il manifesto 15.9.18
Il Sessantotto che non si vede
L'intervento. A margine del movimento tante sono state le istanze di cambiamento
di Luigi Manconi
«La festa appena cominciata è già finita. / Il cielo non è più con noi». Sergio Endrigo, 1968
Nell’autunno
del 2017 ho fatto un fioretto: non parlerò mai del cinquantennale del
Sessantotto. Ciò per una elementare forma di verecondia e per un
residuale senso del limite, oltre che per una patologica insofferenza
verso il reducismo come categoria culturale e postura emotiva. Poi,
anche quello, come tutti i fioretti, si è rivelato assai difficile da
rispettare. Ho fatto ricorso, così, a un patetico stratagemma: e
parlerò, di conseguenza, del «loro Sessantotto», non del nostro e
tantomeno del mio. Infatti, la mia partecipazione ai movimenti degli
studenti della fine degli anni Sessanta non si distinse in alcun modo da
quella di tanti. Non merita, dunque, alcuna particolare e personale
memorialistica, dal momento che quella mia militanza si confuse con la
mobilitazione di un segmento significativo della generazione tra i 18 e i
25 anni. Un «segmento», ho scritto, e non «un’intera generazione» –
come usa dirsi e come una retorica irresistibile perpetua – perché
questo è il dato storico e statistico inconfutabile. Quello politico è
parzialmente diverso, dal momento che un movimento numericamente
minoritario ebbe la capacità, per le più diverse ragioni, di produrre
effetti (talvolta persino rilevanti) sull’opinione pubblica, sul senso
comune e su componenti assai ampie dell’organizzazione sociale: e su
quanti ne erano parte. È questo che chiamo il «loro Sessantotto». È
quanto mi è venuto in mente leggendo, su suggerimento di Nicola Lagioia,
un articolo molto bello pubblicato su Doppiozero.com. Qui, lo scrittore
Andrea Pomella parla del «Sessantotto di mia madre», come lei stessa lo
ha raccontato al figlio. La donna era un’operaia confettatrice in
un’industria farmaceutica: ovvero una delle addette alla «colorazione»
delle pastiglie tramite l’immersione di esse prima in acqua e zucchero e
poi nel colore.
CONFETTI
Questo il racconto: «Eravamo una
cinquantina di operaie, tutte donne. Ci avevano scelto sulla base di un
unico criterio: dovevamo essere vedove o nubili, lo stipendio che ci
passavano a fine mese doveva essere la nostra unica ragione di vita».
Ancora: «In fabbrica non c’era il sindacato, quando cinque di noi
presero la tessera della CGIL, ci licenziarono. Facemmo causa e la
vincemmo, il giudice ci reintegrò. Ma a quel punto ci rinchiusero tutte e
cinque in una stanza, lontano dai laboratori». Tutto ciò in quegli anni
tra la fine dei sessanta e l’inizio dei settanta: «Noi volevamo aderire
al Sessantotto ma incontravamo l’ostruzionismo delle più anziane che
temevano di perdere il lavoro. Una volta partecipammo a una
manifestazione a Roma, ci sentivamo come se ci avessero invitato a una
festa a cui mai avremmo immaginato di partecipare. Che il Sessantotto
fosse un anno eccezionale lo abbiamo capito dopo.» Quella donna, la
mamma di Andrea Pomella, non verrà mai considerata una militante del
sessantotto da alcun testo di sociologia o di storia contemporanea,
eppure si può dire che lo è stata, fino a rappresentarne l’anima più
autentica, pur se – vale la pena ribadirlo – in una posizione pressoché
isolata all’interno del proprio gruppo sociale. Ecco, in questa
relazione tra perifericità e innovazione, tra nuove forme di vita e
crescita della soggettività, si dipana un movimento sotterraneo che, pur
conservando la sua minorità, scava, contamina, si diffonde.
CHIESA
Un
tale processo fu capace di penetrare anche all’interno di
organizzazioni della società in apparenza le più refrattarie e le più
compatte, anche se, in realtà, già profondamente incrinate, come la
Chiesa cattolica. Mentre tutto questo accadeva, in un giorno di febbraio
di quell’anno, io mi trovavo nei locali della Segreteria degli studenti
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, quando squillò il
telefono. Era, così mi pare di ricordare, Gianni. Iscrittosi a filosofia
alla Cattolica qualche anno prima, era dovuto tornare precipitosamente
nel suo paese dell’Alta Murgia, in Puglia, per ragioni di salute o di
famiglia, non so. Cresciuto, come tanti di noi, in un ambiente di
rigorosa osservanza cattolica e trovatosi, all’improvviso, in una
difficile situazione economica, aveva accettato il primo lavoro
offertogli: sagrestano (o sacrestano, a seconda delle diverse aree
geografiche) in una delle tre chiese del paese. Col procedere degli
eventi che a partire dalla seconda metà del 1967 avevano mobilitato
molti atenei italiani (e non solo italiani), uno spirito di
contestazione – particolarmente di natura anti-autoritaria – aveva
lambito periferie geografiche e sociali, territori lontani e
organizzazioni irrigidite, corporazioni chiuse e rapporti obsoleti.
Magari solo superficialmente, ma li lambì. E, a ben vedere, il risultato
più duraturo e fertile di quei movimenti consistette propriamente nella
critica delle strutture gerarchiche – di tutte le strutture gerarchiche
– spesso ispirate a un autoritarismo non motivato in termini di logica e
di ragione. L’altro esito particolarmente significativo riguardò
l’innovazione negli stili di vita e nelle forme di relazione, nei
rapporti intra-familiari e in quelli tra le generazioni e i sessi. Non
c’è da stupirsi, quindi, del fatto che lo spirito antiautoritario
arrivasse fin dentro quella parrocchia di quel paesotto pugliese: e lì
trovasse Gianni pronto ad accoglierla, quella contestazione
anti-gerarchica, e a farla propria. In realtà, Gianni non era così
isolato e quando un altro sagrestano di un’altra chiesa dello stesso
paese gli sembrò condividere le stesse idee, il comitato di lotta dei
sagrestani d’Italia era già pronto a nascere. Gianni al telefono mi
lesse il Manifesto di fondazione e promise di informarmi dei successivi
sviluppi. E così, quando mi comunicò di aver trovato nella regione – e
persino aldilà della regione – una dozzina di colleghi «disponibili alla
lotta», io ne comunicai l’esistenza, l’attività e il probabile luminoso
futuro all’Assemblea Generale degli studenti della Cattolica. La
notizia fu accolta da un boato. La cosa non deve stupire: tra quegli
studenti ribelli, le radici cattoliche erano non solo robuste, ma anche
assai vitali; e alcuni tra i più colti dirigenti erano scout e, allo
stesso tempo, simpatizzavano per il Partito Socialista Italiano di Unità
Proletaria (Psiup). Poi, ahimè, per motivi che non so e sui quali non
indagai, Gianni non telefonò più. Passato qualche mese, provai a
mettermi in contatto con quel paese e con quella parrocchia, ma i miei
tentativi risultarono vani. E ignoro, di conseguenza, cosa sia accaduto a
quel piccolo embrione di un conflitto possibile all’interno della
struttura di base dell’organizzazione ecclesiale. Ma, da qualche parte,
ne sono fermamente convinto, esiste e resiste un volantino, traccia
inconsunta e inossidabile della breve vita di quel comitato di lotta dei
sagrestani rivoluzionari. Così come, nel giacimento cartaceo che,
contro la sua stessa volontà, si è accumulato nella casa di Lanfranco
Bolis a Pavia, rimangono reperti della mobilitazione che portò, oltre
alle più diverse e imprevedibili conseguenze, all’occupazione della
Cattedrale di Parma, nel settembre del 1968.
OCCUPAZIONE
Il
15 di quel mese, intorno alle cinque del pomeriggio, a Parma, un gruppo
di persone provenienti da varie città si unirono a numerosi studenti e
ai «cattolici del dissenso» (tra essi il cattolicissimo Francesco
Schianchi) e, insieme, entrarono nel duomo durante la messa. Innalzavano
un grande striscione con la scritta «cattedrale occupata» e chiedevano
di poter dibattere con il vescovo Francesco Rossolini intorno a temi
ecclesiali e sociali di attualità. Vogliamo, dicevano, che il Vangelo
sia rivolto ai poveri e non sia «finanziato dai ricchi». La
contestazione nasceva dal fatto che il vescovo aveva deciso di costruire
una nuova chiesa con i contributi offerti dalla locale Cassa di
Risparmio. E da altre vicende, tra le quali la rimozione di don Pino
Setti a causa della sua attività non conformista (compresa la cosiddetta
«messa beat» con il complesso de I Corvi). Nel comunicato degli
occupanti, tra l’altro, si leggeva: «è ora che la gerarchia
ecclesiastica abbia il coraggio di fare una scelta discriminante a
favore dei poveri contro il sistema capitalistico». Si trattava, credo,
della prima occupazione di una chiesa cattolica a opera dei suoi stessi
fedeli (o, meglio, di una parte di essi). Dopo una serie di tentativi
falliti di mediazione, la risposta del vescovo fu la richiesta alla
polizia di intervenire all’interno della cattedrale per allontanare i
«profanatori del tempio». E così avvenne, a sera inoltrata.
L’ISOLOTTO
Tuttavia,
la cosa non finì lì. Un esempio solo. A Firenze, da anni, la parrocchia
di un quartiere popolare, l’Isolotto, guidata da don Enzo Mazzi, era
molto attiva sulle grandi questioni sociali e sui temi della pace e
dell’antimilitarismo. Tutto ciò nonostante la dichiarata riprovazione da
parte dell’arcivescovo, il cardinale Florit. Il 22 settembre viene
distribuito un volantino di solidarietà con gli occupanti della
cattedrale di Parma e di aspra critica nei confronti di una «chiesa che
ammette indiscriminatamente alla mensa eucaristica sfruttati e
sfruttatori». A seguito di ciò, il cardinale chiede a Don Mazzi di
ritrattare pubblicamente le proprie opinioni o di dimettersi. La
questione del piccolo Isolotto periferico diventa, a questo punto, un
problema generale che interpella le gerarchie ecclesiastiche e le
autorità del Vaticano e, si dice, lo stesso Pontefice. Dalla sua
parrocchia, Don Mazzi afferma che «ubbidire alla gerarchia cattolica
significa quasi sempre disubbidire alle esigenze più profonde, vere ed
evangeliche del popolo. Non voglio una Chiesa legata a un potere
politico ed economico, ma legata al popolo dei disoccupati, dei
rifiutati, degli analfabeti, degli operai». Gran parte dei parrocchiani
si schiera apertamente contro il cardinale, dichiarando di essere «una
cosa sola col parroco». La replica di Florit è la rimozione di Don Mazzi
ma il nuovo parroco, chiamato a sostituirlo, troverà la chiesa
completamente vuota. Intanto novantatré sacerdoti della diocesi di
Firenze e una parte significativa della città dichiarano la propria
solidarietà con l’Isolotto. Il 30 agosto del 1969, dopo che don Mazzi e
due viceparroci erano stati sospesi a divinis e la chiesa era stata
chiusa, il cardinale Florit vi si recò per celebrare la messa, ma il
rito potè avvenire solo alla presenza delle forze di polizia. Nacque,
allora, il primo Coordinamento delle comunità di base, che cominciavano a
diffondersi in più città italiane. Intanto, altri movimenti poco
visibili e tuttavia destinati a irrobustirsi, si sviluppavano
all’interno di zone particolarmente opache dell’organizzazione sociale.
Persino in quelle più conservatrici e chiuse.
SCONTRI
Nella
primavera del 1968, a Milano, vi furono numerose manifestazioni non
tutte e non sempre pacifiche. Dopo alcuni degli scontri più violenti,
all’interno della caserma Sant’Ambrogio (poi caserma Annarumma), a due
passi della Basilica e dall’Università Cattolica, avvenne una sorta di
«sommossa»: molti tra gli agenti chiedevano di potersi recare
all’interno dell’università per darle di santa ragione agli studenti.
Eppure, in quella situazione tanto tesa, si levarono anche voci di
poliziotti che denunciavano le condizioni di «sfruttamento» cui erano
sottoposti e indicavano come «nemico» non lo studente bensì il «sistema
di potere». Erano pochi, ma anche loro gridavano forte. Qualche tempo
dopo, sarà stata la fine di aprile, io mi trovavo a parlare col megafono
davanti al cancello principale dell’università Cattolica, mentre frotte
di studenti vi entravano. Poco distanti da me, sulla sinistra, accanto a
un’aiuola ben curata, si trovavano due poliziotti (probabilmente
provenienti dalla vicinissima caserma) «vestiti da poliziotti in
borghese» che mi lanciavano sguardi di sottecchi e confabulavano tra
loro. Quando, esausto dal gran concionare, interruppi il mio comizio,
prendendo fiato e appoggiandomi alle mura imponenti dell’ateneo, quei
due lasciarono trascorrere qualche minuto e, poi, mi avvicinarono
cautamente. Quindi, tra molti sottointesi e altrettanti imbarazzi, mi
fecero intendere di essere interessati a parlare con me e con miei
compagni. Considerata l’inequivocabile identità sbirresca degli
interlocutori, faticammo – io e gli studenti successivamente avvertiti –
a respingere l’idea che ci trovassimo di fronte a una vera e propria
provocazione. Di conseguenza glissammo, traccheggiammo, rinviammo, ma
quei due poliziotti riproposero più volte la richiesta di un incontro,
offrendo tutte le garanzie possibili e immaginabili. E così, passato
ancora qualche tempo, cedemmo e infine ci fu l’incontro. Scegliemmo noi
il campo: ovvero il sottopiano del grande bar Magenta, occupato da due
tavoli da biliardo e, in quella circostanza, dalle due delegazioni,
mentre al piano di sopra l’intera clientela era costituita
esclusivamente da militanti del movimento studentesco, pronti a
intervenire e a fare muro in caso di necessità. Tutto questo in presenza
di un signor Vigna, il titolare, profondamente perplesso. E così,
sentendoci al riparo da qualunque rischio, potemmo liberamente parlare
tra noi. In sostanza, quei poliziotti chiedevano suggerimenti su come
muoversi per porre le basi di una qualche organizzazione sindacale,
allora totalmente fuori legge. Noi eravamo, va detto, palesemente
sprovveduti. Tanto più che l’idea di una organizzazione sindacale dei
poliziotti non rientrava, certo, tra i nostri obiettivi e, soprattutto,
era incondizionatamente estranea ai nostri pensieri. Ma per un
soprassalto di fierezza (non ammettere la nostra insipienza) o per un
autentico senso del dovere rivoluzionario (non rinunciare a un possibile
alleato) non chiudemmo lì la discussione. Al secondo incontro, svoltosi
nello stesso luogo e con le stesse modalità, arrivammo con qualche
ulteriore informazione. In altre città italiane, già si parlava di certe
«proteste dei poliziotti» e, soprattutto, noi disponevamo di un
indirizzo particolarmente interessante. Avevamo appreso, infatti, che un
funzionario della CGIL era stato delegato a seguire la questione che,
silenziosamente, cominciava a emergere. E, così, potemmo indicare il
nome di quel funzionario sindacale e la sede della Camera del Lavoro in
Corso di Porta Vittoria come la persona e il luogo più adatti a
raccogliere le loro esigenze.
BARRICATA
Ci ringraziarono,
un po’ stupiti e un po’ emozionati, così calorosamente che ne fummo
tutti colpiti. Si chiudeva, in tal modo, un breve ma significativo ciclo
della protesta. Un ciclo iniziato quando, come si è detto, qualche mese
prima, proprio una manifestazione dagli esiti particolarmente violenti
consentì di porre le basi di una possibile relazione tra esponenti delle
due forze in campo sui lati opposti della barricata (qui intesa non
solo in senso metaforico): gli studenti, in particolare quelli
dell’università Cattolica, e alcuni poliziotti della caserma
Sant’Ambrogio. Non c’è da stupirsi. In generale va ricordato come nella
storia, ma anche nella cronaca quotidiana, possa accadere che siano
proprio i conflitti più aspri a rivelare agli opposti contendenti
l’esistenza di interessi comuni.
PASOLINI
Il che consente
una lettura meno stereotipata, di quella diventata ormai dozzinale luogo
comune, della poesia Il Pci ai giovani di Pier Paolo Pasolini
(pubblicata da Nuovi Argomenti e anticipata dall’Espresso del 16 giugno
del 1968). A dar retta alla versione pressoché unanime, in quella poesia
Pasolini avrebbe preso le parti dei poliziotti, in odio ai
contestatori, secondo una grossolana distinzione tra i primi (proletari e
sottoproletari, «figli dei poveri») e i secondi (borghesi e
piccoloborghesi, «figli di papà»). Fu lo stesso Pasolini a chiarire:
«Nessuno (…) si è accorto» che i versi iniziali erano «solo una piccola
furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore
(…) su ciò che veniva dopo (…) dove i poliziotti erano visti come
oggetti di un odio razziale a rovescio, in quanto il potere (…) ha la
possibilità di fare di questi poveri degli strumenti» (Il Tempo, 17
maggio 1969). Le caserme dei poliziotti erano dunque viste come «ghetti
particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente
ingiusta ancora che nelle università. Nessuno dei consumatori di quella
poesia si è soffermato su questo e tutti si sono fermati al paradosso
introduttivo» (Ivi). Dunque, secondo Pasolini, il senso di quella poesia
sarebbe stato ribaltato da letture ideologicamente interessate. Il
«paradosso introduttivo» («io simpatizzavo coi poliziotti») era in
realtà – parole dell’autore – «una piccola furberia oratoria», destinata
a «richiamare l’attenzione del lettore». Ma il tema vero e la sostanza
poetica e politica consistevano nell’affermazione che «il potere ha la
possibilità di fare di questi poveri degli strumenti». Dunque,
nonostante l’interpretazione autentica offerta dal suo stesso autore,
quei versi sono stati ridotti alla falsa rappresentazione di un
conflitto insuperabile tra la piccola e media borghesia privilegiata e
consumista, che si riconosceva nel movimento detto «del ’68», da una
parte; e, dall’altra, il proletariato e il sottoproletariato
identificati nell’immigrato meridionale, fattosi poliziotto per
sopravvivere. E la lettura più coerente, proposta – tra gli altri – dal
regista Davide Ferrario, è stata costantemente ignorata, a favore di
quella interpretazione definita dallo stesso poeta «paradossale». Resta
ancora una considerazione: quella versione deformata in senso
«antistudentesco» (e, alla lettera, reazionario) conteneva, tuttavia, un
piccolo grumo di verità. In altri termini, il poeta Pasolini richiamava
quella costante dimensione «fratricida» della lotta italiana per il
potere, come già aveva fatto nel ’45 il poeta Umberto Saba: «gli
italiani non sono parricidi: sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e
Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani. Gli italiani
sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o
della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio
(uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione». Ma questa è
davvero un’altra storia e un’altra analisi.
ASSOCIAZIONE CALCIATORI
Infine.
Nel luglio del 1968 venne costituita, a Milano, l’Associazione Italiana
Calciatori ovvero, nei fatti, il primo embrione di sindacato dei
giocatori di calcio: ribattezzato dalla stampa, con un certo disprezzo,
«il sindacato dei piedi» o «dei milionari». A fondarlo fu l’avvocato
Sergio Campana, già calciatore di buon livello nelle squadre del
Lanerossi Vicenza e del Bologna e – rarità dell’epoca e non solo – uno
dei pochi laureati. L’ipotesi di un’associazione di rappresentanza della
categoria, pur presente da tempo, si era arenata sempre di fronte
all’ostilità granitica della Lega, delle società di serie A e dei
rispettivi presidenti, i veri padroni del calcio. E all’assenza di
consapevolezza dei propri diritti di gran parte degli stessi giocatori.
Eppure, è in quell’anno che alcuni dei più grandi calciatori italiani
(Mazzola, Rivera e De Sisti, reduci dalla vittoria della nazionale nei
campionati europei: il primo successo azzurro dai tempi di Pozzo)
scrivono a Campana, chiedendogli di guidare il «primo sindacato dei
calciatori di serie A e B».
L’idea era quella di creare un organo
che potesse funzionare da intermediario o anche controparte con Leghe e
Federazione e che potesse rappresentare gli interessi dei calciatori.
Ciò avveniva in una fase in cui si incrociavano tre diversi fattori: il
calcio diventava massiccio fenomeno sociale al quale la televisione
assegnava un ruolo pubblico sempre più ampio; aumentavano gli
investimenti economici e finanziari nelle squadre di calcio, considerate
ormai come imprese capaci di produrre utili; la tendenza a contestare i
tradizionali sistemi di potere e le loro gerarchie interne raggiungeva
tutti gli ambiti della società, compresi quelli più distanti e separati
(come, appunto, il calcio). Tra scioperi minacciati e mai realizzati,
cresceva un fenomeno che, tuttavia era destinato ad avere vita non
troppo lunga, perché quegli stessi tre fattori innovativi avrebbero
prodotto una «commercializzazione» e una «finanziarizzazione» tali da
travolgere l’intero sistema. E tali da impedire che l’Associazione
italiana calciatori svolgesse un vero ruolo conflittuale-sindacale e,
ancor meno, una funzione di tutela di coloro che, tra i giocatori,
occupavano i ranghi meno garantiti e più precari. Ne è prova il fatto
che l’associazione dei calciatori si apre ai dilettanti solo nel 2000 e
che c’è voluta una sentenza europea (quella cosiddetta «Bosman», dal
nome di un modesto calciatore belga) per liberalizzare le leggi sui
trasferimenti dei calciatori. In altre parole, è come se quelli che
«hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro e adesso ridono dentro al
bar» (Francesco De Gregori) – i giocatori, cioè, più appassionati ma
spesso meno dotati, più esposti agli infortuni e alle crisi del mercato,
più soggetti ai ricatti di procuratori e presidenti – abbiano dovuto
fare una ulteriore maledetta fatica. E hanno penato molto prima di
ottenere quel riconoscimento che qualificava la loro attività come un
lavoro meritevole di tutela sindacale. Insomma, ce ne ha messo il
Sessantotto per arrivare fino a loro.
Ha collaborato Valentina Moro