Corriere 20.9.18
Lotta e governo l’altalena politica dei 5 Stelle
di Massimo Franco
È
lontano anni luce, il Luigi Di Maio che sfoggiava moderazione e dava
rassicurazioni sui propri cromosomi europeisti. Peccato. In cento giorni
al governo, il vicepremier e ministro del Movimento Cinque Stelle ha
assunto con frequenza crescente i toni capricciosi di chi pretende di
modellare la realtà sulle proprie promesse elettorali: anche se si
tratta di impegni che fanno a pugni con la realtà dei conti economici.
L’attacco frontale a Giovanni Tria lascia affiorare una miscela di
impazienza e di arroganza, che vela un’insicurezza di fondo. Il timore
di Di Maio non riguarda le possibili reazioni dell’Unione europea e dei
mercati finanziari di fronte a una legge di bilancio gonfiata da spese
in deficit.
L’unica preoccupazione sembra quella di difendersi dal
suo Movimento: da quei settori che disapprovano il contratto con Matteo
Salvini; che chiedono di battere cassa, costi quello che costi; e che
mal digeriscono il «governismo» del prescelto di Beppe Grillo e Davide
Casaleggio. La metamorfosi ha dunque una spiegazione soprattutto interna
alle dinamiche dei Cinque Stelle. Dopo avere contribuito in modo
decisivo al successo del 4 marzo, è come se il vicepremier e l’intero
vertice non avessero ancora chiarito a se stessi se quel risultato è
stato frutto di un profilo ambiguamente moderato, o del solito
estremismo. Eppure, Di Maio è stato «programmato» e indicato come leader
per governare: non importa se con Lega o Pd.
Q uesto spiega la
reazione scomposta che ebbe nelle ore decisive della formazione di un
governo. Quando sembrò che il tentativo dovesse naufragare, non esitò a
chiedere un lunare impeachment del Capo dello Stato, Sergio Mattarella:
salvo poi rimangiarselo, sostenendo che Salvini «non è un cuor di leone»
e dunque non c’erano i numeri per chiederlo. Ecco, l’attacco a Tria, la
pretesa che il ministro dell’Economia «trovi i soldi» per dare
credibilità alle promesse del M5S, somiglia a un secondo scivolone. La
ragione, a ben vedere, rimane la stessa: la tensione tra Di Maio e una
parte del suo Movimento; e dunque il tentativo affannoso di scaricare
sul governo i problemi di un grillismo a due facce.
D’altronde,
oggi per lui la situazione è peggiore che dopo il 4 marzo. Sebbene abbia
quasi il doppio dei voti raccolti allora dalla Lega, nei sondaggi il
M5S è considerato virtualmente superato. E soprattutto, l’agenda delle
priorità finora è stata imposta da Salvini: almeno sul piano di una
popolarità facile, costruita contro l’immigrazione. E più affiora il
timore di un sorpasso a favore del Carroccio, più riemergono ombre di
leadership alternativa a Di Maio, proiettate sulle Europee di maggio.
Gli strappi nascono da questa sensazione di assedio che il vicepremier
avverte, accentuando il suo nervosismo e togliendosi simbolicamente la
grisaglia ministeriale, per tornare a parole e atteggiamenti che stonano
con l’immagine costruita in precedenza.
Ma non si può attribuire
la responsabilità solo a lui. Da quando è stato formato il primo governo
dichiaratamente populista dell’Occidente europeo, M5S e Lega non hanno
fatto che inseguirsi come se il loro «contratto» avesse come vero nucleo
il prolungamento tacito della campagna elettorale. Entrambi giurano che
la compagine mediata dal premier Giuseppe Conte durerà per l’intera
legislatura. Eppure, sembrano i primi a non crederci. La fretta di
mostrare risultati tangibili ai loro elettori, o di farli apparire tali,
tradisce l’atteggiamento mentale di chi ritiene di avere poco e non
molto tempo a disposizione.
Altrimenti, sceglierebbero una
strategia quinquennale basata sul gradualismo, e su parole di verità al
Paese. I consensi alti dicono che l’opinione pubblica non ha cambiato
idea su di loro. M5S e Lega non hanno avversari in grado di insidiarli.
Per questo, usare il ministro Tria come capro espiatorio delle proprie
difficoltà è doppiamente suicida. Primo, il ministro dell’Economia è
l’uomo-simbolo della credibilità italiana sui mercati finanziari. E lo
sta diventando di più per l’aggressione politica che sta subendo.
Colpirlo significherebbe indebolire, se non affondare il governo
M5S-Lega.
Secondo, difficilmente un nuovo ministro potrebbe
seguire una politica economica diversa, più «popolare» e lassista sui
conti. Per rassicurare gli investitori, per paradosso si dovrebbe
scegliere qualcuno ancora più determinato a scontentare le richieste di
chi, nel Movimento, preme su Di Maio. Ormai dovrebbe essere chiaro che
il cuore strategico e delicato del governo non è né a Palazzo Chigi, né
nei ministeri dei vicepremier. Semmai, sorprende che Tria sia apparso un
po’ solo, nonostante la stima che Conte dice di nutrire per lui. La
protezione internazionale dell’Italia è affidata in prima linea alla sua
politica economica. Non capirlo significa mettere a rischio gli
equilibri creati faticosamente il 1° giugno scorso; e mostrarli più
precari di quanto siano .