messa in volgare con la possibilità per i laici di partecipare attivamente. Un’eresia per gli ultra-reazionari cattolici che fino a qualche anno fa sembravano un residuo della storia, una pattuglia di nostalgici della Tradizione. Oggi, invece, sono un’avanguardia. Il fronte più avanzato di un esercito che sta sconvolgendo la Chiesa e l’Europa. Nel buio della pluri-secolare chiesa dei Pellegrini, dove predicò san Filippo Neri, si gioca qualcosa di più di una semplice devozione a un rito passato. Si fanno vedere ministri della Lega, cardinali nemici di papa Bergoglio, americani alla Steve Bannon. In questa chiesa l’esercito si sta organizzando: qui si è visto Matteo Salvini, il porporato Raymond Leo Burke, amico di Bannon, è di casa, il vescovo Georg Gänswein, segretario di Ratzinger, ha celebrato le cresime in abito porpora. L’Internazionale sovranista ha qui, nel cuore di Roma, tra madonne, crocifissi e evangelisti, uno dei suoi nascosti punti di riferimento. Fontana è uno di loro. Un crociato che si è candidato nel 2014 al Parlamento europeo nella Lega per bloccare l’ingresso nella Ue della Turchia. Un fedele che ripudia l’epoca moderna. Un nemico acerrimo dei progressisti e amico fidato dei prelati anti-bergogliani che tessono trame politiche nel sogno di ricostituire una guida cattolica per il gregge smarrito e per l’Europa. Ma Fontana è oggi l’uomo scelto dal Governo del Cambiamento per ricoprire un ruolo strategico in tema di diritti civili. Per lui è stato creato un ministero ad hoc, la Famiglia, insieme al compagno di partito Simone Pillon, suo sottosegretario. Amici fraterni e tradizionalisti convinti, tanto da lasciare insieme, ma non prima di aver parlato alcuni minuti davanti a palazzo Grazioli, la festa della Lega oferta dal vice-premier Salvini nel super attico del ministero dell’Interno. Don Vilmar Pavesi è la sua guida spirituale, la più influente. Tra il ministro e il prete tradizionalista c’è un’amicizia che dura da tempo. «Veniva tutte le mattine a messa alla chiesa di Santa Toscana», confida il prelato, «ma ancora non era nessuno, lavorava alla Fiera di Verona». Era il 2005. “Lorenzo”, come lo chiama bonariamente padre Pavesi, scala i vertici del partito. Don Pavesi, arrivato dalla Spagna, nato in Brasile ma da una famiglia lombarda, viene precettato dal Carroccio come guida spirituale. Benedice sedi di partito, organizza cortei insieme a Mario Borghezio, stringe mani e partecipa alla vita politica della città. Nella sua chiesa, oltre a santi e feste comandate, si festeggia anche il 7 ottobre, l’anniversario di Lepanto, la battaglia del 1571 che, secondo i tradizionalisti, salvò l’Europa dall’invasione islamica, preservando così la fede cristiana e evitando l’infezione. Nostalgico, apertamente monarchico e intransigente verso qualsiasi apertura che non rispetti l’antica dottrina della Chiesa. Con lui il ministro per conto di Dio, ogni giorno, si consiglia, si conida, si confessa e parla di politica. In quegli anni il futuro ministro conosce un altro personaggio: Maurizio Ruggiero, fondatore del movimento Sacrum Romanum Imperium, per cui «la democrazia è una grande pagliacciata», dovremmo tornare «a instaurare le antiche monarchie ispirate al principio divino o alle repubbliche patrizie». Ruggiero ha sempre votato Lega e dalla Liga Veneta è sempre stato appoggiato. Insieme a lui Fontana da euro-parlamentare fonda nel 2014 il comitato “Veneto Indipendente” per chiedere l’autonomia della regione e il ritorno dell’antica repubblica di Venezia. Nel programma, tra i punti di rilievo, si legge: «Basta al disfacimento morale e spirituale della società; riafermare i valori della Tradizione e dei nostri Padri, pienamente espressi nella Religione Cattolica tradizionale». Presidente onorario del comitato è Fontana che in quell’occasione chiarisce quale sia il suo ruolo a Bruxelles: «Il mio impegno in Europa è quello di far valere il diritto dei popoli ad essere liberi e poter vivere secondo i valori della propria storia e tradizioni, anche come entità statuali nuove e non di essere omologati ad una pseudocultura individualista e nichilista, che annienta le comunità locali imponendo modelli di vita relativisti, contronatura e immorali». Si costituisce un gruppo composto da veronesi di razza. Con un amico e una guida in comune: padre Pavesi. Mentre Lorenzo inizia la sua scalata dentro il Carroccio e al Parlamento, con l’intento di evitare l’annessione della Turchia all’Europa (il contagio con l’antico Impero Ottomano sarebbe fatale) e ripristinare gli stati antichi (il proilo Facebook del ministro è costellato di bandiere della Serenissima Repubblica di San Marco), a Verona continuano le bizzarre battaglie del prete tradizionalista e Ruggiero. Nell’aprile del 2011, quando il capo del Sacrum Romanum Imperium organizza nella piazza le celebrazioni delle Pasque veronesi, c’è chi irrompe e mette ine alla manifestazione. Don Pavesi non la prende bene: «Si abbatterà un cataclisma sulla città, saprete il perché», maledice. Diventa un problema per la Chiesa e per la stessa Lega. Nel 2009 l’allora sindaco di Verona Flavio Tosi, che pure non è un progressista, decide di bloccare la benedizione della sede del partito di Villafranca, bloccando il parroco che della Lega era diventato un protagonista onnipresente. Nel 2011 Il vescovo Giuseppe Zenti, impaurito dalle sue idee, decide di allontanarlo. Lascia la città senza salutare i fedeli. Ma c’è chi sa benissimo dove si trova, ed è Fontana che ogni giorno si reca alla chiesa dei Pellegrini di Roma per incontrarlo. È stato lui a presentare Matteo Salvini a padre Pavesi ed a far in modo che l’amicizia e le consulenze continuassero negli anni. Non è l’unico. Nella chiesa che fu di San Filippo Neri si intrecciano giochi di potere e personaggi che lavorano per una nuova Europa cattolica. Tra questi il cardinale Raymond Leo Burke che nella parrocchia di culto tridentino celebra messa nelle festività più importanti. Nemico dichiarato di Papa Francesco, astuto e tradizionalista convertito, firmatario dei Dubia, i quesiti teologici che mettono in discussione l’infallibilità del Papa, dipingendolo come eretico per la sua eccessiva modernità. È Burke, il porporato guerriero in aperta polemica con papa Francesco, tanto da fondare un gruppo dal nome i “Guerrieri del Rosario” che hanno il compito di portare avanti la “Operation Storm Heaven”. La battaglia si svolge pregando il rosario il primo giorno di ogni mese, in unione spirituale con il cardinale Burke. L’obiettivo finale, stando alla mailing list quotidiana, è quello di «formare un esercito spirituale di Guerrieri del Rosario per assediare il Cielo con le preghiera». L’intento vero è indottrinare i fedeli, riportandoli alla retta via e ricordare loro i principi fondanti della dottrina cattolica e, quindi, secondo i tradizionalisti, dell’Occidente intero. È Raymond Leo Burke il cardinale di riferimento della Lega, come ammette Fontana: «A papa Francesco, preferisco lui».

l’espresso 23.9.18
Gerarchia, dipendenza, legame..
colloquio con padre Vilmar Pavesi
Padre Vilmar Pavesi, consigliere spirituale del ministro: «Lorenzo ha le mie stesse idee. Altrimenti le nostre strade si dividerebbero»


L’incenso stordisce, i fedeli rimangono in piedi, poi si accasciano sulla panca, attendendo le parole di don Vilmar Pavesi. Nella chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini, la preghiera scorre tra canti e litanie, ma è alla fine della solenne liturgia che Padre Vilmar stringe mani e saluta parrocchiani.
Durante l’omelia padre Pavesi ha allertato i fedeli: «La Santa Chiesa chiede a nostro Signore di liberarci da ogni diabolico contagio. C’è un rischio reale di contrarre un’infezione diabolica. Sappiamo che tra il 1347 e il 1352 la peggiore epidemia di peste, la cosiddetta peste nera, uccise un terzo della popolazione europea. Anche l’Italia venne contagiata. La peste nera è un simbolo di ciò che la ribellione guidata da Lucifero provoca».
Vilmar Pavesi, padre spirituale di Lorenzo Fontana già a Verona, fidatissimo parroco della Lega, in dai tempi del Carroccio secessionista, allontanato dal partito dall’allora sindaco Flavio Tosi ma seguito dagli attuali vertici della Lega ino a Roma. Ora è qui, protetto dalla lunga tonaca nera e da un sorriso che non si spegne neppure quando pronuncia sentenze terribili. Per esempio contro le donne.
«In questa chiesa vengono solo uomini, perché le ragazze e le donne si sono molto adeguate a questo mondo e non vogliono andare controcorrente. E poi ci vuole uno sforzo mentale per seguire una messa in latino. I ragazzi con i libri in mano si trovano più a loro agio».
Padre, lei è la guida spirituale del ministro Lorenzo Fontana?
«Conosco Lorenzo dal 2005, quando non era ancora in politica e lavorava alla fiera di Verona. Veniva tutti i giorni alla messa».
Parlate di politica?
«Certo che parliamo di politica, ma Lorenzo fa parte di un Governo che può non accettare le nostre idee, anche se in questo momento passano».
Lei crede che un ministro debba portare le sue idee nel Governo?
«Noi non siamo schizofrenici. Quando la domenica andiamo in chiesa, apriamo la porta e ci troviamo in strada, non smettiamo di essere cristiani. Non possiamo professare la fede in chiesa e quando andiamo fuori trovare nella società, nel governo, nella scuola e nelle leggi tutto il contrario di quello che ha detto Gesù Cristo. Noi siamo giovani, ma questa casta unione tra l’altare e il trono ha fondato l’Europa, la civiltà, la cultura. È Carlo Magno».
In democrazia ci sono anche gli altri, c’è il pluralismo religioso, etico, politico, non crede?
«C’è stata sempre collaborazione tra l’autorità religiosa e l’autorità civile. In questa democrazia Lorenzo rappresenta una corrente che la pensa come lui. Con lui può avere un suo spazio. Noi siamo a un punto che dire la verità è un reato. Ma lui non ha mai detto nulla di male».
Ma un ministro della Repubblica non dovrebbe rappresentare tutti?
«Lui rappresenta la famiglia, naturale e organica».
Non c’è solo l’idea cattolica della famiglia, ce ne sono altre nella società italiana.
«Ma la famiglia naturale precede la Chiesa. C’è poco da dire: c’è un ragazzo che si innamora di una ragazza, ci sono i figli. Questa è la famiglia».
Lei conosce anche Matteo Salvini? «Certo» (fa segno con la mano che è venuto anche lui in chiesa). È stato lei a regalargli il rosario con cui ha chiuso la campagna elettorale?
 «No... io glielo avrei regalato più bello...» (ride)
Quali sono le sue idee politiche?
«La fede cattolica ha sempre prediletto la monarchia. È sempre stato il governo prediletto dei cattolici. C’era una collaborazione tra altare e chiesa, quello è stato l’inizio della civiltà. Dio ha voluto che la società fosse ispirata secondo un modello familiare: gerarchia, dipendenza, legame». Tornerebbe a uno Stato pre-democratico? Tornerebbe alla divisione pre - Unità d’Italia?
«Sì, al regno delle due Sicilie, alla Serenissima Repubblica di San Marco... L’Italia è sempre stata un mosaico di regni che esistono anche oggi. Sussistono nel dialetto, nella mentalità, nel modo di mangiare. Lorenzo Fontana viene qui dentro ma io non posso portarlo in un angolo e incensarlo, purtroppo, come si faceva con il re...».
Se domani diventasse un dittatore cosa farebbe?
«Dittatore? Non posso essere re?».
Va bene, re.
«Come primo decreto regio abolirei l’aborto, il divorzio, l’eutanasia».
Solo questo?
«Anche i giornalisti».
In uno Stato governato da lei il divorzio sarebbe vietato?
«Sì. La Chiesa ha sempre previsto la separazioni dei coniugi per motivi gravi, senza che questo dia diritto al divorzio, perché poi c’è la possibilità di tornare insieme. Con il divorzio le ragazze sanno che c’è una porta. Poi ci sono giovani che la sera rimangono soli, in giro per strada...».
E l’aborto? Vieterebbe anche questo?
«Se io la ammazzo, vado in galera. Se io faccio un torto a una persona, ho fatto un reato che è passibile di una condanna. Com’è possibile invece che l’uccisione di un bambino sia addirittura incoraggiata dallo Stato e finanziata? Dov’è il futuro? È un crimine. Una società che uccide i propri figli, lo fa per un capriccio. Cosa era un principe? Era un padre di tutti i padri. È ereditario, perché quella era la famiglia e questo dà un grande senso di stabilità. L’aborto va a distruggere l’idea di civiltà. È un capriccio. Non esiste famiglia senza rinuncia».
Sulle coppie gay Papa Francesco nel suo primo viaggio ha dichiarato di non essere nessuno per giudicare l’amore.
«La dottrina cattolica non cambia. I papi cambiano, la dottrina cattolica non può cambiare. Le porte degli inferi non prevarranno. È impossibile che un Papa (papa Francesco, ndr.) possa insegnare qualcosa che non è la dottrina. Morirà prima. Il papa è il sovrano pontefice, può essere giudicato solo da Gesù Cristo».
In realtà il papa Bergoglio non è giudicato solo da Gesù Cristo. Ci sono cardinali, tra cui Burke, che hanno espresso contro di lui i dubia, i dubbi sul suo magistero.
«Giudicare significa hai fatto bene o fatto male. Io da cattolico posso manifestare i miei dubbi. È stato lui stesso a dire: criticatemi».
Ma lei allora cosa pensa delle coppie omosessuali?
«Esiste la mano del maligno. Il maligno esiste. Non ha bisogno di dormire, di mangiare, lavora sempre. Il diavolo è il padre della menzogna, ispira il peccato, la ribellione. C’è il diavolo dietro ogni peccato di superbia, di sensualità, di lussuria. È c’è l’istigazione del diavolo dietro al peccato. Per il catechismo della Chiesa l’omosessualità è un peccato contro natura perché la differenza tra uomo e donna trova il suo fine nei figli, nell’unione matrimoniale e nella procreazione. Non rispettare questa finalità è un peccato. Per questo l’omosessualità è sempre stata definita un peccato contro natura. E se è il diavolo a istigare una ribellione contro Dio, è certo che lui sia l’istigatore di questo tipo di peccato e di tutti gli altri».
Lei accoglierebbe?
«Io credo che a casa mia, prima i miei. Posso anche fare carità, ma la carità ha un ordine. L’Italia e l’Europa non possono accogliere tutti. Ci vuole disciplina, una legge, un ordine, altrimenti è il caos».
Lei crede sia giusto lasciare delle persone a bordo di una nave per puntare i piedi contro Bruxelles? «Perché devono salire su una barca? Quante persone su queste barche arrivano senza una gamba, senza una mano o con una pallottola nel petto, non sembrano che scappino da una guerra. Sono in maggioranza tra i 25 ed i 30 anni, non mi sembrano che scappino da una guerra. Non mi sembra». Lei è antieuropeista?
«Cosa è l’Europa? L’Europa è popoli. Se io posso camminare con le mie gambe perché mi offri la sedia a rotella».
Lei pensa che le idee del ministro Fontana siano uguali alle sue?
«Certo, per questo siamo amici. Se la pensassimo diversamente le nostre strade si dividerebbero». Un’ultima domanda: qui vengono tanti politici importanti, perché?
«Meno male».
Perché meno male?
«Perché hanno bisogno di purificarsi».

l’espresso 23.9.18
Vade retro, diritti
Separazioni più costose. Legge sulle unioni civili svuotata, come per l’aborto. Ecco la strategia gialloverde
di Susanna Turco


Adesso che, per puro caso, Matteo Salvini è diventato a Roma vicino di casa del leader del Popolo della Famiglia Mario Adinolfi, a voltarsi indietro salta fuori che molte cose erano state apparecchiate per tempo. La promessa elettorale c’era - attenzione, anche da parte dei Cinque Stelle. Il contratto di governo pure. I protagonisti erano preparati a scendere in campo, ognuno col suo ruolo: a partire dal senatore Simone Pillon, protagonista di Family day, amico del ministro Lorenzo Fontana, concrezione avvocatesca in cui l’ansia declaratoria di un Domenico Scilipoti si agglutina con la determinazione al cilicio di una Paola Binetti. C’erano le parole, i testi, l’iniziativa parlamentare. Mancava giusto la compagnia di giro - il coro, i figuranti, le prefiche - ma anche quella si sta rapidamente (ri)costituendo, dalle Eugenia Roccella ai Maurizio Gasparri e gli altri 148 sottoscrittori dell’entusiasta intergruppo parlamentare “Vita, Famiglia e Libertà” (c’è pure la Binetti, rieletta e militante in Noi con l’Italia), insieme con un clima che non si respirava così da almeno un decennio. Ed ecco così che con una coerenza assoluta alle premesse torna rinnovata, più agile e insieme più minacciosa, la saldatura tra un pezzo di politica e pezzi di mondo cattolico (il Family day, i teocon) - nel nome della difesa della cosiddetta «famiglia tradizionale». Non sono per forza e solo gli stessi nomi. Nemmeno le istanze sono identiche. Ma l’ambizione è persino più alta: nel 2007 era fermare l’ingresso in Italia di certi istituti, come Dico o Pacs. Adesso si tratta di smontare, riavvolgere il ilo. Il divorzio breve, le unioni civili, il biotestamento. Sopire, disapplicare. «Dobbiamo recuperare il terreno perso negli ultimi anni e spostare il confine un po’ indietro nel tempo, dopo una legislatura orribile», è il programma di Gaetano Quagliariello, il senatore di Forza Italia noto soprattutto per la frase che urlò al Senato nel 2009 («Eluana non è morta, è stata ammazzata»). Anche lui è parte del gruppone Vita e famiglia - dove fa capolino, da fuori, pure Massimo Gandolini, leader del Family Day. Una specie di utopia regressiva. Fin dove si potrà arrivare, in concreto? La legislatura è in realtà appena agli inizi, si è lavorato pochissimo, nessuno ha preso le misure di alleati e avversari. Però è chiaro che per difendere la famiglia tradizionale si può andare a gradi, seguendo come bricioline le parole di Salvini e degli altri del centrodestra. Vale a dire: ribadire che è «composta da uomo e donna», ossia distinguerla dalle coppie omosessuali anche dal punto di vista linguistico, grado uno; grado due, rendere più complicate separazione e divorzio; grado tre, incentivare la natalità - faccenda che va dal mitologico «quoziente familiare», fino «all’aiutare le donne a far nascere bambini» (Pillon), anche «con ingentissimi incentivi economici» (Pillon) per giungere al capolinea inquietante del «se vuole ancora abortire, glielo impediamo» (ancora Pillon, in una intervista alla Stampa); grado quattro, dire no alle adozioni da parte delle coppie gay - facendo leva anche sulla mancanza di una legge che regoli la stepchild adoption.
Via genitore 1 e 2
Ed ecco come, passo passo, il governo della maggioranza gialloverde, nello specifico il suo lato salviniano, conduce la faccenda. Il grado uno, per dire, sta un pezzo avanti: già in estate il ministro dell’Interno ha fatto saltare la dicitura «genitore 1» e «genitore 2» sulle carte di identità; ora sono semplicemente indicati come genitori, la volontà chiara è tornare a «padre» e «madre» rimettendo in un angolo le famiglie arcobaleno (cosa per cui la sinistra ha già dato, inutilmente, del «troglodita» al vicepremier leghista che se ne bea). Dietro la porta c’è la questione dei figli di coppie omosessuali, lasciata pilatescamente in mano ai giudici, e a varie altre discrezionalità, dalla legge Cirinnà. Sullo sfondo c’è un clima che si va facendo diverso: grandi preparativi perché a marzo toccherà proprio all’Italia, precisamente a Verona, la città di Fontana, ospitare il Congresso Mondiale della famiglia - Salvini e il ministro hanno già confermato la loro partecipazione; mentre in questi giorni, in Umbria, il protocollo di lotta all’omofobia si è arenato in Prefettura e la Garante regionale per l’infanzia che ne ha sollecitato lo sblocco, è bersagliata dalla richiesta (leghista) di dimettersi. Ma il paradigma perfetto a raccontare l’epoca sul fronte dei diritti è nella proposta di legge che vuol cambiare le norme sull’affido, firmata da Pillon, che ha appena mosso il primo passo in commissione Giustizia a Palazzo Madama (un passo piccolo: è stato deciso che si farà un ciclo di audizioni di esperti. Ma nello stesso tempo un passo grande: ha cominciato il lungo iter per diventare legge). Il testo che, in un sol colpo, si propone di capovolgere alcuni capisaldi di separazione e divorzio in coppie con minori, sostituendo le storture esistenti con altre peggiori: via l’assegno per il mantenimento del figlio, largo alla «bigenitorialità» perfetta fatta almeno 12 giorni al mese con un genitore, obbligo della mediazione familiare per decidere tutto (Pillon è mediatore familiare e ha uno studio che si occupa di mediazione familiare, come ha scritto online L’Espresso provocando le proteste del senatore che ritiene non trovarsi in conflitto di interessi). La proposta sembra nata come un fungo, perché di temi etici e diritti, al momento di stendere il contratto di governo, Lega e Cinque Stelle non vollero discutere. E invece ha origini ben precise.
Proposte M5S e ddl Cirinnà
Nel contratto di governo intanto, dove nella sottovalutazione generale già si enunciavano nero su bianco quelli che poi sarebbero divenuti i principi cardine del ddl Pillon («rivisitazione dell’istituto dell’affidamento condiviso», «tempi paritari tra genitori», «mantenimento in forma diretta», «norme volte al contrasto della alienazione parentale»). Ma, ancor prima, nei rispettivi programmi elettorali. In quello della Lega, certamente. Ma, cosa meno nota, anche in quello dei Cinque Stelle. Il che da solo dovrebbe dare una risposta a quanti confidino nella voglia della classe politica grillina di sfilarsi da una iniziativa del genere - magari dimenticando che, ai tempi del ddl Cirinnà, all’ultimo momento M5S si sfilò proprio per scelta di Di Maio, che oggi governa con Salvini. C’è scritto infatti chiaro e tondo, nel programma elettorale presentato da M5S. Nella sezione dedicata alla giustizia, un punto recita chiaro che serve un «aggiornamento dell’istituto dell’affido condiviso e potenziamento della bigenitorialità», specifica che il «mantenimento deve essere disposto in forma diretta» (cioè niente assegno di un genitore all’altro), mentre qualche pagina dopo si mette un paletto sull’obbligo della mediazione: «Per le questioni in cui sono coinvolti figli minorenni, si ritiene sia necessaria l’obbligatorietà della mediazione civile». Tutto ciò sta nella seconda versione del programma. Cioè non quella estesa e votata in tandem con la rete degli attivisti (dove il punto manca del tutto), bensì quella finale - diversa dalla prima, come a suo tempo scoprì il Foglio. Bene. Oggi, quelle parole, impegnano i parlamentari M5S persino a monte del programma di governo. Cambiale ai padri separati
Una maggioranza dunque c’è. E la volontà politica? Per quella, è sufficiente ripercorrere a ritroso le mosse di Salvini. Prima delle serate settembrine in cui si fa i selfie sul terrazzo del superattico che gli tocca come ministro dell’Interno a due passi da via del Plebiscito, Salvini ha messo in lista, per la prima volta nella storia della Lega, personaggi vicini al Family Day, come appunto Pillon, che proviene dal Forum delle associazioni familiari, ma anche il giurista Giancarlo Cerelli, dell’Unione Giuristi cattolici. Quando non era ancora vicepremier, si batteva a Milano per la causa dei padri separati. Gioiva per l’approvazione, nella Lombardia guidata da Maroni, della legge che dava un tot al mese a chi di loro avesse figli a carico. E spiegava: «Conosco l’Associazione dei padri separati e so bene che ci sono casi disperati. La norma sull’affido condiviso non è applicata e la giustizia italiana 9 volte su 10 avvantaggia le donne. Noi in Lombardia abbiamo fatto passi avanti, ma dovrebbe darsi una mossa il Parlamento». Di esponenti delle varie associazioni, già nel 2013, ne fece candidare quattro solo in Lombardia. E su Youtube si ritrovano interviste ancora più antiche a personaggi come Domenico Fumagalli, Associazione padri separati Lombardia, a personaggi come un Antonio Borromeo che aveva fatto a piedi duemila chilometri per perorare la causa. Parlava della Festa della paternità di Brugherio, Salvini, e prometteva già allora: «Ci batteremo per un nuovo condiviso e per un vero alternato, un vera mediazione familiare». In pratica, dice l’ex parlamentare e oggi responsabile diritti Pd Sergio Lo Giudice: «siamo alla congiunzione luciferina di due istanze: una è quella di Pillon e della sua ideologia, nella quale fa chiaramente capire il suo obiettivo, cioè rendere più difficile la separazione e magari evitarla del tutto. L’altra è la cambiale della Lega al Movimento dei padri separati, che in Italia è una lobby significativa e ha da anni in Salvini un punto di riferimento».
Figli al centro, ma è falso
Per paradosso, la parola d’ordine con cui si illustra il ddl Pillon, così come tutti gli altri eventuali step di difesa della famiglia tradizionale è sempre: mettiamo al centro il bambino. Ma questo, come spiega all’Espresso l’avvocata Manuela Ulivi, che da decenni si occupa di questi temi, è un falso. Insieme con l’argomento che si diminuisca la conflittualità. «È, al contrario, un progetto di legge che va contro i figli, perché li mette al centro del contrasto tra i genitori, di un conflitto allucinante, nella pretesa astratta che si possa dividere a metà». Falso pure che diminuisca la conflittualità: «Quel contrasto viene fomentato, si pretende di far trovare a una coppia che si separa un accordo minuto, dettagliato, proprio sui punti che di solito l’hanno fatta esplodere: la gestione dei figli, i soldi. Di solito giudici e avvocati mediano, semplificano: qui al contrario si crea un percorso a ostacoli che sembra non finire mai. Che parte con una mediazione, obbligatoria, a pagamento, che ha profili di incostituzionalità. E si arriva fino alla previsione per cui, se un bambino parla male di un genitore, viene spedito in comunità. Con questa premessa la conflittualità è destinata ad aumentare, sulla pelle dei bambini: altro che risparmi, avremo il doppio delle cause». Parola magica: disapplicare Ma appunto, nominalmente è al centro il bambino. Come lo è nelle parole che utilizza Pillon per spiegare la sua posizione sull’aborto: «Una donna la libertà di scelta ce l’ha prima di concepire una vita. Dopo c’è il diritto di un innocente a venire al mondo», ha detto di recente. Il bambino è anche l’argomento di Salvini per spiegare il suo no «finché campo» alle adozioni gay: «Le discriminazioni sono una roba folle, se vado dal medico non so se è etero o gay, con chi vive, e non mi interessa. Ma un bambino viene al mondo, o viene adottato, se ci sono una mamma e un papà». Ecco, è seguendo questo ragionamento che il leader leghista, all’epoca dell’approvazione delle unioni civili con il governo Renzi, disse citando don Milani: «Se una legge è sbagliata, si può disapplicare», invitando i sindaci a «disobbedire», a non rispettarla. Ad esempio non trascrivendo. Ecco, adesso che la Procura di Roma ha fatto ricorso contro le trascrizioni dei bambini nati all’estero con la maternità surrogata, si intuisce fino a che punto il clima possa ancora cambiare. Perché Salvini ha già chiarito il giorno del giuramento di avere «nessuna intenzione di rivedere leggi del passato, come l’aborto e le unioni civili». Ma le leggi non c’è bisogno di rivederle, a volte basta «non applicarle». L’ha detto il ministro dell’Interno.


l’espresso 23.9.18
Non basta dire che si deve accoglierli
di Renzo Guolo
Per troppi anni la sinistra è rimasta afona sulla scelta di modelli per integrare i migranti. E in questo silenzio è cresciuta la xenofobia


Come è maturata la sconfitta della sinistra sull’immigrazione? Determinante è stata la sottovalutazione del bisogno di sicurezza ma non si tratta solo di questo. Conta anche il formarsi di un immaginario collettivo intriso di sfiducia riguardo all’integrazione culturale degli immigrati. O almeno, di quelli appartenenti a gruppi ritenuti, a causa di taluni marcatori etnici e religiosi, più “lontani” dagli italiani. Un senso comune alimentato non solo da episodi di cronaca o da interessate narrazioni di attivi imprenditori politici della xenofobia, ma anche da microconflitti che coinvolgono autoctoni e immigrati nella vita quotidiana. Quello sull’uso degli spazi collettivi, ad esempio, dove si confrontano comportamenti e stili di vita ritenuti incompatibili. Aspetto più o meno occultato a sinistra, perché presuppone l’inconfessabile: la possibilità che tra gli italiani possa prendere forma una deriva di stampo xenofobo o razzista. La sinistra ha illuministicamente pensato che il tempo avrebbe comunque appianato gli eccessi. Ottimismo della volontà che, poco gramscianamente, metteva da parte la necessaria dose di pessimismo della ragione. Tanto da rimuovere l’idea che le culture possano essere, senza politiche e pedagogie pubbliche che aiutino a scongiurare quell’esito, motore di conflitti e non solo di convivenza. Eppure bastava guardare a quanto avveniva nel Nordest, granaio elettorale della Lega. Il capitalismo molecolare nordestino, policentrico per natura, ha popolato di immigrati non solo i centri urbani ma anche i piccoli paesi e le frazioni di campagne di quell’area. Se quella disseminazione territoriale ha scongiurato la nascita di grandi spazi di segregazione urbana e sociale, incubatori di conflitti potenzialmente acuti, non di meno ha reso palese ai più che la globalizzazione non faceva circolare solo capitali, merci e forza-lavoro, ma anche persone con le proprie identità culturali. Una constatazione che ha generato spaesamento e senso di spossessamento. Sino a dilatare, tra gli autoctoni, i fantasmi della perdita della propria cultura.
Una visione acritica della globalizzazione
Di fronte a simili reazioni, spesso abnormi, sarebbe servito un discorso chiaro sulle difficoltà - oggettive ma non insormontabili - di ogni processo d’integrazione. Senza il timore di inseguire i competitori politici su un terreno ritenuto di destra. La sinistra, invece, non ha proferito verbo. Costretta al silenzio dal peso delle sue stesse culture di riferimento, quella di ispirazione marxista e quella cattolica progressista. La prima, in una sorta di “complesso di Kurtz”, il conradiano protagonista di “Cuore di tenebra”, vede nei migranti i figli dello sfruttamento coloniale e neocoloniale da risarcire per riparare agli orrori e agli errori dell’Occidente. La seconda guarda ai migranti come ai poveri e ai fratelli in Cristo. Richiami ideali che però non riescono a placare i timori di quella parte di società sempre più desiderosa di protezione che chiede efficaci pratiche di governo del fenomeno “qui e ora” . Uno sguardo, quello della sinistra, gravato dalla ricerca di un effetto “compensativo”. Alle prese dopo il 1989 con un serio problema d’identità, ha surrogato la subalternità all’ideologia liberista e a una visione acritica della globalizzazione, mediante un meccanismo sostitutivo:  la sua vocazione universalista e
umanista troverà nei diritti umani, in particolare quelli dei nuovi dannati della terra, un nuovo terreno di richiamo. Limitandosi per il resto a proporsi di gestire le conseguenze prodotte dall’incessante lavorio della talpa del capitale globale nelle viscere della società. Dando così l’impressione di occuparsi solo degli ultimi di “fuori”. Il successo dello slogan “prima gli italiani”, che ne fa un bersaglio senza che possa nemmeno poter mobilitare elettoralmente quelli per cui si batte (privi del diritto di voto), non è comprensibile senza questo fermo immagine.
La sindrome di Lord Chandos
Per i suoi valori la sinistra è, naturalmente, portata all’accoglienza. Ma “che fare” di poveri ed ex-colonizzati una volta in Italia? Come governare non solo il presente ma anche il futuro, oltretutto in un contesto destrutturato dalla crisi del welfare e dall’aumento delle diseguaglianze? Paradossalmente ma non troppo, nonostante le ispirazioni solidaristiche, la sinistra è incappata, sul punto, nella sindrome di Lord Chandos: la parola ha lasciato il posto al silenzio che introietta la consapevolezza che dire diviene impossibile. Perché significherebbe mettere in discussione molto, se non tutto. Un silenzio che la condurrà a una passiva adesione a un “liberismo sociale” che affida i processi d’integrazione culturale all’evolversi delle dinamiche societarie. Rinunciando a governare le contraddizioni che nel frattempo esploderanno “in seno al popolo”. Certo, le culture mutano interagendo tra loro, ma cicli politici e cicli culturali hanno tempi diversi. I primi hanno come orizzonte il breve periodo, i secondi il lungo. Tanto più in un paese monoculturale come l’Italia, storicamente alieno dal misurarsi con la differenza. L’evitare di affrontare la questione dell’integrazione culturale favorirà sia le chiusure xenofobe sia quelle etnocomunitarie di taluni gruppi di migranti.
Riconoscere le differenze
La via della rinuncia ha avuto un momento topico tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del nuovo secolo, quando - senza un vero confronto tra politica e saperi - verrà scartata l’ipotesi di adottare un qualsiasi modello d’integrazione culturale destinato, come in altri paesi europei, a definire regole del gioco e forme e limiti del riconoscimento delle differenze. Prevarrà la tesi sull’inutile rigidità dei modelli nelle loro varie versioni: assimilazionisti, multiculturalisti o pluralisti. Preferendo procedere attraverso misure legislative su singoli temi: scuola, politiche urbane, libertà religiosa. Le dinamiche dell’alternanza politica vanificheranno la scelta del passo dopo passo, svuotando quei provvedimenti a ogni cambio di maggioranza. Finirà così tra parentesi anche il discorso pubblico che sorregge ogni modello: quello che esplicita a cittadini e residenti strumenti e finalità dell’integrazione culturale. Nel panorama italiano, dunque, non vi sarà traccia di una discussione simile a quella francese, britannica o tedesca che, negli ultimi decenni, ha cercato di rispondere all’interrogativo sul come sia possibile far convivere culture diverse all’interno del medesimo spazio sociale. Un vuoto che farà diventare egemone un “assimilazionismo senza assimilazione”, fondato sull’idea che gli stranieri devono accettare regole e valori della società italiana e che la politica non deve fare nulla che incoraggi il riconoscimento della differenza, ritenuta disgregante. Un tipo di considerazione diffusa, oggi, in tutta Europa. Come dimostra il recente risultato elettorale svedese: l’avanzata dei partiti xenofobi è determinata anche dalla protesta di cittadini che stigmatizzano gli stranieri non solo perché concorrenti sul terreno del welfare ma perché ne usufruiscono senza condividere quella partecipazione civica ritenuta costitutiva del patto di cittadinanza. Fatto che, nella culla della socialdemocrazia scandinava, appare inaccettabile anche a elettori prima orientati a sinistra. Uno smottamento che investe ovunque settori di opinione pubblica liberale e progressista che convergono sulle posizioni della destra xenofoba in nome di valori che sentono minacciati da identità altrui ritenute regressive. Come quei pezzi di movimento femminista o Lgbt che imputano a taluni gruppi di immigrati chiusure sessiste. Insomma, il discorso della sinistra  sull’immigrazione deve tenere conto non solo della sicurezza ma anche dei crescenti timori per la coesione culturale. La sfida si gioca su questo duplice piano.

l’espresso 23.9.18
Cultura Thomas Mann un secolo dopo
Il fuoco delle idee. Peggiori
Uno scrittore sulle tracce di “Considerazioni di un impolitico” del grande autore tedesco. E delle sue parole: identitarismo, nazionalismo, sovranismo. Che oggi infiammano l’Europa
di Paolo Di Paolo


Ho suonato a un campanello, civico 4 della Mengstrasse, Lubecca, Germania. Nessuno mi ha aperto: avrebbe dovuto farlo il ginnasiale solitario che disprezza la scuola e già ascolta Wagner.

Ho aspettato, nel quartiere di Schwabing, a Monaco, che da un caffè affollato di universitari sbucasse anche lui, nella luce arancio del tramonto, con la borsa in cui sono stipati i libri di studio, i taccuini con gli abbozzi dei primi racconti, il copione teatrale dell’Anatra selvatica di Ibsen (lui interpreterà il ruolo di Gregor, lo pseudoidealista). A Roma ho cercato il civico 34 in via di Torre Argentina, ho alzato gli occhi verso il terzo piano, sperando di vederlo - ventiduenne - affacciarsi alla finestra, staccandosi per qualche minuto dal romanzo a cui lavora e che ha deciso di intitolare “I Buddenbrook”. L’ho cercato di nuovo per le strade di Monaco, in un pomeriggio di primavera che pareva proprio quello descritto nelle pagine di un suo racconto: «Monaco splendeva», scrive. Luccicava. «Sopra alle piazze festose e ai bianchi colonnati dei templi, sui monumenti neoclassici e sulle chiese barocche, sulle fontane zampillanti, sui palazzi e sui gradini della Residenza si stendeva radioso un cielo di seta turchina». Cielo insolitamente azzurro, in effetti. Su un treno per Dresda avrei potuto ritrovarlo compagno di scompartimento, ma non era un diretto notturno, e forse questo è stato l’errore. Alla grande casa bianca di Poschingerstrasse 1 mi sono avvicinato guardingo, intimidito: è la maestosa arca familiare in cui nasce “La montagna incantata”; oggi quartiere residenziale upper class, biciclette, Suv, jogging, e il rumore della città lontano. L’ho cercato ancora a Zurigo - un pomeriggio d’inverno, verso le tre, molto freddo, una folla di gabbiani invadeva una sponda urbana della Limmat. Un ometto cupo e vagamente inquietante mi ha accolto nelle stanze dell’Archivio - ed è là, fra i libri, le carte, le teche, quel senso di vita raggelata, proprio davanti al calco della sua testa, che sono stato raggiunto da una domanda feroce. Questa: come nascono le nostre idee peggiori? Da quale “io” vengono fuori? Il ginnasiale di Lubecca e il vecchio riparato a Zurigo - prima per mettersi al sicuro, poi per morire - sono innocenti, rispetto al quarantenne che cent’anni fa esatti, fra la primavera e l’estate del 1918, concludeva il suo saggio “mostruoso”, il suo libro più inquietante? Appassionato agli scrittori, agli artisti, alle loro vite, quasi a ogni viaggio trovo occasione per infilarmi in qualche casa-museo, per fotografare targhe, ricostruire itinerari. Feticismo? Bah. Mi guida, piuttosto, il sentimento esasperato di quello strano impasto di tutto che è la vita - avere un corpo che cresce, che invecchia, avere preoccupazioni, desideri, e una scrivania che trasloca con te, scrivere libri, fumare, mangiare, dormire. Pensare. Partorire idee. Come funziona? Geniali, scialbe, decisive, superflue, crudeli, penose. Tempeste neuronali che si scatenano senza preavviso. Talvolta lasciano tracce, talvolta si disperdono. Talvolta diventano libri. Se in questi mesi ho così ossessivamente inseguito i diversi inquilini che rispondono, decennio dopo decennio, casa per casa, al nome Thomas Mann, è stato anche per fare i conti con il saggio mostruoso. Le cinquecento pagine di “Considerazioni di un impolitico” arrivarono in libreria all’inizio dell’autunno del 1918. In Italia furono tradotte per la prima volta soltanto mezzo se
colo fa. Hanno l’aria, a leggerle oggi, di un lunghissimo, interminabile, per tratti anche insopportabile, sproloquio. Un monologo-fiume, contorto, esagitato che, sul finire della Grande Guerra, dà a Mann la possibilità di chiarire, senza che riesca a farlo fino in fondo, la posizione ideologica nei confronti del proprio Paese. Ha già scritto la grande saga familiare dei “Buddenbrook”. Ha già scritto quel malinconico e sensuale autoritratto dell’artista da giovane che è “Tonio Kröger”; ha scritto la piccola, estenuata, torbida, bellissima dichiarazione d’amore che è “Morte a Venezia”. Sta lavorando alla “Montagna incantata” e si interrompe, come preso da un demone. Parla di diritto al dominio, di militarismo come eroismo. Di auto-affermazione in senso nazionale di un popolo - il popolo tedesco - il cui carattere «è il congegno morale più esatto che sia mai esistito», un popolo «fatto per dominare, sagomato, duro, pregno del proprio io». Scrive cose così. Cose come: «Via dunque lo slogan “democratico”, straniero e ripugnante!». Scrive decine di migliaia di parole, fa lo slalom fra centinaia di citazioni, impugna Dostoevskij, sida Tolstoj, chiama in causa la trinità Wagner-Nietzsche-Schopenhauer, discute Goethe, prende a spintoni il suo contemporaneo pacifista Romain Rolland. Se ne esce con espressioni come «germanesimo superiore», evoca (o invoca) «la volontà della Germania di imporsi al mondo». Sostiene che la Francia è femmina la Germania è maschio. Mette in discussione i princìpi della democrazia e il suffragio universale indiscriminato. Aiuto! «Ascoltando», scrive ancora, «il suono di questa singolarmente organica, spontanea e poetica congiunzione di parole, “popolo tedesco”, vien fatto di sentire e immaginare qualcosa che è del tutto diverso, e non solo sul piano nazionale, qualcosa di più buono, di più alto e di più puro, di più sacro insomma, di quando si ascoltano le espressioni “popolo inglese” o “popolo francese”. “Popolo”, “Volk”, è veramente un suono sacrosanto; ma non è forse solo quando è accompagnato alla parola “tedesco” che serba ancora vivo il valore?». Nell’ottobre del ’17 ferma su carta l’entusiasmo per il fatto che «Gorizia è tornata in nostre mani»: «Che balsamo, le notizie di questi giorni! Che senso di liberazione, di riscatto, di conforto produce la “forza”, l’azione limpida e maestosa delle armi». Trovo impressionante, affascinante - ed è un fascino ambiguo e macabro - contemplare lo sviluppo di questo ragionare storto, una somma di pensieri che la Storia pervertirà, applicandone la parte più marcia, pericolosa, sanguinosa. A Mann stesso toccherà ammettere - senza mai rinnegare del tutto le sue Considerazioni - di essere stato “scippato” dai nazisti nell’idea romantica del “Terzo Regno”. Quegli stessi nazisti che lo costringeranno a vagare fuori dalla Germania per decenni (lascia la patria nel ’33, non rientrerà più). Le sue posizioni, di lì a poco, si stempereranno in un perplesso ma democratico europeismo. Le critiche al nazismo, da molti giudicate comunque tardive, diventeranno esplicite nel 1936. Ma diciotto anni prima, Mann non calcola i rischi, non vede nubi all’orizzonte, o non vede quelle effettive, grida a pieni polmoni le sue considerazioni - impolitiche, come le chiama lui, sommamente reazionarie, per certi versi tossiche. Non è bastato suonare a quei campanelli per capire qualcosa in più, per spiegarmi come gli umani sviluppano un pensiero, un sentimento, una visione del mondo. Come la nutrono, la allevano, la tengono viva anche contro se stessi, o contro l’evidenza. Come si lasciano avvolgere, anche ottundere, dalle certezze che credono di avere conquistato. Volevo - forse ingenuamente - sorprendere l’istante in cui dal ginnasiale wagneriano diventato universitario e poeta, diventato autore di un grande romanzo sul declino del secolo decimonono e della borghesia mitteleuropea, da quell’essere umano rispondente al nome Thomas Mann, spiccò a metà della sua vita la scintilla di un’intuizione tutto fuorché innocente, e il desiderio, la smania di alimentarla sino a farne un fuoco. È passato un secolo esatto. Il dibattito internazionale si scalda intorno a parole come identitarismo, sovranismo, nazionalismo. Non le avevamo archiviate? No. Passato il peggiore degli incendi, c’è già al lavoro il piromane di domani.


Impolitico è l’uomo senza più utopie
di Roberto Esposito


Cosa vuol dire “impolitico”? Qual è il significato di questo termine - al di là di quello datogli da Thomas Mann nelle sue “Considerazioni”? Per rispondere a questa domanda bisogna prima di tutto distinguerlo dai due concetti cui viene erroneamente assimilato - l’antipolitico e l’apolitico. Quanto all’antipolitica è lo stesso Mann a situarla nell’orizzonte politico che essa vuole contrastare: «L’antipolitica è anch’essa una politica, giacché la politica è una forza terribile; basta solo sapere che esiste e già ci si è dentro, si è perduta per sempre la propria innocenza». Nel momento stesso in cui si oppone alla politica, facendone il proprio bersaglio, l’antipolitica parla il suo stesso linguaggio, non è che una forma mascherata di politica. L’elezione di Trump ne costituisce un esempio perfetto. Ma anche in Italia ne abbiamo avuto esperienza diretta Il caso più eclatante è quello dei 5 Stelle. Che hanno costruito il proprio successo politico indossando in da subito le vesti dell’antipolitica. Ciò vale, in generale, per tutti i populismi, arrivati al potere contestando ogni politica - tranne naturalmente la propria. Ma l’impolitico è diverso anche dall’atteggiamento apolitico. Perché anche questo, pur astenendosi dalla partecipazione alla cosa pubblica, ha sempre un effetto politico. Come accade per l’astensione. Chi si astiene - e sono sempre più a farlo nelle democrazie occidentali - rafforza politicamente una parte di coloro che intendono delegittimare. Come è noto, in America non vota più del 50 per cento degli aventi diritto - ma ciò gioca oggettivamente a favore di uno dei due candidati alla Presidenza. Nei paesi come la Francia, in cui è previsto il ballottaggio, si va al potere con una percentuale ancora minore. In questo senso l’esercito degli astensionisti - che non considerano degno nessun partito del proprio voto - costituisce di fatto un vero partito. Spesso il maggiore sul piano numerico. In questo senso dichiararsi apolitici perde di significato, perché comunque, anche se la si rifiuta, si sta all’interno della dialettica politica. Se l’antipolitica è una forma di politica attiva, speculare alla politica avversata, l’apolitica è una politica passiva, ma non meno rilevante sul piano delle conseguenze nella formazione dei governi e dunque nella distribuzione del potere. Ben diverso il punto di vista dell’impolitico, come si è andato configurando nell’opera di alcuni autori “eretici” del Novecento. Nessuno di loro intende contrapporre alla politica un valore etico o estetico, come aveva invece fatto Mann. E come pretendono di fare gli antipolitici e gli apolitici ogni volta che attaccano la politica. Al contrario gli impolitici ritengono che la politica - il conflitto di interesse e di potere - riempia l’intera realtà. In questo senso il punto di vista dell’impolitico coincide con il realismo politico, con cui condivide la consapevolezza che “la politica è il destino”. Non solo, ma un destino segnato dalla presenza inevitabile del male. Che si può contenere, limitare, ma con cui è necessario convivere. «Anche i primi cristiani», scrive Max Weber in “Politik als Beruf”, «sapevano perfettamente che il mondo è governato da demoni e che chi s’immischia nella politica, ossia si serve della potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche». Ciò non vuol dire che si debba idolatrarle, rivestirle di un valore che non hanno. Tra politica e valore vi è un solco incolmabile Il Bene non è traducibile in politica, come la Giustizia non può mai incarnarsi perfettamente nel diritto. Solo l’ignoranza diffusissima del significato sia della Giustizia che del diritto può indurre a sovrapporli. Il compito dell’impolitico è custodire il senso tragico di questa distinzione. Assumere la realtà per quella che è non vuol dire inchinarsi a essa. Al contrario solo la consapevolezza della sua ineluttabilità, può delineare, ai suoi margini esterni, il profilo di un’altra dimensione non sua prigioniera: «Su questa terra», afferma Simone Weil, «non c’è altra forza che la forza. Questo potrebbe essere un assioma. In quanto alla forza che non è di questa terra, il contatto con essa si paga solo al transito di qualcosa che assomiglia alla morte». Questo qualcosa è appunto la Giustizia, la cui realizzazione è sbandierata ai quattro venti dai professionisti dell’antipolitica. Al contrario l’impolitico è lontano da ogni utopia. Ma anche dal cinismo di chi contrabbanda il proprio interesse per il bene generale. Egli, dalla sua posizione defilata, testimonia la contraddizione drammatica tra l’aspirazione al Bene e l’impossibilità di realizzarlo politicamente. Mai, come ben sapeva Weber, l’etica della convinzione - che si attiene ai puri principi - e l’etica della responsabilità, che tiene conto delle conseguenze dell’azione, possono coincidere. Anche se chi è “chiamato” alla politica deve cercare di accostarle quanto è possibile. A questa eterna tensione tra finito e infinito è destinato l’impolitico. Ma cosa importa di tutto ciò Simone Weil e Max Weber ai nostri politici?



l’espresso 23.9.18
Cultura Mondo arabo A Beirut l’arte è donna
di Alessandra Mammì
Grandi mostre. Ricche collezioni. E giovani curatrici. La formula della città. Per rinascere dalla guerra


Una cosa abbiamo in comune, noi libanesi e voi italiani: il rapporto con il passato. Ma il vostro è uno sguardo lontano e contemplativo, il nostro punta su un passato molto più vicino e tormentato». È Zeina Arida che parla. Giovane e brillante direttrice del Sursock Museum: il luogo dove Beirut raccoglie e celebra l’arte del suo presente e del passato recente. Parla Zeina, riferendosi alla mostra che a pochi passi dal Sursock ha presentato opere dalle collezioni del MaXXI, partite da Roma e arrivate a Beirut per approdare in un luogo speciale abitato da una straordinaria collezione di mosaici romani. Si chiama Villa Audi, fu costruita da architetti italiani nei primi anni Venti dello scorso secolo, come abitazione di un ricco banchiere e mecenate. Ora è proprietà della banca e museo di charme, aperto al pubblico. Un esempio delle molte case con giardino che punteggiavano questa zona di Beirut prima che la lunga guerra civile (1975 -1990) e i successivi conflitti con Israele distruggessero una delle più belle città del Medio Oriente. Dalle ceneri sta risorgendo una nuova metropoli, affollata di cantieri, palazzoni, speculazioni che ingoiano gli spazi comuni, rendono sottili i marciapiedi, mangiano le strade, fanno impazzire il traffico e vibrar di rumori la città tutta. Ma non nelle placide sale di Villa Audi dove grazie alle fatiche del nostro Istituto di Cultura e del suo direttore Edoardo Crisafulli sono approdate opere che sotto la curatela di Bartolomeo Pietromarchi, appaiono perfette nel gestire in solitario e complice colloquio la calma eterna degli antichi mosaici: Enzo Cucchi, Remo Salvadori, Flavio Favelli, Bruna Esposito, Pietro Rufo, Luigi Ontani, De Dominicis, il giovane Salvatore Arancio, l’enigmatica Liliana Moro. Ed è lì che la direttrice del Sursock si apre a queste considerazioni sull’arte nostra e loro. Le riprenderà il giorno dopo, quando la incontriamo nelle sale del suo museo, di fronte a uno stupendo trittico di Laure Ghorayeb artista, giornalista, poeta nonché autrice di un intricato reticolo di segni e disegni che fondono calligrafia araba, fumetto occidentale, foto d’archivio, frammenti di giornale, pezzetti di carta trovati. «È la sua vita», ci dice parlando di questa intellettuale eclettica e generosa madre di Mazen Kerbaj, artista e fumettista altrettanto amato e come lei militante e impegnato ma anche madre di un ritratto del Libano, un modo visivo di raccontare, di conservare una memoria, di trattenere i ricordi privati insieme alla cronaca e alla storia. Laure non è l’unica. Questo bisogno di conservare quel che la guerra civile ha distrutto è un sentimento comune a molti artisti, e ha segnato la mia generazione che nel conflitto è cresciuta». Parole di Zeina, curatrice di formazione internazionale, nata a Beirut nel 1970 che ha affrontato il trauma anche professionalmente quando di ritorno da Parigi con laurea alla Sorbona, fonda dirige l’Arab Image Foundation: istituzione no proit nata nel 1997 per raccogliere fotografie e archivi sul Libano e su tutto il mondo arabo e la sua diaspora. Oggi la sede dell’Arab Image Foundation è al quarto piano di un anonimo condominio dal portone metallico a due passi da Gemmayzeh, strada e quartiere della Beirut giovane e intellettuale, piena di localini, gallerie, movida notturna. L’attuale direttore, Marc Mouarkech, racconta come l’archivio abbia ormai raggiunto i 600 mila pezzi dalla metà dell’ Ottocento ad oggi, come tutto questo sia on line in un data base accessibile ad artisti, registi, filmaker, mentre molte sono le collaborazioni con musei e gallerie di tutto il mondo (arabo soprattutto). Del resto basta visitare il sito (www.fai.org.lb/ home.aspx ) per rendersi conto della ricchezza di attività e di proposte di questa memoria pulsante e produttiva. È da lì che arrivano libri d’artista raffinatissimi come quelli di Akrmaam Zaatari e altri che partirono da questo collettivo coraggioso per raggiungere poi biennali, musei e fama internazionale. Primo fra tutti Walid Raad con il suo “Atlas Group Archive”, un progetto di archivio immaginario che ha conquistato il Moma e il Guggenheim e che mescola come nelle “chansons de geste” il vero e l’immaginato, il materiale di recupero e le storie narrate, il documentaristico e l’artistico. È la ricerca del tempo perduto di un’intera nazione che affida all’arte e alle sue menti più creative il compito di esorcizzare un incubo. «In una città distrutta il problema per i cittadini è la perdita degli oggetti e dei punti di riferimento», scrive Moroun el Daccache, architetto e storico nel bel catalogo “Home Beirut” pubblicato dal MaXXI in occasione della mostra dedicata alla capitale libanese. «Ma ricostruire l’esatta immagine della città prima della guerra significa cancellare un episodio di storia perché anche la distruzione può diventare un momento di riflessione e autocritica». È in questo spazio di domanda che s’inserisce il lavoro degli artisti e la continua sperimentazione di nuovi metodi. Molti affidati al video, ai film, al documento fotografico, ma anche al segno, al disegno alla scrittura. Negli immensi spazi ex industriali della galleria SfeirSemler, ad esempio, è in scena la mostra di Rayyaane Tabet. Anche il giovane Tabet punta a una ricostruzione della memoria personale intrecciata alla storia del suo paese. Ma la messa in scena è qui potente, spettacolare, eclettica e monumentale. Il passaggio di scala dai trucioli di giornale di Laure Ghorayeb alle grandi dimensioni dei ready made, sculture e installazioni di Tabet si riflette anche nella crescita e ristrutturazione dei nuovi spazi della città. A cominciare dal Sursock Museum che ha riaperto tre anni fa ampliato, rinnovato e provvisto di immenso auditorium, sala di lettura, biblioteca e servizi al pubblico, mentre è già annunciato il trasferimento in nuova e più ampia sede di un’altra fondamentale istituzione: il Beirut Art Center diretto da Marie Muracciole. Sotto la direzione di Marie il Bac è diventato il punto di confluenza di diverse discipline. Musica, danza, cinema, arti visive si alternano a incontri, dibattiti, conferenze dove sono ospitati sia giovani talenti locali che celebrati artisti internazionali: «Capisco quanto sia necessario elaborare il proprio lutto», ci dice: «Il nostro è un pubblico molto giovane che va dai 16 ai 30 anni e sono loro il futuro del Libano. Fare formazione è missione prioritaria». Quale sarà dunque lo scenario che si apre per gli artisti millennial, in un paese che lotta tra speculazione e ricostruzione e in una città che vede crescere gallerie oltre i mille metri quadri, musei privati, fiere e collezioni international style? Una per tutte: la Ashti Foundation. Ediicio tutto tegole di ceramica porpora intrecciate come un ricamo a bordo mare. Gloria di David Adjaye il famoso e visionario architetto anglo ghanese. È il polo del lusso beiruttino dove spa e ristoranti stellati si alternano a Balenciaga e Burberry’s. E dove, tra un corner Prada e l’altro Gucci, si apre l’accesso alla collezione: cinque piani e quattromila metri quadri di esposizione dei contemporanei tesori di Tony Salamè, tycoon del lusso libanese che ha qui il suo trionfo tra opere/artisti tra i più cari al mondo scelti e consigliati da Massimiliano Gioni. C’è Murillo e Cindy Sherman Carsten Holler e Armleder, e Matt Mullican e Goshka Macuga... Siamo nell’Olimpo globale, molto lontani dall’impegno dei ragazzi degli anni Novanta e anche dalle problematiche che attraversano i loro lavori. Non è neppure quel che intende la Muracciole o Christine Tohmè, fondatrice dell’Ashkal Aiwan, organizzazione no profit che dal 1994 sostiene e promuove la più radicale ricerca degli artisti libanesi in patria e all’estero. E poi la presidente Christiane J. Audi che ha ospitato le opere italiane nel suo piccolo tempio di vestigia romane o la militante Zeina Arida, direttrice del museo storico. E sono a loro modo militanti anche le galleriste più potenti e influenti: dalla volitiva Andree Sfeir-Semler che si divide tra Beirut e la casa madre ad Amburgo per esportare e importare opere e pensieri che uniscano Europa e mondo arabo o la decana Janine Rubeiz, ino alla più giovane Jumana Asseily che ha aperto la sua Marfa’ Projects nella zona del porto. Donne e ancora donne. Come spiega tutto questo potere in mani femminili? Sorridendo risponde la direttrice del Sursock: « Forse perché in questo caso si tratta di conservare ed educare. Il potere vero, quello politico, economico e militare, potete starne sicuri: è tutto nelle mani degli uomini».



ALCUl’espresso 23.9.18
La carica dei cristiani senza Dio
Di Marco Damilano

L’Europa attuale è stata costruita dai leader cattolici che volevano unire Chiesa e democrazia. Oggi vacilla di fronte all’attacco dei sovranisti

 no spettro si aggira per l’Europa, la vecchia sinistra socialdemocratica, in picchiata ovunque nei consensi e in crisi di identità. La sua versione italiana, raccolta sotto le bandiere del Partito democratico, non riesce da mesi neppure a raccontare a se stessa e agli italiani le ragioni di una perdita di milioni di voti ed è arrivata a dividersi perfino sugli inviti a cena. È accaduto in occasione dell’improvvida idea di Carlo Calenda, invitare a tavola un ristretto club di primi della classe, Matteo Renzi, Marco Minniti, Paolo Gentiloni, che alla fine hanno lasciato cadere scatenando l’ira dell’ex ministro. L’opposizione continua a discutere di formule e contenitori, mentre la coalizione di governo M5S-Lega litiga, si accapiglia, si divide sulle cose da fare: misure, soldi, risorse per la legge di Bilancio. Occupa tutte le zone del campo (destra, sinistra e centro) e continua a crescere nei sondaggi, malgrado la confusione. Ma c’è un altro fantasma, molto meno analizzato e raccontato, che spiega quanto sta succedendo in Italia e nel resto d’Europa. Attraversa i paesi che ricalcano i confini dell’antico Impero carolingio, Francia e Germania, e gli Stati oggi uniti dal patto di Visegrad e poi l’Austria e il Lombardo-Veneto, culla della Lega prima indipendentista e oggi sovranista: i territori che furono dell’Impero asburgico. È una faglia che a Ovest e a Est dell’Europa spacca i popoli che furono la culla della cristianità europea nel Medioevo, nell’età moderna e nei cinquant’anni seguiti alla fine della seconda guerra mondiale, dopo il 1945. L’Europa unita, sognata dal laico Altiero Spinelli nell’isola di Ventotene, ben più che dalle sinistre socialiste è stata inizialmente costruita dai tre leader dei paesi fondatori: il francese dell’Alsazia-Lorena Robert Schuman, il tedesco della Renania Konrad Adenauer, l’italiano venuto dal Trentino, già deputato del Parlamento asburgico, Alcide De Gasperi. Tre leader venuti da regioni di frontiera, testimoni degli eccidi e delle tragedie del Novecento, tre cristiani interpreti di una potente idea politica: l’incontro tra i cattolici e la democrazia, dopo secoli di guerre di religione, di alleanze tra trono e altare e di separazioni sanguinose. E dunque la fine della lunga stagione aperta in Europa dalla rivoluzione francese del 1789, con la Chiesa e i cattolici relegati all’opposizione della modernità, sul fronte della restaurazione. L’Europa e la democrazia erano i due volti di un progetto ambizioso, insieme politico e religioso, perché richiedeva una Chiesa non più arroccata sul fronte della reazione, anticipava le conclusioni del Concilio Vaticano II. In Italia significava la lunga egemonia del partito-Stato dei cattolici, la Democrazia cristiana, in una logica non confessionale ma di autonomia tra le due sfere, l’ordine temporale e l’ordine spirituale. La garanzia che la democrazia italiana e l’orizzonte europeo avrebbero avuto una base di massa, popolare: contadini, operai, ceti medi, l’immenso bacino dell’elettorato cattolico. Il processo di costruzione dell’attuale Unione europea e l’allargamento ai paesi dell’Est fu completato dagli ultimi esponenti di quella tradizione: l’italiano Romano Prodi, il tedesco Helmut Kohl, cui va aggiunto il più anziano Jacques Delors, che da giovane si era formato nella gioventù operaia cattolica e nella rivista “Témoignage Chrétien”, prima di aderire al partito socialista. Era stato il papa polacco Giovanni Paolo II a coniare lo slogan dell’Europa a due polmoni, uno orientale e uno occidentale, ben prima della caduta del Muro. E alla fine del Novecento e nei primi anni Duemila il progetto era sembrato trionfare.
Oggi, invece, c’è il vuoto. Non ci sono due polmoni, ma l’asfissia. L’Europa non respira, soffoca, ha le porte e le finestre sbarrate, all’esterno e all’interno. La stagione di quella che lo storico Timothy Snyder ha definito in “La paura e la ragione” (Rizzoli, 2018) «la politica dell’eternità»: il ritorno alla politica del suolo, della terra degli avi, contrapposto alla «politica dell’inevitabilità», il culto dei parametri economici come volto finale della liberal-democrazia. Due visioni entrambe anti-storiche, scrive Snyder: «I politici dell’inevitabilità insegnano che i dettagli del passato sono irrilevanti, perché qualunque cosa succeda è acqua per il mulino del progresso. I politici dell’eternità saltano da un momento all’altro, tra i decenni e i secoli, per costruire un mito di innocenza e di pericolo». Oggi l’Economist si interroga sul superamento di un liberalismo inteso come puro vincolo e austerità. Ma intanto il vuoto si è aperto, nel cuore dell’Europa, e nel vuoto tornano di moda parole antiche: Patria, Nazione, Identità. Radici. E il cattolicesimo democratico e europeista è stato spazzato via. Al suo posto c’è un’ideologia, cristianista più che cristiana, che si candida a guidare culturalmente il fronte del sovranismo alle prossime elezioni europee, in Polonia, Ungheria, Austria, Italia. Con un doppio obiettivo: abbattere non solo l’Europa di Maastricht e di Schengen, ma anche l’Europa dei diritti, che è stata una sorta di virtuoso vincolo esterno. In nome della rivincita sulla modernità, la restaurazione, il ripristino della Tradizione immutabile, contro quello che viene considerato un interminabile catalogo di errori. L’Ungheria di Viktor Orbán è l’apripista. Il premier ospitato nel vecchio Ppe, i democristiani europei, in questi anni ha stravolto la Costituzione del suo paese inserendo riferimenti continui al re Santo Stefano, all’identità cristiana della Nazione, alla famiglia «basata sull’unione volontaria tra uomo e donna», con il divieto di aborto e la difesa del feto «fin dal concepimento». È la politica dell’eternità, che aggredisce un’Europa svuotata dai suoi valori fondativi. L’Espresso racconta come sta avvenendo questa metamorfosi anche in Italia. Può far sorridere o inquietare, o entrambe le cose. Di certo è uno dei motori del sovranismo italiano. Un movimento che raccoglie un partito, la Lega, un gruppo trasversale di 150 parlamentari, il gruppo Famiglia e Vita appena nato, un ministro, Lorenzo Fontana, per cui è stato appositamente creato un ministero della Famiglia, di nessuna capacità di spesa ma di ampio potere declamatorio, il leader Salvini che ha sventolato una copia del Vangelo e una corona del rosario nel comizio finale della sua campagna elettorale in piazza Duomo, nel silenzio imbarazzato della gerarchie ecclesiastiche. Il movimento conta su potentissimi appoggi in Vaticano, nell’ala curiale anti-Bergoglio, e su quella rete internazionale che ruota attorno all’enigmatico ex consigliere di Trump Steve Bannon. C’è una storia italiana che ci porta qui. La fine del partito dei cattolici, la Democrazia cristiana, che raccoglieva la gran parte dell’elettorato dei credenti e dei praticanti alla messa domenicale, ma aveva combattuto ogni deriva clericale o sanfedista. La chiusura della Dc, avvenuta esattamente un quarto di secolo fa, avrebbe dovuto lasciare spazio, nella speranza dei sostenitori del bipolarismo, alla presenza di cattolici in entrambi gli schieramenti, a far da lievito con la loro cultura. Era questo il senso più profondo dell’operazione Ulivo: un patto tra laici e cattolici pensanti, come li chiamava il cardinale Carlo Maria Martini. Cattolici aperti alla modernità, laici curiosi del fatto religioso. Quel patto è saltato quasi subito. Perché la gerarchia ecclesiastica italiana, guidata con il pugno di ferro dal cardinale Camillo Ruini, preferì puntare sullo schema opposto: la trasformazione della Chiesa in una lobby, con l’inserimento in Parlamento e nei nuovi partiti della Seconda Repubblica, da Forza Italia alla Margherita, di figure politicamente sbiadite ma docili ai disegni della Conferenza episcopale. Paola Binetti e Eugenia Roccella, per dire. Un disegno che presupponeva la riduzione del mondo cattolico a pura massa di manovra, da spingere in piazza come nel caso del primo Family Day del 2007 contro il disegno di legge sulle unioni civili del governo presieduto dal cattolico Prodi, e da rispedire a casa a piacimento se il momento richiedeva trattative lontane dai riflettori. Il bilancio finale è stato disastroso: l’episcopato, finita l’era Ruini, si è presentato senza leadership e capacità di lettura della nuova realtà italiana, oscillante tra un populismo pasticciato e le buone intenzioni, incapace di proporre nei conclavi del 2005 e del 2013 un candidato all’altezza del papato. Il serbatoio dell’associazionismo, dei movimenti, del sindacato (la Cisl) che forniva i quadri di una classe dirigente diffusa e popolare, con i suoi personaggi di spicco nell’establishment, i Bazoli, gli Andreatta, i Prodi, e gli intellettuali ascoltati dalla cultura laica come Pietro Scoppola, si è esaurito nel conformismo, nella ripetizione delle formule astratte (ieri i principi non negoziabili, la vita e la famiglia, oggi un certo appoggio di comodo alle indicazioni di papa Francesco di cui si coglie l’aspetto più edulcorato, il meno impegnativo), nella distanza dalla sfera della politica, considerata nella stagione precedente lo sbocco privilegiato dell’impegno nella storia, forse obbligato, di certo il più nobile. E, quel che è peggio dal punto di vista della ragione sociale della Chiesa, l’annuncio del messaggio cristiano nel mondo, c’è stato un arretramento vistoso: le chiese vuote, l’ignoranza religiosa, l’incredulità pratica, il silenzio di Dio di cui parla Giuseppe Genna a pagina 34. La riduzione del cattolicesimo dalla dimensione del mistero della vita, del dolore e della Resurrezione alla estenuante difesa quotidiana sui preti pedofili, le beghe curiali che trasforma la Chiesa in una multinazionale corrotta e in disarmo. In questo vuoto si è compiuta la secolarizzazione, «il salto nel vuoto etico», come l’ha definita Scoppola. Quell’attitudine contemporanea a non credere in un dio o in una religione che è finita per capovolgersi nel nichilismo, ovvero nell’impossibilità o nell’incapacità di credere a qualcosa. E, sul fronte opposto, la crescita della reazione. Un cristianesimo dell’eternità, ben rappresentato dal ministro Fontana e dalla sua guida spirituale don Wilmar Pavesi, raccontato da Elena Testi. Un’eternità, però, che ignora il trascendente, perché la partita si gioca tutta qui e ora, su questa terra, in questa Europa e in questa Italia, nella politica, una sfera non più distinta dalla religione. Un processo lungo: già all’inizio degli anni Novanta il Centro Lepanto attaccava il Trattato di Maastricht, «la più grave minaccia contro gli Stati nazionali europei, e dunque contro la stessa Europa, in questo dopoguerra», lo definiva il professor Roberto De Mattei, animatore del centro che aveva promosso l’attacco contro la moschea di Roma e la veglia di preghiera contro il Gay Pride del Duemila: «L’omosessualità è un vizio infame. Ci auguriamo che Sodoma, la città della depravazione, non sia il modello del Parlamento europeo». Già allora il Centro Lepanto aveva intrecciato una serie di importanti relazioni con l’Heritage Foundation, una delle culle del pensiero neo-conservatore Usa, ma restava minoritario e isolato. Oggi, invece, tra i fedeli solo il 33 per cento è critico con Salvini, il 57 per cento è d’accordo con il capo della Lega, nonostante la predicazione di papa Francesco e le ripetute prese di posizione del quotidiano Cei, Avvenire. E concetti fino a poco tempo fa impresentabili risuonano dalla bocca di un prete che un ministro della Repubblica frequenta ogni mattina. C’è una semplice domanda per il ministro Fontana che ha giurato fedeltà alla Costituzione repubblicana: condivide quanto ha detto all’Espresso il suo consigliere spirituale e politico, perché per i neo-reazionari la distinzione tra le due sfere non esiste? Se sì, Fontana sarebbe un ministro che considera le donne incapaci di studio, l’omosessualità un frutto del diavolo e l’alleanza trono-altare un progetto possibile. Un caso unico in Occidente, almeno per ora. All’interno della Chiesa si muove una lobby potente di mezzi e di relazioni, spara i suoi cannoni dalla stampa di destra o da siti influenti e militanti. Nell’indifferenza della cultura laica, ormai insensibile al fatto religioso. Ma è un errore, perché è da questa nuova frattura tra cristianesimo e modernità, tra cattolici e democrazia che nasce il più feroce attacco ai diritti di tutti. Quelle chiese deserte rappresentano un vuoto più profondo che riguarda tutti. In cui avanza un cristianesimo in fondo ateo. Senza Dio perché senza l’uomo, senza l’altro.


l’espresso 23.9.18
Antimoderni all’assalto
Il governo della Reazione
di Elena Testi
I gay? Peccato istigato dal diavolo. I migranti? In Italia, prima i nostri. L’aborto? Un crimine. Per risollevare la civiltà serve una nuova alleanza trono-altare. Chi sono e cosa pensano i preti che ispirano il ministro Fontana. E Salvini
Alle 7 del mattino il ministro prende la messa in latino. La rete comprende il cardinale Burke, nemico di Bergoglio, padre Georg, ed è vicina al guru sovranista Steve Bannon


La luce entra flebile, in lotta con le tenebre, a simboleggiare quanto avviene nelle anime dei presenti. Sei persone, quattro uomini e due donne con il capo coperto da un velo bianco. Pregano, sussurrando un’antica litania, mentre il pugno chiuso percuote il petto in segno di contrizione per tutti i peccati di cui si sono macchiati. Sono le sette e un quarto del mattino, dentro l’antica chiesa romana dalla facciata imponente a due passi da palazzo Farnese, ponte Sisto e via Giulia, le preghiere sono in latino, il prete che dice messa rivolge le spalle ai fedeli, un altro celebra per conto suo a un altare laterale, in prima ila c’è un uomo in disparte genuflesso, con il busto rivolto verso la panca. La bocca in un bisbiglio, le ginocchia rimangono inchiodate nel legno duro, senza fodera, tra le mani stringe un messale consumato, sfoglia le pagine logore velocemente, in cerca del passaggio. «Ite, missa est». Si volta e nel buio si riconosce la linea del volto. È il più ascoltato consigliere di Matteo Salvini, il senatore della Repubblica Lorenzo Fontana, il ministro della Famiglia. Ogni mattina all’alba, quando si trova a Roma, Fontana si dirige nella chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini, affiancato da un collaboratore meno esperto di antichi riti, all’uscita colazione e poi si incammina verso il suo ufficio di ministro della laica Repubblica italiana. Prima, però, ogni giorno, dopo la liturgia ecclesiastica, rimane in contemplazione per alcuni minuti, si alza e si dirige verso l’altare, dove si inginocchia di nuovo. Infine apre la porta della sacrestia e parla con la sua guida spirituale, nonché politica, don Vilmar Pavesi. Prete della Fraternità Sacerdotale di San Pietro, fondata dal vescovo scismatico Marcel Lefebvre, scomunicato da papa Giovanni Paolo II nel 1988. La congregazione venne salvata e riammessa nella Chiesa nel 2008 da Benedetto XVI: da quel momento la Fraternità ha il permesso di celebrare la messa in latino, con l’antico rito tridentino, rifiutando la riforma della liturgia voluta dal Concilio Vaticano II che ha introdotto la messa in volgare con la possibilità per i laici di partecipare attivamente. Un’eresia per gli ultra-reazionari cattolici che fino a qualche anno fa sembravano un residuo della storia, una pattuglia di nostalgici della Tradizione. Oggi, invece, sono un’avanguardia. Il fronte più avanzato di un esercito che sta sconvolgendo la Chiesa e l’Europa. Nel buio della pluri-secolare chiesa dei Pellegrini, dove predicò san Filippo Neri, si gioca qualcosa di più di una semplice devozione a un rito passato. Si fanno vedere ministri della Lega, cardinali nemici di papa Bergoglio, americani alla Steve Bannon. In questa chiesa l’esercito si sta organizzando: qui si è visto Matteo Salvini, il porporato Raymond Leo Burke, amico di Bannon, è di casa, il vescovo Georg Gänswein, segretario di Ratzinger, ha celebrato le cresime in abito porpora. L’Internazionale sovranista ha qui, nel cuore di Roma, tra madonne, crocifissi e evangelisti, uno dei suoi nascosti punti di riferimento. Fontana è uno di loro. Un crociato che si è candidato nel 2014 al Parlamento europeo nella Lega per bloccare l’ingresso nella Ue della Turchia. Un fedele che ripudia l’epoca moderna. Un nemico acerrimo dei progressisti e amico fidato dei prelati anti-bergogliani che tessono trame politiche nel sogno di ricostituire una guida cattolica per il gregge smarrito e per l’Europa. Ma Fontana è oggi l’uomo scelto dal Governo del Cambiamento per ricoprire un ruolo strategico in tema di diritti civili. Per lui è stato creato un ministero ad hoc, la Famiglia, insieme al compagno di partito Simone Pillon, suo sottosegretario. Amici fraterni e tradizionalisti convinti, tanto da lasciare insieme, ma non prima di aver parlato alcuni minuti davanti a palazzo Grazioli, la festa della Lega oferta dal vice-premier Salvini nel super attico del ministero dell’Interno. Don Vilmar Pavesi è la sua guida spirituale, la più influente. Tra il ministro e il prete tradizionalista c’è un’amicizia che dura da tempo. «Veniva tutte le mattine a messa alla chiesa di Santa Toscana», confida il prelato, «ma ancora non era nessuno, lavorava alla Fiera di Verona». Era il 2005. “Lorenzo”, come lo chiama bonariamente padre Pavesi, scala i vertici del partito. Don Pavesi, arrivato dalla Spagna, nato in Brasile ma da una famiglia lombarda, viene precettato dal Carroccio come guida spirituale. Benedice sedi di partito, organizza cortei insieme a Mario Borghezio, stringe mani e partecipa alla vita politica della città. Nella sua chiesa, oltre a santi e feste comandate, si festeggia anche il 7 ottobre, l’anniversario di Lepanto, la battaglia del 1571 che, secondo i tradizionalisti, salvò l’Europa dall’invasione islamica, preservando così la fede cristiana e evitando l’infezione. Nostalgico, apertamente monarchico e intransigente verso qualsiasi apertura che non rispetti l’antica dottrina della Chiesa. Con lui il ministro per conto di Dio, ogni giorno, si consiglia, si conida, si confessa e parla di politica. In quegli anni il futuro ministro conosce un altro personaggio: Maurizio Ruggiero, fondatore del movimento Sacrum Romanum Imperium, per cui «la democrazia è una grande pagliacciata», dovremmo tornare «a instaurare le antiche monarchie ispirate al principio divino o alle repubbliche patrizie». Ruggiero ha sempre votato Lega e dalla Liga Veneta è sempre stato appoggiato. Insieme a lui Fontana da euro-parlamentare fonda nel 2014 il comitato “Veneto Indipendente” per chiedere l’autonomia della regione e il ritorno dell’antica repubblica di Venezia. Nel programma, tra i punti di rilievo, si legge: «Basta al disfacimento morale e spirituale della società; riafermare i valori della Tradizione e dei nostri Padri, pienamente espressi nella Religione Cattolica tradizionale». Presidente onorario del comitato è Fontana che in quell’occasione chiarisce quale sia il suo ruolo a Bruxelles: «Il mio impegno in Europa è quello di far valere il diritto dei popoli ad essere liberi e poter vivere secondo i valori della propria storia e tradizioni, anche come entità statuali nuove e non di essere omologati ad una pseudocultura individualista e nichilista, che annienta le comunità locali imponendo modelli di vita relativisti, contronatura e immorali». Si costituisce un gruppo composto da veronesi di razza. Con un amico e una guida in comune: padre Pavesi. Mentre Lorenzo inizia la sua scalata dentro il Carroccio e al Parlamento, con l’intento di evitare l’annessione della Turchia all’Europa (il contagio con l’antico Impero Ottomano sarebbe fatale) e ripristinare gli stati antichi (il proilo Facebook del ministro è costellato di bandiere della Serenissima Repubblica di San Marco), a Verona continuano le bizzarre battaglie del prete tradizionalista e Ruggiero. Nell’aprile del 2011, quando il capo del Sacrum Romanum Imperium organizza nella piazza le celebrazioni delle Pasque veronesi, c’è chi irrompe e mette ine alla manifestazione. Don Pavesi non la prende bene: «Si abbatterà un cataclisma sulla città, saprete il perché», maledice. Diventa un problema per la Chiesa e per la stessa Lega. Nel 2009 l’allora sindaco di Verona Flavio Tosi, che pure non è un progressista, decide di bloccare la benedizione della sede del partito di Villafranca, bloccando il parroco che della Lega era diventato un protagonista onnipresente. Nel 2011 Il vescovo Giuseppe Zenti, impaurito dalle sue idee, decide di allontanarlo. Lascia la città senza salutare i fedeli. Ma c’è chi sa benissimo dove si trova, ed è Fontana che ogni giorno si reca alla chiesa dei Pellegrini di Roma per incontrarlo. È stato lui a presentare Matteo Salvini a padre Pavesi ed a far in modo che l’amicizia e le consulenze continuassero negli anni. Non è l’unico. Nella chiesa che fu di San Filippo Neri si intrecciano giochi di potere e personaggi che lavorano per una nuova Europa cattolica. Tra questi il cardinale Raymond Leo Burke che nella parrocchia di culto tridentino celebra messa nelle festività più importanti. Nemico dichiarato di Papa Francesco, astuto e tradizionalista convertito, firmatario dei Dubia, i quesiti teologici che mettono in discussione l’infallibilità del Papa, dipingendolo come eretico per la sua eccessiva modernità. È Burke, il porporato guerriero in aperta polemica con papa Francesco, tanto da fondare un gruppo dal nome i “Guerrieri del Rosario” che hanno il compito di portare avanti la “Operation Storm Heaven”. La battaglia si svolge pregando il rosario il primo giorno di ogni mese, in unione spirituale con il cardinale Burke. L’obiettivo finale, stando alla mailing list quotidiana, è quello di «formare un esercito spirituale di Guerrieri del Rosario per assediare il Cielo con le preghiera». L’intento vero è indottrinare i fedeli, riportandoli alla retta via e ricordare loro i principi fondanti della dottrina cattolica e, quindi, secondo i tradizionalisti, dell’Occidente intero. È Raymond Leo Burke il cardinale di riferimento della Lega, come ammette Fontana: «A papa Francesco, preferisco lui».

l’espresso 23.9.18
Gerarchia, dipendenza, legame..
colloquio con padre Vilmar Pavesi
Padre Vilmar Pavesi, consigliere spirituale del ministro: «Lorenzo ha le mie stesse idee. Altrimenti le nostre strade si dividerebbero»


L’incenso stordisce, i fedeli rimangono in piedi, poi si accasciano sulla panca, attendendo le parole di don Vilmar Pavesi. Nella chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini, la preghiera scorre tra canti e litanie, ma è alla fine della solenne liturgia che Padre Vilmar stringe mani e saluta parrocchiani.
Durante l’omelia padre Pavesi ha allertato i fedeli: «La Santa Chiesa chiede a nostro Signore di liberarci da ogni diabolico contagio. C’è un rischio reale di contrarre un’infezione diabolica. Sappiamo che tra il 1347 e il 1352 la peggiore epidemia di peste, la cosiddetta peste nera, uccise un terzo della popolazione europea. Anche l’Italia venne contagiata. La peste nera è un simbolo di ciò che la ribellione guidata da Lucifero provoca».
Vilmar Pavesi, padre spirituale di Lorenzo Fontana già a Verona, fidatissimo parroco della Lega, in dai tempi del Carroccio secessionista, allontanato dal partito dall’allora sindaco Flavio Tosi ma seguito dagli attuali vertici della Lega ino a Roma. Ora è qui, protetto dalla lunga tonaca nera e da un sorriso che non si spegne neppure quando pronuncia sentenze terribili. Per esempio contro le donne.
«In questa chiesa vengono solo uomini, perché le ragazze e le donne si sono molto adeguate a questo mondo e non vogliono andare controcorrente. E poi ci vuole uno sforzo mentale per seguire una messa in latino. I ragazzi con i libri in mano si trovano più a loro agio».
Padre, lei è la guida spirituale del ministro Lorenzo Fontana?
«Conosco Lorenzo dal 2005, quando non era ancora in politica e lavorava alla fiera di Verona. Veniva tutti i giorni alla messa».
Parlate di politica?
«Certo che parliamo di politica, ma Lorenzo fa parte di un Governo che può non accettare le nostre idee, anche se in questo momento passano».
Lei crede che un ministro debba portare le sue idee nel Governo?
«Noi non siamo schizofrenici. Quando la domenica andiamo in chiesa, apriamo la porta e ci troviamo in strada, non smettiamo di essere cristiani. Non possiamo professare la fede in chiesa e quando andiamo fuori trovare nella società, nel governo, nella scuola e nelle leggi tutto il contrario di quello che ha detto Gesù Cristo. Noi siamo giovani, ma questa casta unione tra l’altare e il trono ha fondato l’Europa, la civiltà, la cultura. È Carlo Magno».
In democrazia ci sono anche gli altri, c’è il pluralismo religioso, etico, politico, non crede?
«C’è stata sempre collaborazione tra l’autorità religiosa e l’autorità civile. In questa democrazia Lorenzo rappresenta una corrente che la pensa come lui. Con lui può avere un suo spazio. Noi siamo a un punto che dire la verità è un reato. Ma lui non ha mai detto nulla di male».
Ma un ministro della Repubblica non dovrebbe rappresentare tutti?
«Lui rappresenta la famiglia, naturale e organica».
Non c’è solo l’idea cattolica della famiglia, ce ne sono altre nella società italiana.
«Ma la famiglia naturale precede la Chiesa. C’è poco da dire: c’è un ragazzo che si innamora di una ragazza, ci sono i figli. Questa è la famiglia».
Lei conosce anche Matteo Salvini? «Certo» (fa segno con la mano che è venuto anche lui in chiesa). È stato lei a regalargli il rosario con cui ha chiuso la campagna elettorale?
 «No... io glielo avrei regalato più bello...» (ride)
Quali sono le sue idee politiche?
«La fede cattolica ha sempre prediletto la monarchia. È sempre stato il governo prediletto dei cattolici. C’era una collaborazione tra altare e chiesa, quello è stato l’inizio della civiltà. Dio ha voluto che la società fosse ispirata secondo un modello familiare: gerarchia, dipendenza, legame». Tornerebbe a uno Stato pre-democratico? Tornerebbe alla divisione pre - Unità d’Italia?
«Sì, al regno delle due Sicilie, alla Serenissima Repubblica di San Marco... L’Italia è sempre stata un mosaico di regni che esistono anche oggi. Sussistono nel dialetto, nella mentalità, nel modo di mangiare. Lorenzo Fontana viene qui dentro ma io non posso portarlo in un angolo e incensarlo, purtroppo, come si faceva con il re...».
Se domani diventasse un dittatore cosa farebbe?
«Dittatore? Non posso essere re?».
Va bene, re.
«Come primo decreto regio abolirei l’aborto, il divorzio, l’eutanasia».
Solo questo?
«Anche i giornalisti».
In uno Stato governato da lei il divorzio sarebbe vietato?
«Sì. La Chiesa ha sempre previsto la separazioni dei coniugi per motivi gravi, senza che questo dia diritto al divorzio, perché poi c’è la possibilità di tornare insieme. Con il divorzio le ragazze sanno che c’è una porta. Poi ci sono giovani che la sera rimangono soli, in giro per strada...».
E l’aborto? Vieterebbe anche questo?
«Se io la ammazzo, vado in galera. Se io faccio un torto a una persona, ho fatto un reato che è passibile di una condanna. Com’è possibile invece che l’uccisione di un bambino sia addirittura incoraggiata dallo Stato e finanziata? Dov’è il futuro? È un crimine. Una società che uccide i propri figli, lo fa per un capriccio. Cosa era un principe? Era un padre di tutti i padri. È ereditario, perché quella era la famiglia e questo dà un grande senso di stabilità. L’aborto va a distruggere l’idea di civiltà. È un capriccio. Non esiste famiglia senza rinuncia».
Sulle coppie gay Papa Francesco nel suo primo viaggio ha dichiarato di non essere nessuno per giudicare l’amore.
«La dottrina cattolica non cambia. I papi cambiano, la dottrina cattolica non può cambiare. Le porte degli inferi non prevarranno. È impossibile che un Papa (papa Francesco, ndr.) possa insegnare qualcosa che non è la dottrina. Morirà prima. Il papa è il sovrano pontefice, può essere giudicato solo da Gesù Cristo».
In realtà il papa Bergoglio non è giudicato solo da Gesù Cristo. Ci sono cardinali, tra cui Burke, che hanno espresso contro di lui i dubia, i dubbi sul suo magistero.
«Giudicare significa hai fatto bene o fatto male. Io da cattolico posso manifestare i miei dubbi. È stato lui stesso a dire: criticatemi».
Ma lei allora cosa pensa delle coppie omosessuali?
«Esiste la mano del maligno. Il maligno esiste. Non ha bisogno di dormire, di mangiare, lavora sempre. Il diavolo è il padre della menzogna, ispira il peccato, la ribellione. C’è il diavolo dietro ogni peccato di superbia, di sensualità, di lussuria. È c’è l’istigazione del diavolo dietro al peccato. Per il catechismo della Chiesa l’omosessualità è un peccato contro natura perché la differenza tra uomo e donna trova il suo fine nei figli, nell’unione matrimoniale e nella procreazione. Non rispettare questa finalità è un peccato. Per questo l’omosessualità è sempre stata definita un peccato contro natura. E se è il diavolo a istigare una ribellione contro Dio, è certo che lui sia l’istigatore di questo tipo di peccato e di tutti gli altri».
Lei accoglierebbe?
«Io credo che a casa mia, prima i miei. Posso anche fare carità, ma la carità ha un ordine. L’Italia e l’Europa non possono accogliere tutti. Ci vuole disciplina, una legge, un ordine, altrimenti è il caos».
Lei crede sia giusto lasciare delle persone a bordo di una nave per puntare i piedi contro Bruxelles? «Perché devono salire su una barca? Quante persone su queste barche arrivano senza una gamba, senza una mano o con una pallottola nel petto, non sembrano che scappino da una guerra. Sono in maggioranza tra i 25 ed i 30 anni, non mi sembrano che scappino da una guerra. Non mi sembra». Lei è antieuropeista?
«Cosa è l’Europa? L’Europa è popoli. Se io posso camminare con le mie gambe perché mi offri la sedia a rotella».
Lei pensa che le idee del ministro Fontana siano uguali alle sue?
«Certo, per questo siamo amici. Se la pensassimo diversamente le nostre strade si dividerebbero». Un’ultima domanda: qui vengono tanti politici importanti, perché?
«Meno male».
Perché meno male?
«Perché hanno bisogno di purificarsi».

l’espresso 23.9.18
Vade retro, diritti
Separazioni più costose. Legge sulle unioni civili svuotata, come per l’aborto. Ecco la strategia gialloverde
di Susanna Turco


Adesso che, per puro caso, Matteo Salvini è diventato a Roma vicino di casa del leader del Popolo della Famiglia Mario Adinolfi, a voltarsi indietro salta fuori che molte cose erano state apparecchiate per tempo. La promessa elettorale c’era - attenzione, anche da parte dei Cinque Stelle. Il contratto di governo pure. I protagonisti erano preparati a scendere in campo, ognuno col suo ruolo: a partire dal senatore Simone Pillon, protagonista di Family day, amico del ministro Lorenzo Fontana, concrezione avvocatesca in cui l’ansia declaratoria di un Domenico Scilipoti si agglutina con la determinazione al cilicio di una Paola Binetti. C’erano le parole, i testi, l’iniziativa parlamentare. Mancava giusto la compagnia di giro - il coro, i figuranti, le prefiche - ma anche quella si sta rapidamente (ri)costituendo, dalle Eugenia Roccella ai Maurizio Gasparri e gli altri 148 sottoscrittori dell’entusiasta intergruppo parlamentare “Vita, Famiglia e Libertà” (c’è pure la Binetti, rieletta e militante in Noi con l’Italia), insieme con un clima che non si respirava così da almeno un decennio. Ed ecco così che con una coerenza assoluta alle premesse torna rinnovata, più agile e insieme più minacciosa, la saldatura tra un pezzo di politica e pezzi di mondo cattolico (il Family day, i teocon) - nel nome della difesa della cosiddetta «famiglia tradizionale». Non sono per forza e solo gli stessi nomi. Nemmeno le istanze sono identiche. Ma l’ambizione è persino più alta: nel 2007 era fermare l’ingresso in Italia di certi istituti, come Dico o Pacs. Adesso si tratta di smontare, riavvolgere il ilo. Il divorzio breve, le unioni civili, il biotestamento. Sopire, disapplicare. «Dobbiamo recuperare il terreno perso negli ultimi anni e spostare il confine un po’ indietro nel tempo, dopo una legislatura orribile», è il programma di Gaetano Quagliariello, il senatore di Forza Italia noto soprattutto per la frase che urlò al Senato nel 2009 («Eluana non è morta, è stata ammazzata»). Anche lui è parte del gruppone Vita e famiglia - dove fa capolino, da fuori, pure Massimo Gandolini, leader del Family Day. Una specie di utopia regressiva. Fin dove si potrà arrivare, in concreto? La legislatura è in realtà appena agli inizi, si è lavorato pochissimo, nessuno ha preso le misure di alleati e avversari. Però è chiaro che per difendere la famiglia tradizionale si può andare a gradi, seguendo come bricioline le parole di Salvini e degli altri del centrodestra. Vale a dire: ribadire che è «composta da uomo e donna», ossia distinguerla dalle coppie omosessuali anche dal punto di vista linguistico, grado uno; grado due, rendere più complicate separazione e divorzio; grado tre, incentivare la natalità - faccenda che va dal mitologico «quoziente familiare», fino «all’aiutare le donne a far nascere bambini» (Pillon), anche «con ingentissimi incentivi economici» (Pillon) per giungere al capolinea inquietante del «se vuole ancora abortire, glielo impediamo» (ancora Pillon, in una intervista alla Stampa); grado quattro, dire no alle adozioni da parte delle coppie gay - facendo leva anche sulla mancanza di una legge che regoli la stepchild adoption.
Via genitore 1 e 2
Ed ecco come, passo passo, il governo della maggioranza gialloverde, nello specifico il suo lato salviniano, conduce la faccenda. Il grado uno, per dire, sta un pezzo avanti: già in estate il ministro dell’Interno ha fatto saltare la dicitura «genitore 1» e «genitore 2» sulle carte di identità; ora sono semplicemente indicati come genitori, la volontà chiara è tornare a «padre» e «madre» rimettendo in un angolo le famiglie arcobaleno (cosa per cui la sinistra ha già dato, inutilmente, del «troglodita» al vicepremier leghista che se ne bea). Dietro la porta c’è la questione dei figli di coppie omosessuali, lasciata pilatescamente in mano ai giudici, e a varie altre discrezionalità, dalla legge Cirinnà. Sullo sfondo c’è un clima che si va facendo diverso: grandi preparativi perché a marzo toccherà proprio all’Italia, precisamente a Verona, la città di Fontana, ospitare il Congresso Mondiale della famiglia - Salvini e il ministro hanno già confermato la loro partecipazione; mentre in questi giorni, in Umbria, il protocollo di lotta all’omofobia si è arenato in Prefettura e la Garante regionale per l’infanzia che ne ha sollecitato lo sblocco, è bersagliata dalla richiesta (leghista) di dimettersi. Ma il paradigma perfetto a raccontare l’epoca sul fronte dei diritti è nella proposta di legge che vuol cambiare le norme sull’affido, firmata da Pillon, che ha appena mosso il primo passo in commissione Giustizia a Palazzo Madama (un passo piccolo: è stato deciso che si farà un ciclo di audizioni di esperti. Ma nello stesso tempo un passo grande: ha cominciato il lungo iter per diventare legge). Il testo che, in un sol colpo, si propone di capovolgere alcuni capisaldi di separazione e divorzio in coppie con minori, sostituendo le storture esistenti con altre peggiori: via l’assegno per il mantenimento del figlio, largo alla «bigenitorialità» perfetta fatta almeno 12 giorni al mese con un genitore, obbligo della mediazione familiare per decidere tutto (Pillon è mediatore familiare e ha uno studio che si occupa di mediazione familiare, come ha scritto online L’Espresso provocando le proteste del senatore che ritiene non trovarsi in conflitto di interessi). La proposta sembra nata come un fungo, perché di temi etici e diritti, al momento di stendere il contratto di governo, Lega e Cinque Stelle non vollero discutere. E invece ha origini ben precise.
Proposte M5S e ddl Cirinnà
Nel contratto di governo intanto, dove nella sottovalutazione generale già si enunciavano nero su bianco quelli che poi sarebbero divenuti i principi cardine del ddl Pillon («rivisitazione dell’istituto dell’affidamento condiviso», «tempi paritari tra genitori», «mantenimento in forma diretta», «norme volte al contrasto della alienazione parentale»). Ma, ancor prima, nei rispettivi programmi elettorali. In quello della Lega, certamente. Ma, cosa meno nota, anche in quello dei Cinque Stelle. Il che da solo dovrebbe dare una risposta a quanti confidino nella voglia della classe politica grillina di sfilarsi da una iniziativa del genere - magari dimenticando che, ai tempi del ddl Cirinnà, all’ultimo momento M5S si sfilò proprio per scelta di Di Maio, che oggi governa con Salvini. C’è scritto infatti chiaro e tondo, nel programma elettorale presentato da M5S. Nella sezione dedicata alla giustizia, un punto recita chiaro che serve un «aggiornamento dell’istituto dell’affido condiviso e potenziamento della bigenitorialità», specifica che il «mantenimento deve essere disposto in forma diretta» (cioè niente assegno di un genitore all’altro), mentre qualche pagina dopo si mette un paletto sull’obbligo della mediazione: «Per le questioni in cui sono coinvolti figli minorenni, si ritiene sia necessaria l’obbligatorietà della mediazione civile». Tutto ciò sta nella seconda versione del programma. Cioè non quella estesa e votata in tandem con la rete degli attivisti (dove il punto manca del tutto), bensì quella finale - diversa dalla prima, come a suo tempo scoprì il Foglio. Bene. Oggi, quelle parole, impegnano i parlamentari M5S persino a monte del programma di governo. Cambiale ai padri separati
Una maggioranza dunque c’è. E la volontà politica? Per quella, è sufficiente ripercorrere a ritroso le mosse di Salvini. Prima delle serate settembrine in cui si fa i selfie sul terrazzo del superattico che gli tocca come ministro dell’Interno a due passi da via del Plebiscito, Salvini ha messo in lista, per la prima volta nella storia della Lega, personaggi vicini al Family Day, come appunto Pillon, che proviene dal Forum delle associazioni familiari, ma anche il giurista Giancarlo Cerelli, dell’Unione Giuristi cattolici. Quando non era ancora vicepremier, si batteva a Milano per la causa dei padri separati. Gioiva per l’approvazione, nella Lombardia guidata da Maroni, della legge che dava un tot al mese a chi di loro avesse figli a carico. E spiegava: «Conosco l’Associazione dei padri separati e so bene che ci sono casi disperati. La norma sull’affido condiviso non è applicata e la giustizia italiana 9 volte su 10 avvantaggia le donne. Noi in Lombardia abbiamo fatto passi avanti, ma dovrebbe darsi una mossa il Parlamento». Di esponenti delle varie associazioni, già nel 2013, ne fece candidare quattro solo in Lombardia. E su Youtube si ritrovano interviste ancora più antiche a personaggi come Domenico Fumagalli, Associazione padri separati Lombardia, a personaggi come un Antonio Borromeo che aveva fatto a piedi duemila chilometri per perorare la causa. Parlava della Festa della paternità di Brugherio, Salvini, e prometteva già allora: «Ci batteremo per un nuovo condiviso e per un vero alternato, un vera mediazione familiare». In pratica, dice l’ex parlamentare e oggi responsabile diritti Pd Sergio Lo Giudice: «siamo alla congiunzione luciferina di due istanze: una è quella di Pillon e della sua ideologia, nella quale fa chiaramente capire il suo obiettivo, cioè rendere più difficile la separazione e magari evitarla del tutto. L’altra è la cambiale della Lega al Movimento dei padri separati, che in Italia è una lobby significativa e ha da anni in Salvini un punto di riferimento».
Figli al centro, ma è falso
Per paradosso, la parola d’ordine con cui si illustra il ddl Pillon, così come tutti gli altri eventuali step di difesa della famiglia tradizionale è sempre: mettiamo al centro il bambino. Ma questo, come spiega all’Espresso l’avvocata Manuela Ulivi, che da decenni si occupa di questi temi, è un falso. Insieme con l’argomento che si diminuisca la conflittualità. «È, al contrario, un progetto di legge che va contro i figli, perché li mette al centro del contrasto tra i genitori, di un conflitto allucinante, nella pretesa astratta che si possa dividere a metà». Falso pure che diminuisca la conflittualità: «Quel contrasto viene fomentato, si pretende di far trovare a una coppia che si separa un accordo minuto, dettagliato, proprio sui punti che di solito l’hanno fatta esplodere: la gestione dei figli, i soldi. Di solito giudici e avvocati mediano, semplificano: qui al contrario si crea un percorso a ostacoli che sembra non finire mai. Che parte con una mediazione, obbligatoria, a pagamento, che ha profili di incostituzionalità. E si arriva fino alla previsione per cui, se un bambino parla male di un genitore, viene spedito in comunità. Con questa premessa la conflittualità è destinata ad aumentare, sulla pelle dei bambini: altro che risparmi, avremo il doppio delle cause». Parola magica: disapplicare Ma appunto, nominalmente è al centro il bambino. Come lo è nelle parole che utilizza Pillon per spiegare la sua posizione sull’aborto: «Una donna la libertà di scelta ce l’ha prima di concepire una vita. Dopo c’è il diritto di un innocente a venire al mondo», ha detto di recente. Il bambino è anche l’argomento di Salvini per spiegare il suo no «finché campo» alle adozioni gay: «Le discriminazioni sono una roba folle, se vado dal medico non so se è etero o gay, con chi vive, e non mi interessa. Ma un bambino viene al mondo, o viene adottato, se ci sono una mamma e un papà». Ecco, è seguendo questo ragionamento che il leader leghista, all’epoca dell’approvazione delle unioni civili con il governo Renzi, disse citando don Milani: «Se una legge è sbagliata, si può disapplicare», invitando i sindaci a «disobbedire», a non rispettarla. Ad esempio non trascrivendo. Ecco, adesso che la Procura di Roma ha fatto ricorso contro le trascrizioni dei bambini nati all’estero con la maternità surrogata, si intuisce fino a che punto il clima possa ancora cambiare. Perché Salvini ha già chiarito il giorno del giuramento di avere «nessuna intenzione di rivedere leggi del passato, come l’aborto e le unioni civili». Ma le leggi non c’è bisogno di rivederle, a volte basta «non applicarle». L’ha detto il ministro dell’Interno.


l’espresso 23.9.18
Non basta dire che si deve accoglierli
di Renzo Guolo
Per troppi anni la sinistra è rimasta afona sulla scelta di modelli per integrare i migranti. E in questo silenzio è cresciuta la xenofobia


Come è maturata la sconfitta della sinistra sull’immigrazione? Determinante è stata la sottovalutazione del bisogno di sicurezza ma non si tratta solo di questo. Conta anche il formarsi di un immaginario collettivo intriso di sfiducia riguardo all’integrazione culturale degli immigrati. O almeno, di quelli appartenenti a gruppi ritenuti, a causa di taluni marcatori etnici e religiosi, più “lontani” dagli italiani. Un senso comune alimentato non solo da episodi di cronaca o da interessate narrazioni di attivi imprenditori politici della xenofobia, ma anche da microconflitti che coinvolgono autoctoni e immigrati nella vita quotidiana. Quello sull’uso degli spazi collettivi, ad esempio, dove si confrontano comportamenti e stili di vita ritenuti incompatibili. Aspetto più o meno occultato a sinistra, perché presuppone l’inconfessabile: la possibilità che tra gli italiani possa prendere forma una deriva di stampo xenofobo o razzista. La sinistra ha illuministicamente pensato che il tempo avrebbe comunque appianato gli eccessi. Ottimismo della volontà che, poco gramscianamente, metteva da parte la necessaria dose di pessimismo della ragione. Tanto da rimuovere l’idea che le culture possano essere, senza politiche e pedagogie pubbliche che aiutino a scongiurare quell’esito, motore di conflitti e non solo di convivenza. Eppure bastava guardare a quanto avveniva nel Nordest, granaio elettorale della Lega. Il capitalismo molecolare nordestino, policentrico per natura, ha popolato di immigrati non solo i centri urbani ma anche i piccoli paesi e le frazioni di campagne di quell’area. Se quella disseminazione territoriale ha scongiurato la nascita di grandi spazi di segregazione urbana e sociale, incubatori di conflitti potenzialmente acuti, non di meno ha reso palese ai più che la globalizzazione non faceva circolare solo capitali, merci e forza-lavoro, ma anche persone con le proprie identità culturali. Una constatazione che ha generato spaesamento e senso di spossessamento. Sino a dilatare, tra gli autoctoni, i fantasmi della perdita della propria cultura.
Una visione acritica della globalizzazione
Di fronte a simili reazioni, spesso abnormi, sarebbe servito un discorso chiaro sulle difficoltà - oggettive ma non insormontabili - di ogni processo d’integrazione. Senza il timore di inseguire i competitori politici su un terreno ritenuto di destra. La sinistra, invece, non ha proferito verbo. Costretta al silenzio dal peso delle sue stesse culture di riferimento, quella di ispirazione marxista e quella cattolica progressista. La prima, in una sorta di “complesso di Kurtz”, il conradiano protagonista di “Cuore di tenebra”, vede nei migranti i figli dello sfruttamento coloniale e neocoloniale da risarcire per riparare agli orrori e agli errori dell’Occidente. La seconda guarda ai migranti come ai poveri e ai fratelli in Cristo. Richiami ideali che però non riescono a placare i timori di quella parte di società sempre più desiderosa di protezione che chiede efficaci pratiche di governo del fenomeno “qui e ora” . Uno sguardo, quello della sinistra, gravato dalla ricerca di un effetto “compensativo”. Alle prese dopo il 1989 con un serio problema d’identità, ha surrogato la subalternità all’ideologia liberista e a una visione acritica della globalizzazione, mediante un meccanismo sostitutivo:  la sua vocazione universalista e
umanista troverà nei diritti umani, in particolare quelli dei nuovi dannati della terra, un nuovo terreno di richiamo. Limitandosi per il resto a proporsi di gestire le conseguenze prodotte dall’incessante lavorio della talpa del capitale globale nelle viscere della società. Dando così l’impressione di occuparsi solo degli ultimi di “fuori”. Il successo dello slogan “prima gli italiani”, che ne fa un bersaglio senza che possa nemmeno poter mobilitare elettoralmente quelli per cui si batte (privi del diritto di voto), non è comprensibile senza questo fermo immagine.
La sindrome di Lord Chandos
Per i suoi valori la sinistra è, naturalmente, portata all’accoglienza. Ma “che fare” di poveri ed ex-colonizzati una volta in Italia? Come governare non solo il presente ma anche il futuro, oltretutto in un contesto destrutturato dalla crisi del welfare e dall’aumento delle diseguaglianze? Paradossalmente ma non troppo, nonostante le ispirazioni solidaristiche, la sinistra è incappata, sul punto, nella sindrome di Lord Chandos: la parola ha lasciato il posto al silenzio che introietta la consapevolezza che dire diviene impossibile. Perché significherebbe mettere in discussione molto, se non tutto. Un silenzio che la condurrà a una passiva adesione a un “liberismo sociale” che affida i processi d’integrazione culturale all’evolversi delle dinamiche societarie. Rinunciando a governare le contraddizioni che nel frattempo esploderanno “in seno al popolo”. Certo, le culture mutano interagendo tra loro, ma cicli politici e cicli culturali hanno tempi diversi. I primi hanno come orizzonte il breve periodo, i secondi il lungo. Tanto più in un paese monoculturale come l’Italia, storicamente alieno dal misurarsi con la differenza. L’evitare di affrontare la questione dell’integrazione culturale favorirà sia le chiusure xenofobe sia quelle etnocomunitarie di taluni gruppi di migranti.
Riconoscere le differenze
La via della rinuncia ha avuto un momento topico tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del nuovo secolo, quando - senza un vero confronto tra politica e saperi - verrà scartata l’ipotesi di adottare un qualsiasi modello d’integrazione culturale destinato, come in altri paesi europei, a definire regole del gioco e forme e limiti del riconoscimento delle differenze. Prevarrà la tesi sull’inutile rigidità dei modelli nelle loro varie versioni: assimilazionisti, multiculturalisti o pluralisti. Preferendo procedere attraverso misure legislative su singoli temi: scuola, politiche urbane, libertà religiosa. Le dinamiche dell’alternanza politica vanificheranno la scelta del passo dopo passo, svuotando quei provvedimenti a ogni cambio di maggioranza. Finirà così tra parentesi anche il discorso pubblico che sorregge ogni modello: quello che esplicita a cittadini e residenti strumenti e finalità dell’integrazione culturale. Nel panorama italiano, dunque, non vi sarà traccia di una discussione simile a quella francese, britannica o tedesca che, negli ultimi decenni, ha cercato di rispondere all’interrogativo sul come sia possibile far convivere culture diverse all’interno del medesimo spazio sociale. Un vuoto che farà diventare egemone un “assimilazionismo senza assimilazione”, fondato sull’idea che gli stranieri devono accettare regole e valori della società italiana e che la politica non deve fare nulla che incoraggi il riconoscimento della differenza, ritenuta disgregante. Un tipo di considerazione diffusa, oggi, in tutta Europa. Come dimostra il recente risultato elettorale svedese: l’avanzata dei partiti xenofobi è determinata anche dalla protesta di cittadini che stigmatizzano gli stranieri non solo perché concorrenti sul terreno del welfare ma perché ne usufruiscono senza condividere quella partecipazione civica ritenuta costitutiva del patto di cittadinanza. Fatto che, nella culla della socialdemocrazia scandinava, appare inaccettabile anche a elettori prima orientati a sinistra. Uno smottamento che investe ovunque settori di opinione pubblica liberale e progressista che convergono sulle posizioni della destra xenofoba in nome di valori che sentono minacciati da identità altrui ritenute regressive. Come quei pezzi di movimento femminista o Lgbt che imputano a taluni gruppi di immigrati chiusure sessiste. Insomma, il discorso della sinistra  sull’immigrazione deve tenere conto non solo della sicurezza ma anche dei crescenti timori per la coesione culturale. La sfida si gioca su questo duplice piano.

l’espresso 23.9.18
Cultura Thomas Mann un secolo dopo
Il fuoco delle idee. Peggiori
Uno scrittore sulle tracce di “Considerazioni di un impolitico” del grande autore tedesco. E delle sue parole: identitarismo, nazionalismo, sovranismo. Che oggi infiammano l’Europa
di Paolo Di Paolo


Ho suonato a un campanello, civico 4 della Mengstrasse, Lubecca, Germania. Nessuno mi ha aperto: avrebbe dovuto farlo il ginnasiale solitario che disprezza la scuola e già ascolta Wagner.

Ho aspettato, nel quartiere di Schwabing, a Monaco, che da un caffè affollato di universitari sbucasse anche lui, nella luce arancio del tramonto, con la borsa in cui sono stipati i libri di studio, i taccuini con gli abbozzi dei primi racconti, il copione teatrale dell’Anatra selvatica di Ibsen (lui interpreterà il ruolo di Gregor, lo pseudoidealista). A Roma ho cercato il civico 34 in via di Torre Argentina, ho alzato gli occhi verso il terzo piano, sperando di vederlo - ventiduenne - affacciarsi alla finestra, staccandosi per qualche minuto dal romanzo a cui lavora e che ha deciso di intitolare “I Buddenbrook”. L’ho cercato di nuovo per le strade di Monaco, in un pomeriggio di primavera che pareva proprio quello descritto nelle pagine di un suo racconto: «Monaco splendeva», scrive. Luccicava. «Sopra alle piazze festose e ai bianchi colonnati dei templi, sui monumenti neoclassici e sulle chiese barocche, sulle fontane zampillanti, sui palazzi e sui gradini della Residenza si stendeva radioso un cielo di seta turchina». Cielo insolitamente azzurro, in effetti. Su un treno per Dresda avrei potuto ritrovarlo compagno di scompartimento, ma non era un diretto notturno, e forse questo è stato l’errore. Alla grande casa bianca di Poschingerstrasse 1 mi sono avvicinato guardingo, intimidito: è la maestosa arca familiare in cui nasce “La montagna incantata”; oggi quartiere residenziale upper class, biciclette, Suv, jogging, e il rumore della città lontano. L’ho cercato ancora a Zurigo - un pomeriggio d’inverno, verso le tre, molto freddo, una folla di gabbiani invadeva una sponda urbana della Limmat. Un ometto cupo e vagamente inquietante mi ha accolto nelle stanze dell’Archivio - ed è là, fra i libri, le carte, le teche, quel senso di vita raggelata, proprio davanti al calco della sua testa, che sono stato raggiunto da una domanda feroce. Questa: come nascono le nostre idee peggiori? Da quale “io” vengono fuori? Il ginnasiale di Lubecca e il vecchio riparato a Zurigo - prima per mettersi al sicuro, poi per morire - sono innocenti, rispetto al quarantenne che cent’anni fa esatti, fra la primavera e l’estate del 1918, concludeva il suo saggio “mostruoso”, il suo libro più inquietante? Appassionato agli scrittori, agli artisti, alle loro vite, quasi a ogni viaggio trovo occasione per infilarmi in qualche casa-museo, per fotografare targhe, ricostruire itinerari. Feticismo? Bah. Mi guida, piuttosto, il sentimento esasperato di quello strano impasto di tutto che è la vita - avere un corpo che cresce, che invecchia, avere preoccupazioni, desideri, e una scrivania che trasloca con te, scrivere libri, fumare, mangiare, dormire. Pensare. Partorire idee. Come funziona? Geniali, scialbe, decisive, superflue, crudeli, penose. Tempeste neuronali che si scatenano senza preavviso. Talvolta lasciano tracce, talvolta si disperdono. Talvolta diventano libri. Se in questi mesi ho così ossessivamente inseguito i diversi inquilini che rispondono, decennio dopo decennio, casa per casa, al nome Thomas Mann, è stato anche per fare i conti con il saggio mostruoso. Le cinquecento pagine di “Considerazioni di un impolitico” arrivarono in libreria all’inizio dell’autunno del 1918. In Italia furono tradotte per la prima volta soltanto mezzo se
colo fa. Hanno l’aria, a leggerle oggi, di un lunghissimo, interminabile, per tratti anche insopportabile, sproloquio. Un monologo-fiume, contorto, esagitato che, sul finire della Grande Guerra, dà a Mann la possibilità di chiarire, senza che riesca a farlo fino in fondo, la posizione ideologica nei confronti del proprio Paese. Ha già scritto la grande saga familiare dei “Buddenbrook”. Ha già scritto quel malinconico e sensuale autoritratto dell’artista da giovane che è “Tonio Kröger”; ha scritto la piccola, estenuata, torbida, bellissima dichiarazione d’amore che è “Morte a Venezia”. Sta lavorando alla “Montagna incantata” e si interrompe, come preso da un demone. Parla di diritto al dominio, di militarismo come eroismo. Di auto-affermazione in senso nazionale di un popolo - il popolo tedesco - il cui carattere «è il congegno morale più esatto che sia mai esistito», un popolo «fatto per dominare, sagomato, duro, pregno del proprio io». Scrive cose così. Cose come: «Via dunque lo slogan “democratico”, straniero e ripugnante!». Scrive decine di migliaia di parole, fa lo slalom fra centinaia di citazioni, impugna Dostoevskij, sida Tolstoj, chiama in causa la trinità Wagner-Nietzsche-Schopenhauer, discute Goethe, prende a spintoni il suo contemporaneo pacifista Romain Rolland. Se ne esce con espressioni come «germanesimo superiore», evoca (o invoca) «la volontà della Germania di imporsi al mondo». Sostiene che la Francia è femmina la Germania è maschio. Mette in discussione i princìpi della democrazia e il suffragio universale indiscriminato. Aiuto! «Ascoltando», scrive ancora, «il suono di questa singolarmente organica, spontanea e poetica congiunzione di parole, “popolo tedesco”, vien fatto di sentire e immaginare qualcosa che è del tutto diverso, e non solo sul piano nazionale, qualcosa di più buono, di più alto e di più puro, di più sacro insomma, di quando si ascoltano le espressioni “popolo inglese” o “popolo francese”. “Popolo”, “Volk”, è veramente un suono sacrosanto; ma non è forse solo quando è accompagnato alla parola “tedesco” che serba ancora vivo il valore?». Nell’ottobre del ’17 ferma su carta l’entusiasmo per il fatto che «Gorizia è tornata in nostre mani»: «Che balsamo, le notizie di questi giorni! Che senso di liberazione, di riscatto, di conforto produce la “forza”, l’azione limpida e maestosa delle armi». Trovo impressionante, affascinante - ed è un fascino ambiguo e macabro - contemplare lo sviluppo di questo ragionare storto, una somma di pensieri che la Storia pervertirà, applicandone la parte più marcia, pericolosa, sanguinosa. A Mann stesso toccherà ammettere - senza mai rinnegare del tutto le sue Considerazioni - di essere stato “scippato” dai nazisti nell’idea romantica del “Terzo Regno”. Quegli stessi nazisti che lo costringeranno a vagare fuori dalla Germania per decenni (lascia la patria nel ’33, non rientrerà più). Le sue posizioni, di lì a poco, si stempereranno in un perplesso ma democratico europeismo. Le critiche al nazismo, da molti giudicate comunque tardive, diventeranno esplicite nel 1936. Ma diciotto anni prima, Mann non calcola i rischi, non vede nubi all’orizzonte, o non vede quelle effettive, grida a pieni polmoni le sue considerazioni - impolitiche, come le chiama lui, sommamente reazionarie, per certi versi tossiche. Non è bastato suonare a quei campanelli per capire qualcosa in più, per spiegarmi come gli umani sviluppano un pensiero, un sentimento, una visione del mondo. Come la nutrono, la allevano, la tengono viva anche contro se stessi, o contro l’evidenza. Come si lasciano avvolgere, anche ottundere, dalle certezze che credono di avere conquistato. Volevo - forse ingenuamente - sorprendere l’istante in cui dal ginnasiale wagneriano diventato universitario e poeta, diventato autore di un grande romanzo sul declino del secolo decimonono e della borghesia mitteleuropea, da quell’essere umano rispondente al nome Thomas Mann, spiccò a metà della sua vita la scintilla di un’intuizione tutto fuorché innocente, e il desiderio, la smania di alimentarla sino a farne un fuoco. È passato un secolo esatto. Il dibattito internazionale si scalda intorno a parole come identitarismo, sovranismo, nazionalismo. Non le avevamo archiviate? No. Passato il peggiore degli incendi, c’è già al lavoro il piromane di domani.

l’espresso 23.9.18 Impolitico è l’uomo senza più utopie
di Roberto Esposito

Cosa vuol dire “impolitico”? Qual è il significato di questo termine - al di là di quello datogli da Thomas Mann nelle sue “Considerazioni”? Per rispondere a questa domanda bisogna prima di tutto distinguerlo dai due concetti cui viene erroneamente assimilato - l’antipolitico e l’apolitico. Quanto all’antipolitica è lo stesso Mann a situarla nell’orizzonte politico che essa vuole contrastare: «L’antipolitica è anch’essa una politica, giacché la politica è una forza terribile; basta solo sapere che esiste e già ci si è dentro, si è perduta per sempre la propria innocenza». Nel momento stesso in cui si oppone alla politica, facendone il proprio bersaglio, l’antipolitica parla il suo stesso linguaggio, non è che una forma mascherata di politica. L’elezione di Trump ne costituisce un esempio perfetto. Ma anche in Italia ne abbiamo avuto esperienza diretta Il caso più eclatante è quello dei 5 Stelle. Che hanno costruito il proprio successo politico indossando in da subito le vesti dell’antipolitica. Ciò vale, in generale, per tutti i populismi, arrivati al potere contestando ogni politica - tranne naturalmente la propria. Ma l’impolitico è diverso anche dall’atteggiamento apolitico. Perché anche questo, pur astenendosi dalla partecipazione alla cosa pubblica, ha sempre un effetto politico. Come accade per l’astensione. Chi si astiene - e sono sempre più a farlo nelle democrazie occidentali - rafforza politicamente una parte di coloro che intendono delegittimare. Come è noto, in America non vota più del 50 per cento degli aventi diritto - ma ciò gioca oggettivamente a favore di uno dei due candidati alla Presidenza. Nei paesi come la Francia, in cui è previsto il ballottaggio, si va al potere con una percentuale ancora minore. In questo senso l’esercito degli astensionisti - che non considerano degno nessun partito del proprio voto - costituisce di fatto un vero partito. Spesso il maggiore sul piano numerico. In questo senso dichiararsi apolitici perde di significato, perché comunque, anche se la si rifiuta, si sta all’interno della dialettica politica. Se l’antipolitica è una forma di politica attiva, speculare alla politica avversata, l’apolitica è una politica passiva, ma non meno rilevante sul piano delle conseguenze nella formazione dei governi e dunque nella distribuzione del potere. Ben diverso il punto di vista dell’impolitico, come si è andato configurando nell’opera di alcuni autori “eretici” del Novecento. Nessuno di loro intende contrapporre alla politica un valore etico o estetico, come aveva invece fatto Mann. E come pretendono di fare gli antipolitici e gli apolitici ogni volta che attaccano la politica. Al contrario gli impolitici ritengono che la politica - il conflitto di interesse e di potere - riempia l’intera realtà. In questo senso il punto di vista dell’impolitico coincide con il realismo politico, con cui condivide la consapevolezza che “la politica è il destino”. Non solo, ma un destino segnato dalla presenza inevitabile del male. Che si può contenere, limitare, ma con cui è necessario convivere. «Anche i primi cristiani», scrive Max Weber in “Politik als Beruf”, «sapevano perfettamente che il mondo è governato da demoni e che chi s’immischia nella politica, ossia si serve della potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche». Ciò non vuol dire che si debba idolatrarle, rivestirle di un valore che non hanno. Tra politica e valore vi è un solco incolmabile Il Bene non è traducibile in politica, come la Giustizia non può mai incarnarsi perfettamente nel diritto. Solo l’ignoranza diffusissima del significato sia della Giustizia che del diritto può indurre a sovrapporli. Il compito dell’impolitico è custodire il senso tragico di questa distinzione. Assumere la realtà per quella che è non vuol dire inchinarsi a essa. Al contrario solo la consapevolezza della sua ineluttabilità, può delineare, ai suoi margini esterni, il profilo di un’altra dimensione non sua prigioniera: «Su questa terra», afferma Simone Weil, «non c’è altra forza che la forza. Questo potrebbe essere un assioma. In quanto alla forza che non è di questa terra, il contatto con essa si paga solo al transito di qualcosa che assomiglia alla morte». Questo qualcosa è appunto la Giustizia, la cui realizzazione è sbandierata ai quattro venti dai professionisti dell’antipolitica. Al contrario l’impolitico è lontano da ogni utopia. Ma anche dal cinismo di chi contrabbanda il proprio interesse per il bene generale. Egli, dalla sua posizione defilata, testimonia la contraddizione drammatica tra l’aspirazione al Bene e l’impossibilità di realizzarlo politicamente. Mai, come ben sapeva Weber, l’etica della convinzione - che si attiene ai puri principi - e l’etica della responsabilità, che tiene conto delle conseguenze dell’azione, possono coincidere. Anche se chi è “chiamato” alla politica deve cercare di accostarle quanto è possibile. A questa eterna tensione tra finito e infinito è destinato l’impolitico. Ma cosa importa di tutto ciò Simone Weil e Max Weber ai nostri politici?


l’espresso 23.9.18
Cultura Mondo arabo A Beirut l’arte è donna
di Alessandra Mammì
Grandi mostre. Ricche collezioni. E giovani curatrici. La formula della città. Per rinascere dalla guerra


Una cosa abbiamo in comune, noi libanesi e voi italiani: il rapporto con il passato. Ma il vostro è uno sguardo lontano e contemplativo, il nostro punta su un passato molto più vicino e tormentato». È Zeina Arida che parla. Giovane e brillante direttrice del Sursock Museum: il luogo dove Beirut raccoglie e celebra l’arte del suo presente e del passato recente. Parla Zeina, riferendosi alla mostra che a pochi passi dal Sursock ha presentato opere dalle collezioni del MaXXI, partite da Roma e arrivate a Beirut per approdare in un luogo speciale abitato da una straordinaria collezione di mosaici romani. Si chiama Villa Audi, fu costruita da architetti italiani nei primi anni Venti dello scorso secolo, come abitazione di un ricco banchiere e mecenate. Ora è proprietà della banca e museo di charme, aperto al pubblico. Un esempio delle molte case con giardino che punteggiavano questa zona di Beirut prima che la lunga guerra civile (1975 -1990) e i successivi conflitti con Israele distruggessero una delle più belle città del Medio Oriente. Dalle ceneri sta risorgendo una nuova metropoli, affollata di cantieri, palazzoni, speculazioni che ingoiano gli spazi comuni, rendono sottili i marciapiedi, mangiano le strade, fanno impazzire il traffico e vibrar di rumori la città tutta. Ma non nelle placide sale di Villa Audi dove grazie alle fatiche del nostro Istituto di Cultura e del suo direttore Edoardo Crisafulli sono approdate opere che sotto la curatela di Bartolomeo Pietromarchi, appaiono perfette nel gestire in solitario e complice colloquio la calma eterna degli antichi mosaici: Enzo Cucchi, Remo Salvadori, Flavio Favelli, Bruna Esposito, Pietro Rufo, Luigi Ontani, De Dominicis, il giovane Salvatore Arancio, l’enigmatica Liliana Moro. Ed è lì che la direttrice del Sursock si apre a queste considerazioni sull’arte nostra e loro. Le riprenderà il giorno dopo, quando la incontriamo nelle sale del suo museo, di fronte a uno stupendo trittico di Laure Ghorayeb artista, giornalista, poeta nonché autrice di un intricato reticolo di segni e disegni che fondono calligrafia araba, fumetto occidentale, foto d’archivio, frammenti di giornale, pezzetti di carta trovati. «È la sua vita», ci dice parlando di questa intellettuale eclettica e generosa madre di Mazen Kerbaj, artista e fumettista altrettanto amato e come lei militante e impegnato ma anche madre di un ritratto del Libano, un modo visivo di raccontare, di conservare una memoria, di trattenere i ricordi privati insieme alla cronaca e alla storia. Laure non è l’unica. Questo bisogno di conservare quel che la guerra civile ha distrutto è un sentimento comune a molti artisti, e ha segnato la mia generazione che nel conflitto è cresciuta». Parole di Zeina, curatrice di formazione internazionale, nata a Beirut nel 1970 che ha affrontato il trauma anche professionalmente quando di ritorno da Parigi con laurea alla Sorbona, fonda dirige l’Arab Image Foundation: istituzione no proit nata nel 1997 per raccogliere fotografie e archivi sul Libano e su tutto il mondo arabo e la sua diaspora. Oggi la sede dell’Arab Image Foundation è al quarto piano di un anonimo condominio dal portone metallico a due passi da Gemmayzeh, strada e quartiere della Beirut giovane e intellettuale, piena di localini, gallerie, movida notturna. L’attuale direttore, Marc Mouarkech, racconta come l’archivio abbia ormai raggiunto i 600 mila pezzi dalla metà dell’ Ottocento ad oggi, come tutto questo sia on line in un data base accessibile ad artisti, registi, filmaker, mentre molte sono le collaborazioni con musei e gallerie di tutto il mondo (arabo soprattutto). Del resto basta visitare il sito (www.fai.org.lb/ home.aspx ) per rendersi conto della ricchezza di attività e di proposte di questa memoria pulsante e produttiva. È da lì che arrivano libri d’artista raffinatissimi come quelli di Akrmaam Zaatari e altri che partirono da questo collettivo coraggioso per raggiungere poi biennali, musei e fama internazionale. Primo fra tutti Walid Raad con il suo “Atlas Group Archive”, un progetto di archivio immaginario che ha conquistato il Moma e il Guggenheim e che mescola come nelle “chansons de geste” il vero e l’immaginato, il materiale di recupero e le storie narrate, il documentaristico e l’artistico. È la ricerca del tempo perduto di un’intera nazione che affida all’arte e alle sue menti più creative il compito di esorcizzare un incubo. «In una città distrutta il problema per i cittadini è la perdita degli oggetti e dei punti di riferimento», scrive Moroun el Daccache, architetto e storico nel bel catalogo “Home Beirut” pubblicato dal MaXXI in occasione della mostra dedicata alla capitale libanese. «Ma ricostruire l’esatta immagine della città prima della guerra significa cancellare un episodio di storia perché anche la distruzione può diventare un momento di riflessione e autocritica». È in questo spazio di domanda che s’inserisce il lavoro degli artisti e la continua sperimentazione di nuovi metodi. Molti affidati al video, ai film, al documento fotografico, ma anche al segno, al disegno alla scrittura. Negli immensi spazi ex industriali della galleria SfeirSemler, ad esempio, è in scena la mostra di Rayyaane Tabet. Anche il giovane Tabet punta a una ricostruzione della memoria personale intrecciata alla storia del suo paese. Ma la messa in scena è qui potente, spettacolare, eclettica e monumentale. Il passaggio di scala dai trucioli di giornale di Laure Ghorayeb alle grandi dimensioni dei ready made, sculture e installazioni di Tabet si riflette anche nella crescita e ristrutturazione dei nuovi spazi della città. A cominciare dal Sursock Museum che ha riaperto tre anni fa ampliato, rinnovato e provvisto di immenso auditorium, sala di lettura, biblioteca e servizi al pubblico, mentre è già annunciato il trasferimento in nuova e più ampia sede di un’altra fondamentale istituzione: il Beirut Art Center diretto da Marie Muracciole. Sotto la direzione di Marie il Bac è diventato il punto di confluenza di diverse discipline. Musica, danza, cinema, arti visive si alternano a incontri, dibattiti, conferenze dove sono ospitati sia giovani talenti locali che celebrati artisti internazionali: «Capisco quanto sia necessario elaborare il proprio lutto», ci dice: «Il nostro è un pubblico molto giovane che va dai 16 ai 30 anni e sono loro il futuro del Libano. Fare formazione è missione prioritaria». Quale sarà dunque lo scenario che si apre per gli artisti millennial, in un paese che lotta tra speculazione e ricostruzione e in una città che vede crescere gallerie oltre i mille metri quadri, musei privati, fiere e collezioni international style? Una per tutte: la Ashti Foundation. Ediicio tutto tegole di ceramica porpora intrecciate come un ricamo a bordo mare. Gloria di David Adjaye il famoso e visionario architetto anglo ghanese. È il polo del lusso beiruttino dove spa e ristoranti stellati si alternano a Balenciaga e Burberry’s. E dove, tra un corner Prada e l’altro Gucci, si apre l’accesso alla collezione: cinque piani e quattromila metri quadri di esposizione dei contemporanei tesori di Tony Salamè, tycoon del lusso libanese che ha qui il suo trionfo tra opere/artisti tra i più cari al mondo scelti e consigliati da Massimiliano Gioni. C’è Murillo e Cindy Sherman Carsten Holler e Armleder, e Matt Mullican e Goshka Macuga... Siamo nell’Olimpo globale, molto lontani dall’impegno dei ragazzi degli anni Novanta e anche dalle problematiche che attraversano i loro lavori. Non è neppure quel che intende la Muracciole o Christine Tohmè, fondatrice dell’Ashkal Aiwan, organizzazione no profit che dal 1994 sostiene e promuove la più radicale ricerca degli artisti libanesi in patria e all’estero. E poi la presidente Christiane J. Audi che ha ospitato le opere italiane nel suo piccolo tempio di vestigia romane o la militante Zeina Arida, direttrice del museo storico. E sono a loro modo militanti anche le galleriste più potenti e influenti: dalla volitiva Andree Sfeir-Semler che si divide tra Beirut e la casa madre ad Amburgo per esportare e importare opere e pensieri che uniscano Europa e mondo arabo o la decana Janine Rubeiz, ino alla più giovane Jumana Asseily che ha aperto la sua Marfa’ Projects nella zona del porto. Donne e ancora donne. Come spiega tutto questo potere in mani femminili? Sorridendo risponde la direttrice del Sursock: « Forse perché in questo caso si tratta di conservare ed educare. Il potere vero, quello politico, economico e militare, potete starne sicuri: è tutto nelle mani degli uomini».



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