giovedì 20 settembre 2018

Repubblica 20.9.18
Le mamme in cella: “I figli pagano per i nostri errori”
La tragedia di Rebibbia ha riportato l'attenzione sui bambini che vivono i loro primi anni nei penitenziari
Gonnella, presidente di Antigone: “Si deve investire in strutture di accoglienza che somiglino meno alle galere”
di Andrea Gualtieri


Cenerentola che balla col suo principe è una parentesi che dura pochi istanti. Lo scorcio di una favola dipinto sul muro di un luogo da incubo. Poco più in là, lungo il corridoio, ci sono le porte delle stanze. E sopra alle cullette in legno sistemate di fianco ad ogni letto singolo, gli occhi impattano sulle sbarre delle finestre, così si è costretti a ricordare che quello è sempre un carcere. Il 31 agosto c'erano 16 bambini rinchiusi con le loro mamme nella sezione nido di Rebibbia, un'ala della struttura femminile intitolata al ricordo di Leda Colombini, fondatrice dell'associazione "A Roma insieme" che si prende cura dei figli delle detenute. Divine e Faith erano arrivati proprio in quei giorni. Ieri sera nel carcere si è celebrata una lunga preghiera per loro. Hanno partecipato 350 donne. Erano sconvolte, alcune infuriate perché toccare i bambini, nella comunità del carcere, è un gesto che non viene digerito. Ma sullo sfondo c'è anche l'amarezza latente per il dramma dei piccoli innocenti che vivono i loro primi anni in un penitenziario. In tutta Italia sono 62: poco meno della metà sono figli di straniere. Si trovano in cella perché non esistono alternative familiari.
I racconti delle mamme, raccolti negli istituti, sembrano ricalcare un modello comune. "Noi abbiamo sbagliato, ma non è giusto che i nostri piccoli siano costretti a pagare", diceva tempo fa una donna originaria dell'Europa dell'est che ha vissuto a Rebibbia con la sua bimba neonata e poi è diventata la cuoca del nido. "Avere una puericultrice che li segue e i volontari che li portano fuori è già un sollievo, ma un bambino che cresce ha bisogno di libertà". In alcune carceri la situazione è ancora più critica. Nella struttura fiorentina di Sollicciano, ad esempio, il numero di mamme è molto basso e anche i servizi sono ridotti al minimo: l'asilo si limita a una stanzetta e spesso c'è un solo bambino che non ha occasione di socializzare, isolato insieme alla sua mamma. "D'altra parte qui dentro c'è gente che ha commesso crimini orrendi, non voglio che mio figlio stia a contatto con loro", afferma una donna condannata per furto.
La tragedia di Rebibbia ha fatto emergere questa porzione di vite dimenticate. "Ora però non si può strumentalizzare", ammonisce Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l'associazione che si occupa della condizione carceraria in Italia. "Il pericolo - spiega - è che si facciano passi indietro, che si pensi di strappare i figli alle madri. Invece si deve andare avanti, investire per realizzare strutture di accoglienza che somiglino meno alle galere, nelle quali la presenza degli operatori socio-sanitari sia prevalente rispetto a quella degli agenti penitenziari. E magari ambienti che riproducano quelli della vita comune, per evitare di traumatizzare i bambini".
Il modello esiste e tecnicamente si chiama Icam, istituto a custodia attenuata per detenute madri. In Italia ce ne sono cinque: a Torino, Milano, Venezia, Cagliari e Lauro, in provincia di Avellino. Quello piemontese, che è uno dei più grandi, ospita ad oggi 7 mamme con 9 bimbi. In teoria potrebbe accogliere i piccoli fino a tre anni, ma la prassi arriva a sei e in alcuni casi a dieci, se non c'è nessuno che possa farsi carico di loro. I volontari li portano negli asili all'esterno, una volta a settimana fanno escursioni. E dentro hanno un giardino con i giochi, gli agenti non indossano la divisa. E almeno non ci sono le sbarre a spezzare la favola di Cenerentola.