giovedì 20 settembre 2018

La Stampa 20.9.18
Il pd e le radici di una crisi esistenziale
di Massimiliano Panarari


Indovina chi viene a cena? Un interrogativo presto risolto nel caso del Pd, dove di questo passo gli organizzatori rischiano di rimanere sempre più senza commensali-elettori. L’infelice e improvvido dibattito gastronomico-twittarolo su chi si sarebbe seduto a tavola a casa di Carlo Calenda (il quale, peraltro, non troppo tempo fa si era inventato la formula originale di un «populismo comunicativo d’establishment») restituisce assai plasticamente lo stato delle cose dentro il Partito democratico. Una sorta di caminetto e di «desco degli ottimati» proprio nell’era della sfiducia messa a frutto trionfalmente, per la prima volta in un Paese dell’Occidente, dal populsovranismo. I partiti-movimenti populisti proclamano la disintermediazione e, per tutta risposta, l’organizzazione politica erede di due votatissimi partiti popolari della Prima Repubblica si incarta nella discussione intorno a ciò che, nella percezione di una bella fetta di opinione pubblica, appare come l’idealtipo del salotto elitario.
E, dunque, per rilanciare una formazione politica in totale stato confusionale e sulla soglia del cupio dissolvi non saranno di sicuro sufficienti un rebranding e il cambio del nome che, in termini strettamente di marketing politico-elettorale, presenterebbero anche delle argomentazioni sensate, ma nel momento in cui vengono proposti dagli stessi vertici assumono un’immediata parvenza di gattopardismo. Le ragioni della batosta del Pd sono state indagate in queste settimane in lungo e in largo ma, a ben guardare, quello a cui stiamo assistendo - un esito molto pericoloso per la tenuta della democrazia liberalrappresentativa che necessita di un’opposizione politico-parlamentare autorevole - è un approdo per certi versi già scritto nelle cose. Ovvero, nella stessa genealogia e nel processo di formazione. I nodi che stanno ora arrivando al pettine erano contenuti già nelle origini del Pd, che non è mai stato un’organizzazione politica innovativa, ma è nato dall’associazione di culture politiche del passato. Certamente nobili eppure, al medesimo tempo, inadeguate ad affrontare l’agenda e le sfide poste dalla postmodernità (di cui, al contrario, i neopopulismi sono direttamente un prodotto). Così come otto-novecentesco, e alquanto sofferente, si è rivelato il paradigma organizzativo, costruito di fatto «in piccolo» sul glorioso partito di integrazione sociale di massa (quando l’età delle masse, però, era già ampiamente terminata). E, come se non bastasse, le subculture politiche confluite nel Pd venivano da una lunga storia conflittuale, e la loro aggregazione non ha mai dato vita a una vera fusione, col risultato che su alcune questioni di grande importanza - e decisive sotto il profilo del consenso elettorale - si sono generate una forma di paralisi e l’impossibilità di prendere posizione in modo chiaro e netto: problemi non imputabili quindi in via esclusiva ai personalismi dei leader e dei capicorrente, ma derivanti dal dna stesso di quel partito.
Di qui anche la debolezza dell’elaborazione politico-culturale in proprio, e il ricorso a prestiti, in primis la Terza via proveniente dal mondo anglosassone (riveduta e corretta un po’ approssimativamente, e per giunta senza leader carismatici come Clinton e Blair). Un innesto di light ideology (ideologia leggera), che ha ulteriormente rafforzato la vocazione autentica e la finalità primaria per cui il Pd è nato: l’essere un partito di sistema e di governo. E, difatti, ora che si ritrova estromesso dall’esecutivo e schiacciato sull’identificazione con l’establishment dalla nuova frattura simbolicamente totalizzante tra élite e popolo, si è avviluppato in una crisi esistenziale e identitaria che potrebbe anche essere senza ritorno. A meno di saper andare oltre se stesso, contribuendo a ricostruire i fondamentali del dibattito pubblico (con la promozione «di massa» della conoscenza e della competenza), e gettando le basi per un riformismo diffuso e per quello che l’«Economist» ha chiamato un liberalismo (progressista) popolare. Indubbiamente, un (troppo?) vasto programma.