Repubblica 21.9.18
Rebibbia, errori e lacune i bimbi uccisi dalla madre potevano essere salvati
di Federica Angeli Maria Elena Vincenzi,
Roma
A tre giorni dalla tragedia che si è consumata nella sezione nido del
carcere romano di Rebibbia cominciano a delinearsi i contorni di una
vicenda composta da una catena infinita di "e se". Anello dopo anello si
comprende meglio che se Alice Sebesta, la donna tedesca di 33 anni che
ha ucciso la figlia di 7 mesi e il primogenito di 2 anni gettandoli
dalle scale, avesse avuto una residenza, se si fossero rispettati i
dettami della legge 62/2011, se il gip non avesse negato le istanze del
suo difensore e se qualcuno non avesse ignorato due segnalazioni sulle
sue condizioni mentali, oggi forse quei due piccoli innocenti sarebbero
ancora in vita. E non si tratta di ragionare col senno di poi. Ma solo
di capire l’epilogo di una vicenda a partire dalle sue innegabili
contraddizioni che, al momento, hanno portato alla sospensione di
direttrice, vicedirettrice e vicedirigente della penitenziaria di
Rebibbia.
Il carcere dopo l’arresto
Il 26 agosto Alice viene
arrestata dai carabinieri della compagnia Roma Centro. Era vicino alla
stazione Termini in un’auto insieme a due nigeriani e ai suoi due figli.
Passava per Roma e aveva con sé 10 chili di marijuana. Quando i
militari l’hanno fermata ha dichiarato che quella droga era tutta sua.
Il gip in 24 ore convalida l’arresto per detenzione ai fini di spaccio
di sostanze stupefacenti. E qui si consuma la prima " violazione". La
donna è di passaggio nella capitale, è domiciliata in Germania e a Roma
non ha un casa. Motivo per cui — a differenza di quanto previsto
dall’articolo 146 del codice penale — malgrado Alice abbia due bambini e
malgrado il suo avvocato chieda l’obbligo di firma, il giudice
stabilisce che debba andare in carcere.
Il domicilio negato
La
donna arriva a Rebibbia il 28 agosto, nella "sezione nido". Il suo
difensore, Andrea Palmiero, presenta il 4 settembre istanza di
scarcerazione trovandole un domicilio in cui la donna possa scontare la
detenzione preventiva. Alice è anche incensurata. Tre giorni dopo il gip
rigetta la richiesta. Nella motivazione scrive che non vi era nessun
elemento nuovo per permettere alla madre di tornare libera. Trascurando
che in quella istanza veniva fornito un indirizzo, che Alice aveva un
casa dove andare con i suoi bambini. E che quello era il motivo per cui,
di fatto, era finita dentro.
La struttura inadeguata
E così
Alice e i suoi due figli minorenni rimangono a Rebibbia, anche se la
legge 62 del 2011 è al riguardo chiara. La donna avrebbe dovuto, nelle
sue condizioni giudiziarie e in quanto mamma, abitare in una struttura
fuori dal carcere, in un Icam ( istituto a custodia attenuata per
detenuti madri), ossia il livello intermedio tra la sezione nido del
carcere ( riservata per legge a mafiose e terroriste) e la casa protetta
( per reati minori). L’I-cam però a Roma non c’è, dunque per Alice
Sebesta si è scelta la soluzione Rebibbia, quella più dura.
Gli allarmi ignorati
«La
detenuta era stata più volte segnalata per alcuni comportamenti,
sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due
piccoli» e il personale in servizio presso il carcere aveva segnalato «
la necessità di accertamenti anche di tipo psichiatrico». A scriverlo è
il capo del Dap, Francesco Basentini. Al momento del suo arrivo, Alice
ha un colloquio con la psicologa che lavora in carcere: la dottoressa
non ravvisa niente di particolare. Ad accorgersi di piccole note stonate
nel comportamento della donna sono le agenti penitenziarie. Che in due
segnalazioni, indirizzate ai vertici del penitenziario, raccontano due
episodi. Il primo parla di un atteggiamento " strano" rispetto al
nutrimento del neonato. La donna, che allatta ancora, usa il tiralatte
ed è lei stessa a berlo invece di darlo alla piccola. La seconda viene
redatta il giorno prima della tragedia. Questo secondo scritto segnala
la presenza di un ematoma sulla fronte della bimba di 7 mesi. « Di
natura incidentale » , è la dicitura scritta. Ma non si spiega come né
dove la neonata abbia sbattuto. Nessuno ha visto il momento dell’urto o
della caduta. La donna ora è sedata nel reparto protetto di psichiatria
del Pertini. Ieri continuava a ripetere di avere «liberato i suoi
piccoli » . A dire che « Divine era infelice. Che stava male. Che gli
rubavano i giochi e che non sopportava quella assordante ninna nanna per
neonati».