Repubblica 17.9.18
Il ragazzo morto per un selfie
Quel figlio senza rete
di Massimo Recalcati
In
questo caso, nel caso del quindicenne precipitato dal tetto di un
centro commerciale, non sembra esserci alcun determinismo evidente, né
psichico, né sociale: no droga, no indigenza economica, no cattiva
educazione, no genitori irresponsabili, no traumi, no isolamento, no
disturbi psichiatrici. Tutto nella norma. Un gruppo di giovani amici
dalle vite regolari sfida la morte. Potrebbe essere nostro figlio. È un
nostro figlio. Non conviene scandalizzarsi, non conviene pensare che non
toccherà mai a noi il dolore sordo che sta dilaniando i suoi familiari.
Certo, i suoi post che lo ritraggono sui tetti di condomini, a
penzoloni nel vuoto, sono inquietanti, ma radicalizzano, in realtà, una
inquietudine che si può facilmente provare di fronte al disagio di ogni
adolescente. Perché sfidare la morte, sfidare il pericolo, cercare il
brivido dell’impresa impossibile, immortalarsi eroe di fronte allo
sguardo dei social? Voler apparire senza paura di fronte alla morte, non
è una semplice deviazione psicopatologica della burrascosa transizione
adolescenziale, ma un’ombra che accompagna questo difficile passaggio
della vita. La spavalderia dell’adolescente, come recitava un bel libro
di Charmet, non è mai separabile dalla sua fragilità, anzi, spesso il
loro rapporto è inversamente proporzionale: più è avvertita una
fragilità di fondo più si incentivano comportamenti spavaldi.
L’impresa
che attende ogni adolescente è difficile: abitare un nuovo corpo,
trovare una nuova lingua, inventarsi un nuovo stile. Il sesso e la
morte, dormienti nell’età dell’infanzia, irrompono nell’adolescenza
sulla scena. Come abitare un corpo animato dalla pulsione sessuale? Come
sopportare l’angoscia dell’incontro con la nostra finitezza, con la
vulnerabilità della vita? Questioni decisive per ogni adolescente che
impongono innanzitutto il lutto dell’infanzia, la rinuncia alla sua
condizione narcisistica e l’esposizione all’avventura del mondo. Ogni
adolescente, come ricordava Rimbaud, si trova gettato in un esilio: deve
abbandonare i territori conosciuti e familiari dell’infanzia per
incamminarsi verso una terra straniera, verso lo splendore e l’orrore
del mondo. Abbiamo durante l’infanzia equipaggiato bene i nostri figli
per questo difficile ma necessario viaggio? L’esigenza di libertà che
essi devono avere il diritto di manifestare cozza contro la
preoccupazione per un mondo che sembra essere divenuto tanto ricco di
opportunità quanto insidioso. È stato notato da tempo e da molti autori
che la carenza di riti di passaggio collettivi, in un Occidente che
sponsorizza ciecamente il mito del successo e dell’affermazione
individuale, lascia i nostri figli a sé stessi. Devono inventarsi allora
queste ritualizzazioni simboliche assenti in prove di coraggio, in
prestazioni " mitiche", in esibizioni private che i social rendono
pubbliche. La cultura speculare del selfie, dell’immagine di sé,
sostenuta da una tecnologia che favorisce l’espandersi di un sentimento
artefatto di onnipotenza, insieme al declino generale del valore della
parola e della sua Legge, amplificano questa condizione di solitudine.
Se i dispositivi simbolici che accompagnavano l’adolescente al passaggio
verso la vita adulta si sono dissolti, resta l’atomizzazione
individualista dei legami. Ne sono un esempio limite i cosiddetti Neet o
gli ipponici Hikikomori, dove la sconnessione da ogni legame collettivo
assume la forma grave di una vera e propria regressione autistica. La
verità è che non possiamo evitare né le turbolenze dell’adolescenza, né i
suoi rischi, né, tanto meno, i suoi dolori. La verità è che non
possiamo garantire la felicità dei nostri figli. Possiamo solo vegliare
affinché esistano attorno a loro degli adulti che sappiano offrirsi come
destinatari della parola. È il ruolo cruciale giocato innanzitutto
dalla Scuola che quando è davvero buona favorisce la possibilità di
tradurre in parole la sofferenza e il disagio. Si dovrebbe sempre
ricordare l’importanza che nei momenti di maggior caos, di caduta, di
fallimento, di delusione vissuti dai nostri figli esistano adulti capaci
di dare e di ascoltare la loro parola. Non si tratta di sponsorizzare
la retorica del dialogo e dell’empatia, ma di insistere sull’importanza
di non lasciare cadere nel nulla i nostri figli. Di testimoniare che non
sono soli. Anche la spavalderia provocatoria può essere una forma di
invocazione.