Repubblica 15.9.18
Febbre gialla
La difficile trasformazione industriale
Frena l’economia cinese investimenti ai minimi
Il dilemma di Xi Jinping: più debito pubblico o tensioni sociali? I dazi di Trump mettono a dura prova il governo di Pechino
di Filippo Santelli
PECHINO
Accettare una frenata dell’economia, con il rischio di vedere crescere
le tensioni sociali? Oppure riaprire il rubinetto degli stimoli,
gonfiando ancora una bolla di debito già alla massima pressione? Non ha
soluzioni indolori il dilemma che Xi Jinping si trova di fronte. Il più
importante per chi basa il proprio potere sulla promessa di benessere.
Dopo vent’anni di corsa forsennata, la Cina ha messo in conto un
rallentamento: per il 2018 l’obiettivo di crescita è fissato al 6,5%,
due decimi in meno dello scorso anno. Mese dopo mese però la
decelerazione appare sempre più decisa, e quindi più esposta
all’offensiva tariffaria di Donald Trump. L’ultimo presagio nefasto,
ieri, è stato il dato sugli investimenti, pubblici e privati, vero
carburante della locomotiva. Tra gennaio e agosto sono cresciuti del
5,3%, cifra che farebbe invidia a qualsiasi altra economia, ma che qui
vale il minimo da un quarto di secolo.
Sulla carta è proprio
quello che Xi voleva. Il contenimento del rischio finanziario, con un
debito complessivo al 260% del Pil, è una delle tre battaglie
prioritarie del presidente eterno, insieme alle lotte contro povertà e
inquinamento. Gran parte di quell’esposizione è imboscata nei bilanci di
banche, imprese o enti locali, effetto di un decennio di politiche
espansive e ricerca matta e disperatissima dello sviluppo. Per questo
alla fine del 2016 la Cina ha lanciato una campagna di "deleveraging",
con l’idea di disintossicarsi dalla droga del denaro facile. Non certo
una decrescita, qui suonerebbe blasfemo, ma uno spostamento di risorse
dai settori maturi, come industria pesante e immobiliare, verso quelli
più produttivi e tecnologici.
Solo che la pulizia è un processo
doloroso, fatto di fabbriche da chiudere, investimenti persi e bond in
default, mai così alti come in questi mesi. Senza contare Trump, le cui
minacce ora stanno diventando dazi.
Ancora non si misurano effetti
sull’export cinese, la voce del Pil che continua a tirare di più, ma si
notano eccome sul clima di fiducia dentro la Cina: da due mesi le
vendite di automobili nel Paese registrano un inaudito segno meno,
mentre dall’inizio dell’anno la Borsa di Shanghai ha perso oltre il 20%,
ai minimi dal 2014. Così nelle ultime settimane il pendolo delle
politiche comuniste è tornato a oscillare decisamente dal lato
dell’espansione. La Banca centrale ha adottato delle misure per
incoraggiare gli istituti a fare credito, mentre il governo ha varato un
pacchetto di stimolo fiscale, sollecitando gli enti locali ad emettere
speciali bond per finanziare ferrovie e altre grandi infrastrutture.
Per
questo il brutto dato di ieri sugli investimenti ha sorpreso in
negativo, facendo passare in secondo piano quelli più incoraggianti su
consumi e produzione industriale. «La politica espansiva finora ha
fallito», scrivono gli analisti di Capital Economics, anche perché nel
frattempo sta proseguendo la stretta su altri settori, per esempio
l’immobiliare, creando una situazione contraddittoria. «Se gli
investimenti non riprendono a settembre il rischio per la crescita sarà
molto grande», dice Standard Chartered. E per evitare quella che allora
potrebbe davvero diventare una brusca frenata, Ing si aspetta che
Pechino prema ancora di più sull’acceleratore, iniettando risorse per
700 miliardi di dollari quest’anno e altrettanti il prossimo, stimolo di
fatto pari a quello varato all’indomani della grande crisi. Xi si
affida all’antica medicina, credito e infrastrutture, per guadagnare
tempo verso la grande transizione tecnologica. La stessa medicina da cui
la Cina è diventata dipendente.