Repubblica 14.9.18
La storia
La legge 180 quarant’anni dopo
Il cavallo pazzo di Franco Basaglia
di Benedetta Tobagi
C’era
una volta un cavallo azzurro di nome Marco. Era cresciuto dentro un
manicomio, poi ne era balzato fuori buttando giù il muro. Un cavallo di
Troia al contrario, che portava fuori, anziché dentro. C’era una volta e
oggi c’è ancora. Domani Marco Cavallo, il simbolo più noto e suggestivo
della rivoluzione di Franco Basaglia, arriva a Verona in occasione del
Tocatì, il grande festival del gioco di strada, scortato da musici,
grandi e bambini, nel quarantennale della legge 180, che — cinque anni
dopo la sua prima cavalcata in una domenica mattina di sole e vento
gelido — ha sferrato il calcio fatale ai manicomi. La sua storia,
narrata in molti libri, è ormai leggenda.
Tutto ebbe inizio nel
"Laboratorio P", dalla lettera che contraddistingueva uno dei primi
reparti chiusi da Basaglia quando divenne direttore dell’ospedale
psichiatrico San Giovanni a Trieste nel 1971, quello dei "tranquilli"
(nella classificazione tradizionale c’erano poi "agitati", "sudici",
"cronici"…), trasformato in un grande atelier dove i ricoverati, uomini e
donne insieme, potevano accedere liberamente (dalle 8 del mattino, e
c’era chi aspettava fuori dalle 7,30) e sperimentare con gli artisti
invitati da Basaglia. Nelle immagini girate all’epoca dal cineamatore
Geri Pozzar (nel dvd allegato al volume Marco Cavallo. Da un ospedale
psichiatrico la vera storia che ha cambiato il modo di essere del teatro
e della cura), sul cartello di benvenuto si legge: "pupi, disegni,
pittura, assemblee, canto, storie parlate e cantate".
Uno spazio
di puro gioco, fuori da ogni schema e logica di cura, dove relazionarsi
in modo diverso e dare voce a tutto, la cui anima fu lo scrittore e
drammaturgo Giuliano Scabia.
«Ho cercato di essere rigorosamente
un burattinaio», scherza, «la forza di aver fatto quel teatro, in quel
modo, stava nel distrarre e portare fuori, oltre». Fuori dal
laboratorio, innanzitutto, negli altri reparti, dove i matti inscenavano
per i loro compagni "operine" composte e musicate da loro.
Creando
un Paradiso Terrestre rutilante di aeree figure colorate. E,
soprattutto, costruendo Marco Cavallo. Un cavallo Marco al manicomio di
Trieste c’era davvero: aveva tirato il carretto della biancheria sporca
dal 1959 ed era caro ai pazienti al punto che nel giugno ’72, quando
stavano per "pensionarlo" al mattatoio, scrissero alla Provincia per
acquistarlo e prendersene cura. Pozzar li inquadra intenti a scrivere su
un grande tazebao "Marco cavallo lotta per tutti gli esclusi". In legno
e cartapesta, alto 4 metri, crebbe tra i matti e dalle loro storie, ma
fu realizzato materialmente da Vittorio Basaglia, cugino di Franco. «Era
uno straordinario cartapestaio», racconta Scabia, «aveva studiato sia
il modo viareggino sia il modo leccese, ed era un bravissimo scultore,
allievo di Marino Marini" (la cui influenza sul cavallo è evidente).
«Doveva essere magnifico, e lo fu». Primo estimatore, un matto del
reparto "agitati", che era stato mercante di bestiame: «Che pettorale,
che fianchi, ma bravo!», ripeteva. Azzurro, come i cavalli di Franz
Marc, di cui Brecht scrisse, combattuto (la citazione apre il diario
manoscritto che accompagnò la costruzione di Marco): «Mi piacciono,
tuttavia nutro forti dubbi di poter trasformare i lavoratori in
partigiani dei cavalli azzurri». Coi matti invece ce la fecero, anche se
la votazione per scegliere il colore fu un po’ "pilotata", ridono
Scabia e Peppe Dell’Acqua, storico collaboratore di Basaglia. «Marco era
un pupazzo e una caverna del tesoro e chiunque poteva esprimersi
riempiendolo di qualcosa», scrisse Umberto Eco nel 1976. Aveva infatti
una pancia con una porta, che fu riempita di biglietti con i sogni dei
pazienti: «Una casa per i bisogni radicali», dice Dell’Acqua. «Un
gigante, evocatore di miti, ricordi, fantasie collettive», continuava
Eco. «Il cavallo sono le centinaia di storie che lo compongono», chiosa
Scabia, «se fosse solo una scultura non sarebbe nulla. E quella centrale
è l’abbattimento del muro», il 25 marzo ’73, quando cavalcò verso la
città seguito da oltre 400 (su 1200) ricoverati.
Eppure, rischiò
di non accadere: il cavallo incarnò, insieme ai sogni, fatiche e
contraddizioni del movimento della psichiatria democratica.
«Molti
temevano diventasse una "vetrina", oscurando l’orrore dei manicomi»,
ricorda Dell’Acqua. Discussero una notte intera e trovarono un accordo
all’alba: Marco Cavallo uscì accompagnato da un volantino di
rivendicazioni politico-sindacali di medici e infermieri. «Il muro, il
primo muro era saltato», scrive Dell’Acqua in Non ho l’arma che uccide
il leone, «poi così come era destino, in giro per il mondo». Perché il
cavallo non si è mai più fermato. Risorto dalle ceneri come la Fenice
dopo aver preso fuoco a Roma («al Mattatoio — ma ti pare che lasci lì un
cavallo?» ironizza Scabia), moltiplicatosi, continua il suo cammino.
Come la rivoluzione di Basaglia che, anziché chiudersi, è di fatto
cominciata con la riforma del 1978: «Ci sono voluti vent’anni per
chiudere i manicomi, e la lezione di quell’esperienza non è ancora
pienamente realizzata», ribadisce Dell’Acqua. La contenzione è
utilizzata nell’80 per cento dei dipartimenti di salute mentale in
Italia e capita ancora che qualcuno muoia legato al letto.
Simbolo
della liberazione dei matti, della lotta all’istituzione totale e a
ogni forma di esclusione, il cavallo è un racconto che ha sempre nuovi
capitoli. «È di tutti», conclude ridendo Scabia, «ed è un matto
completo!».