Repubblica 20.9.18
La separazione consensuale
di Roberto Esposito
Di
fronte all’implosione annunciata, e di fatto avviata, del Pd,
l’editoriale scritto domenica da Eugenio Scalfari contiene un’ipotesi da
prendere in seria considerazione. Verificata l’impossibilità di unire
le due anime del partito, procedere a una separazione consensuale tra
due organismi politici distinti, ma potenzialmente alleati. Da un lato
un polo socialdemocratico, spostato più a sinistra dell’attuale Pd, in
grado di interloquire con i segmenti della sinistra radicale; e
dall’altro un polo liberal- repubblicano, capace di attrarre un voto
moderato, ma refrattario alle politiche xenofobe e illiberali della
Lega. Forse Scalfari è troppo ottimista sulle percentuali che assegna ad
entrambi, ma il suo ragionamento non fa una piega.
Al netto degli
errori, degli egoismi e delle gaffe dei dirigenti del Pd, il nodo di
fondo, ormai insolubile, resta la divaricazione tra due concezioni della
sinistra, simbolicamente riconducibili a due leader inglesi. Quella
inaugurata negli anni Ottanta da Tony Blair e seguita da altri, pur con
esiti non esaltanti. E quella riproposta oggi da Geremy Corbyn, con un
certo successo, ma non tale da portarlo al governo. Nel Pd, al di là dei
rancori personali, è questa l’alternativa che taglia il partito in due.
E
allora? Che il prossimo congresso metta fine allo scontro, portando gli
sconfitti a collaborare con i vincitori appare francamente
irrealistico. Qualunque parte prevalga. Se sconfitti, i renziani
finirebbero per lasciare il Pd. Ma neanche la sinistra interna
deporrebbe mai le armi, se prevalessero gli altri. La via da seguire è
quella di prendere atto delle cose, abbandonando il progetto,
impraticabile, di incorporare la futura minoranza. E di accettare una
divisione dei ruoli nel centro- sinistra che tenga in vita entrambi i
progetti. Dividersi non significa necessariamente spezzare ogni filo.
Perché tra " socialisti" e " repubblicani", anche divisi, resta qualcosa
che in politica è fondamentale: l’avversario comune, costituito dalla
destra al governo. Immaginare di dividerla, per poi allearsi con un suo
pezzo oggi è fuori dalla realtà. Non solo perché Lega e Movimento 5
Stelle dichiarano che non si separeranno, e c’è da crederci, visto
l’interesse che li unisce. Ma perché condividono lo stesso lessico
politico.
Non resta che distinguersi a sinistra, senza escludere
la successiva alleanza. L’alleanza, in politica, è necessaria quanto il
conflitto. Oggi quello che è merce sempre più rara a sinistra è una
strategia intelligente.
Naturalmente la strategia va riempita di
contenuti e obiettivi, diversi ma non contrastanti. Il polo socialista
deve spingere assai più a fondo sul pedale della politica sociale.
Lavorando sul territorio, dovunque ci sia sofferenza. Non solo nelle
periferie, ma anche al centro del mercato del lavoro, dove sono sempre
più i disoccupati, gli sfruttati, i ricattati dalla nuova gig economy.
Bisogna
rovesciare radicalmente la logica orizzontale della flat tax in una
tassazione progressiva che arrivi a intaccare i profitti finanziari e le
rendite accumulate.
Dall’altra parte il polo repubblicano deve
impegnarsi sia nella difesa intransigente dei diritti civili sia in una
politica europea forte e realistica. Il futuro nostro e delle nuove
generazioni dipende dal radicamento dell’Italia in un’Europa unita. E
dal ruolo che saprà giocare in essa a fianco delle democrazie
occidentali.
Il contrario di quanto pensa Salvini. Ma sapendo che
Europa politica non può significare omologazione in un unico soggetto
indifferenziato. Gli Stati Uniti d’Europa restano all’orizzonte come
punto limite.
Ma l’unica Europa possibile è oggi un’Europa ad
altro tasso di federalismo, capace di bilanciare nuovi poteri centrali
con la salvaguardia delle differenze nazionali che da secoli la
caratterizzano.