venerdì 14 settembre 2018

Repubblica 14.9.18
La storia
La legge 180 quarant’anni dopo
Il cavallo pazzo di Franco Basaglia
di Benedetta Tobagi


C’era una volta un cavallo azzurro di nome Marco. Era cresciuto dentro un manicomio, poi ne era balzato fuori buttando giù il muro. Un cavallo di Troia al contrario, che portava fuori, anziché dentro. C’era una volta e oggi c’è ancora. Domani Marco Cavallo, il simbolo più noto e suggestivo della rivoluzione di Franco Basaglia, arriva a Verona in occasione del Tocatì, il grande festival del gioco di strada, scortato da musici, grandi e bambini, nel quarantennale della legge 180, che — cinque anni dopo la sua prima cavalcata in una domenica mattina di sole e vento gelido — ha sferrato il calcio fatale ai manicomi. La sua storia, narrata in molti libri, è ormai leggenda.
Tutto ebbe inizio nel "Laboratorio P", dalla lettera che contraddistingueva uno dei primi reparti chiusi da Basaglia quando divenne direttore dell’ospedale psichiatrico San Giovanni a Trieste nel 1971, quello dei "tranquilli" (nella classificazione tradizionale c’erano poi "agitati", "sudici", "cronici"…), trasformato in un grande atelier dove i ricoverati, uomini e donne insieme, potevano accedere liberamente (dalle 8 del mattino, e c’era chi aspettava fuori dalle 7,30) e sperimentare con gli artisti invitati da Basaglia. Nelle immagini girate all’epoca dal cineamatore Geri Pozzar (nel dvd allegato al volume Marco Cavallo. Da un ospedale psichiatrico la vera storia che ha cambiato il modo di essere del teatro e della cura), sul cartello di benvenuto si legge: "pupi, disegni, pittura, assemblee, canto, storie parlate e cantate".
Uno spazio di puro gioco, fuori da ogni schema e logica di cura, dove relazionarsi in modo diverso e dare voce a tutto, la cui anima fu lo scrittore e drammaturgo Giuliano Scabia.
«Ho cercato di essere rigorosamente un burattinaio», scherza, «la forza di aver fatto quel teatro, in quel modo, stava nel distrarre e portare fuori, oltre». Fuori dal laboratorio, innanzitutto, negli altri reparti, dove i matti inscenavano per i loro compagni "operine" composte e musicate da loro.
Creando un Paradiso Terrestre rutilante di aeree figure colorate. E, soprattutto, costruendo Marco Cavallo. Un cavallo Marco al manicomio di Trieste c’era davvero: aveva tirato il carretto della biancheria sporca dal 1959 ed era caro ai pazienti al punto che nel giugno ’72, quando stavano per "pensionarlo" al mattatoio, scrissero alla Provincia per acquistarlo e prendersene cura. Pozzar li inquadra intenti a scrivere su un grande tazebao "Marco cavallo lotta per tutti gli esclusi". In legno e cartapesta, alto 4 metri, crebbe tra i matti e dalle loro storie, ma fu realizzato materialmente da Vittorio Basaglia, cugino di Franco. «Era uno straordinario cartapestaio», racconta Scabia, «aveva studiato sia il modo viareggino sia il modo leccese, ed era un bravissimo scultore, allievo di Marino Marini" (la cui influenza sul cavallo è evidente). «Doveva essere magnifico, e lo fu». Primo estimatore, un matto del reparto "agitati", che era stato mercante di bestiame: «Che pettorale, che fianchi, ma bravo!», ripeteva. Azzurro, come i cavalli di Franz Marc, di cui Brecht scrisse, combattuto (la citazione apre il diario manoscritto che accompagnò la costruzione di Marco): «Mi piacciono, tuttavia nutro forti dubbi di poter trasformare i lavoratori in partigiani dei cavalli azzurri». Coi matti invece ce la fecero, anche se la votazione per scegliere il colore fu un po’ "pilotata", ridono Scabia e Peppe Dell’Acqua, storico collaboratore di Basaglia. «Marco era un pupazzo e una caverna del tesoro e chiunque poteva esprimersi riempiendolo di qualcosa», scrisse Umberto Eco nel 1976. Aveva infatti una pancia con una porta, che fu riempita di biglietti con i sogni dei pazienti: «Una casa per i bisogni radicali», dice Dell’Acqua. «Un gigante, evocatore di miti, ricordi, fantasie collettive», continuava Eco. «Il cavallo sono le centinaia di storie che lo compongono», chiosa Scabia, «se fosse solo una scultura non sarebbe nulla. E quella centrale è l’abbattimento del muro», il 25 marzo ’73, quando cavalcò verso la città seguito da oltre 400 (su 1200) ricoverati.
Eppure, rischiò di non accadere: il cavallo incarnò, insieme ai sogni, fatiche e contraddizioni del movimento della psichiatria democratica.
«Molti temevano diventasse una "vetrina", oscurando l’orrore dei manicomi», ricorda Dell’Acqua. Discussero una notte intera e trovarono un accordo all’alba: Marco Cavallo uscì accompagnato da un volantino di rivendicazioni politico-sindacali di medici e infermieri. «Il muro, il primo muro era saltato», scrive Dell’Acqua in Non ho l’arma che uccide il leone, «poi così come era destino, in giro per il mondo». Perché il cavallo non si è mai più fermato. Risorto dalle ceneri come la Fenice dopo aver preso fuoco a Roma («al Mattatoio — ma ti pare che lasci lì un cavallo?» ironizza Scabia), moltiplicatosi, continua il suo cammino. Come la rivoluzione di Basaglia che, anziché chiudersi, è di fatto cominciata con la riforma del 1978: «Ci sono voluti vent’anni per chiudere i manicomi, e la lezione di quell’esperienza non è ancora pienamente realizzata», ribadisce Dell’Acqua. La contenzione è utilizzata nell’80 per cento dei dipartimenti di salute mentale in Italia e capita ancora che qualcuno muoia legato al letto.
Simbolo della liberazione dei matti, della lotta all’istituzione totale e a ogni forma di esclusione, il cavallo è un racconto che ha sempre nuovi capitoli. «È di tutti», conclude ridendo Scabia, «ed è un matto completo!».

Corriere 14.9.18
Coro del Papa, indagato il maestro «Maltratta i bambini che cantano»
Tre inchieste nella Santa Sede, accusa di riciclaggio con il direttore amministrativo
di Fiorenza Sarzanini


Roma Sono tre le inchieste avviate sul coro della cappella Sistina. E la più insidiosa riguarda il maestro Massimo Palombella, accusato di maltrattamenti dai genitori dei «pueri cantores», i bimbi che cantano durante le celebrazioni presiedute dal Papa nella basilica di San Pietro ma anche in giro per il mondo.
Una relazione coperta dal segreto è stata consegnata a padre Georg Gänswein, prefetto della casa pontificia da cui dipende il coro, e al segretario di Stato Pietro Parolin dal nunzio apostolico Mario Giordana che aveva svolto gli accertamenti interni. Proprio mentre una segnalazione dell’autorità finanziaria denunciava irregolarità dello stesso Palombella e del direttore amministrativo Michelangelo Nardella che ora devono rispondere di riciclaggio, peculato e truffa aggravata. Non solo. Nardella è sotto procedimento disciplinare anche per aver «falsificato» una lettera di papa Francesco. E tanto basta per comprendere quanto rumore stia suscitando l’indagine all’interno della Santa Sede, soprattutto dopo gli ultimi scontri provocati dall’attacco contro il Pontefice di monsignor Carlo Maria Viganò.
I bambini del coro
Nel documento del nunzio Giordana sono elencate le denunce delle mamme dei piccoli coristi su «metodi rudi e ingiurie». Genericamente si parla di «abusi» ma al momento non c’è alcuna evidenza che si tratti di molestie sessuali.
Nei mesi scorsi numerosi casi di aggressioni verbali erano stati segnalati alla segreteria di Stato e si è deciso di intervenire proprio per stabilire quali siano i metodi utilizzati dal maestro e che tipo di danno sia stato causato ai ragazzini. Ma anche capire se dietro queste denunce possano celarsi problemi nei rapporti con i minori che non sono ancora emersi. Per questo sono in corso le verifiche ed è possibile che anche su questo aspetto si decida di coinvolgere l’ufficio del promotore, proprio come è accaduto per l’inchiesta sulla gestione contabile del coro che potrebbe portare a clamorosi sviluppi già nei prossimi giorni.
Gli assegni circolari
A luglio Palombella e Nardella sono stati interrogati sull’esistenza di un conto aperto presso una banca italiana dove hanno dirottato una parte dei soldi a disposizione del coro. I due non hanno negato di avere a disposizione questo deposito e Nardella, assistito dall’avvocato Laura Sgrò dello studio legale Bernardini De Pace, ha dichiarato che si trattava di un’esigenza per soddisfare le varie incombenze, visto che altrimenti non sarebbe stato possibile gestire la cassa. Secondo la sua versione era un modo per snellire la procedura in modo da non chiedere l’autorizzazione alla casa pontificia, ma in questo modo la procedura risulta molto lenta. Di fronte alle contestazioni sul fatto che abbiano nascosto alle gerarchie ecclesiastiche questo conto, Nardella è passato al contrattacco sostenendo che negli anni sono stati emessi in favore della casa pontificia diversi assegni circolari provenienti proprio da quel conto corrente e dunque non è possibile che non si sapesse. E l’avvocato Sgrò ha specificato che ogni «entrata» è stata utilizzata per il coro della Sistina.
Le lettere false
In particolare si è scoperto che in occasione di un convegno di medici, gli organizzatori avevano chiesto a Nardella una lettera di saluto del Papa. La segreteria di Stato aveva rifiutato e Nardella aveva comunque autorizzato l’utilizzo di un’altra missiva — inviata a un altro convegno che si era svolto qualche settimana prima — cambiando qualche parola. Una falsificazione che gli è costata il posto e potrebbe avere ulteriori conseguenze.

Corriere 14.9.18
«I vescovi denuncino tutti gli abusi»
di Gian Guido Vecchi


«Dobbiamo denunci-are gli abusi di cui veniamo a conoscenza». Nel giorno in cui il Papa ha ricevuto i vertici dell’epis-copato Usa, travolto dalle inchieste sulla pedofilia (finora in Pennsylvania, Kentucky, New York, New Jersey, Illinois, Missouri, New Mexico e Nebraska), la «Civiltà Cattolica» ha pubblicato ieri il colloquio inedito di Francesco con i gesuiti irlandesi, durante la visita recente a Dublino. Bergoglio aveva appena incontrato otto vittime di violenze, «l’elitismo e il clericalismo favoriscono ogni forma di abuso». Pa-role tanto più interessanti, alla luce della decisione di convocare a Roma, dal 21 al 24 febbraio, i presidenti delle conferenze episcopa-li di tutto il mondo. Si de-ve prestare «una particola-re attenzione al clero e ai seminari», ha spiegato ieri il Papa ai vescovi nominati di recente: «Aggiornare i nostri processi di selezio-ne, accompagnamento, valutazione. Le nostre risposte saranno prive di futuro se non raggiunge-ranno la voragine spiritua-le che, in non pochi casi, ha permesso scandalose debolezze, se non mette-ranno a nudo il vuoto esi-stenziale che esse hanno alimentato, se non rivele-ranno perché mai Dio è stato così reso muto, così messo a tacere, come se non ci fosse». Anche Daniel DiNardo, presiden-te dei vescovi Usa, ha par-lato del «corpo di Cristo lacerato dal male». Tra i temi del colloquio, proce-dure specifiche per i ves-covi abusatori e insabbia-tori. Intanto, il Papa ha fatto aprire un’indagine su un altro vescovo, Michael Bransfield (West Virginia), sospettato di molestie ai danni di adulti, e ne ha accettato le dimissioni.

Repubblica 14.9.18
Sospettato di insabbiamento
Abusi, ombre sul capo dei vescovi Usa
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO L’ombra del sospetto sfiora anche il cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston Houston e presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, proprio nel giorno in cui il porporato guidava la delegazione dei vescovi americani all’udienza con Papa Francesco. Una delle vittime di abusi sessuali avrebbe raccontato che, durante un incontro, il cardinale gli avrebbe promesso che al sacerdote accusato di pedofilia, Manuel La Rosa López, sarebbe stato proibito qualunque contatto con i bambini. In realtà, venne solo trasferito a una parrocchia a poca distanza. L’accusa è piombata come un fulmine a ciel sereno sul porporato e su tutto l’episcopato americano. Come scalpore ha creato la notizia, uscita proprio durante l’udienza, che il Papa, accettandone le dimissioni ad appena 5 giorni dal 75esimo compleanno, ha fatto aprire un’indagine per molestie su adulti a carico d’un altro vescovo, quello di Wheeling-Charleston (West Virginia), Michael Bransfield. Una tempistica forse voluta dalla Santa Sede, in un momento in cui il Papa, secondo quanto riporta Civiltà Cattolica, ha voluto dire a un gruppo di gesuiti incontrati a Dublino tre settimane fa che se si hanno sospetti di abusi la prima cosa da fare è denunciare: «Le scandalose debolezze – ha detto – nascono da una voragine spirituale».
Al termine dell’udienza con il Papa, DiNardo ha parlato di «scambio lungo, fruttuoso e buono» che serve da base per definire i «passi successivi più efficaci». «Abbiamo condiviso la nostra situazione negli Stati Uniti, come il corpo di Cristo sia lacerato dal male degli abusi sessuali. Il Papa ha ascoltato molto profondamente dal cuore», ha detto il porporato. Dopo che aveva chiesto a gran voce una visita apostolica vaticana negli States come risposta al dossier dell’ex nunzio Carlo Maria Viganò e alle coperture degli abusi omosessuali dell’ex cardinale di Washington Theodore McCarrick, DiNardo non ne ha fatto più menzione. Ma l’onda della crisi innescata dalle rivelazioni sugli abusi, in seguito al report del gran giurì della Pennsylvania sui crimini sessuali del clero e gli insabbiamenti da parte dei vescovi, è stata presente nel colloquio.

Repubblica 14.9.18
Riciclaggio, truffe e veleni i giochi di potere in Vaticano dietro il coro della Sistina
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO Un’indagine autorizzata da Francesco che nasconde una battaglia teologica e di potere che dura da anni. Non ha pace il coro della Cappella Sistina, la storica e prestigiosa " schola cantorum" preposta all’accompagnamento polifonico delle liturgie presiedute dal Papa. Le accuse che motivano l’apertura da parte della magistratura della Santa Sede di un fascicolo sul direttore amministrativo Michelangelo Nardella e sul direttore dello stesso coro Massimo Palombella sono pesantissime. Il sospetto, infatti, è di un uso disinvolto dei soldi che entravano per i concerti, indirizzati in un conto presso una banca italiana, con ipotesi di riciclaggio, truffa aggravata ai danni dello Stato e peculato. E anche se a Repubblica l’avvocato di Nardella, Laura Sgrò, dice che lui ha già risposto alle domande chiarendo che tutti i soldi sono stati utilizzati sempre e soltanto per la stessa Sistina, l’immagine di un Vaticano ancora abitato da scandali e veleni resta immutata.
È dai tempi del Concilio che intorno al coro ruotano interessi generali e invidie personali. Il canto, espressione di un certo modo di intendere la liturgia, smuove le sensibilità di tradizionalisti e progressisti: non è un mistero per nessuno che il salesiano Palombella, portato a capo della Sistina nel 2010 dal cardinale Tarcisio Bertone, sia inviso alle anime più tradizionaliste presenti Oltretevere. Sono anni che i puristi della liturgia antica annunciano il siluramento di Palombella, senza che fino a oggi ciò sia mai avvenuto. Così Nardella, la cui colpa per diversi è quella di abitare nell’appartamento che fu del cardinale Domenico Bartolucci che ha diretto il coro della Sistina per 41 anni, dal 1956 al 1997: 400 metri quadrati nello storico edificio dove è la sede del coro stesso in pieno centro a Roma. L’appartamento «è stato concesso alla famiglia Nardella a seguito di stipula di regolare contratto di locazione, per il quale viene corrisposto all’Aspa un congruo e regolare canone mensile » , ha fatto sapere nel luglio scorso l’avvocato di Nardella, spiegando anche come « non si comprende quale turpe atto sia stato compiuto dal mio assistito nel portare nuova redditività alle casse vaticane, visto che l’immobile, prima di entrare nella sua disponibilità, era sfitto da ben tre anni».
A margine del convegno di musica " Chiesa e compositori" organizzato dal Pontificio Consiglio della Cultura, Palombella si mostra tranquillo: « Mi rimetto alla nota ufficiale del Vaticano. Sono sereno » , dice. E ancora: « Se non lo fossi non sarei qui oggi». Eppure, al di là degli ipotizzati ammanchi economici, ci sarebbero anche alcuni malumori resi noti dai genitori dei bambini cantori per qualche eccesso di durezza verbale del Maestro della Sistina. « La verità è che la Sistina non è più quella di una volta — dice una fonte che intende restare anonima — . Prima si insisteva molto sull’aspetto pastorale, il coro era occasione di formazione religiosa anzitutto per i bambini, oggi molto è virato verso il business con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti».
A suo tempo fu Bertone a portare in ruoli centrali della curia romana figure che non corrispondevano ai canoni tradizionali. Presule non formatosi nel corpo diplomatico, il porporato salesiano gestiva gli uffici senza curarsi di sensibilità secolari. Così Palombella alla Sistina fu visto come un oltraggio da molti che paragonavano le sue melodie moderne ai gusti musicali di Papa Ratzinger, amante di Haydn, Mozart e Bruckner. Le indagini di questi giorni si riferiscono ad altro, ma anche di questi malumori sono in qualche misura frutto.

il manifesto 14.9.18
Lo tsunami di un sovranismo che ci divide
Destre/sinistre. L'onda nera investe tutti, anche i socialisti e gli affiliati al Partito della Sinistra Europea
di Luciana Castellina


La condanna inflitta al governo Orbán dal Parlamento Europeo è finalmente una buona notizia. Tanto più buona se si tiene conto dell’ arroganza occidentalocentrica che caratterizza l’Europa.
Mai, in quarant’anni, si era riusciti a indurre l’Assise di Strasburgo a guardarsi allo specchio: a prendere in considerazione le tante violazioni dei diritti democratici impunemente perpetrate dai propri stati membri. Certo meno gravi di quelle attuali in Ungheria, ma non abbastanza per permettersi di glorificare senza mai un cenno autocritico le proprie superiori virtù. ( Basterebbe pensare a cosa è accaduto in Irlanda del nord negli anni ‘80, solo per fare l’ esempio di una battaglia, contro il governo di sua Maestà Britannica, che abbiamo sempre perduto). È sempre sembrato che la sola autorizzata a prendere le misure della democrazia del mondo fosse l’Ue, lo strumento per farlo detenuto a Bruxelles così come, a Parigi, si conserva gelosamente il metro d’oro che ne certifica l’esatta lunghezza. La condanna di Orbán è dunque un evento storico, e speriamo significhi che si comincia a prestare attenzione al rapido deterioramento della nostra già malconcia democrazia.
Il voto che condanna il governo ungherese ha prodotto un’altra novità di rilievo: la spaccatura del Partito Popolare, cui Orbán appartiene, e che però una buona metà dei suoi deputati si sono rifiutati di assolvere. Anche questa è una buona notizia ma è anche il segno del processo di decomposizione delle forze politiche tradizionali, di destra di centro e di sinistra, tutte investite dai problemi inediti che la globalizzazione finanziaria sta facendo scoppiare e cui non sanno far fronte ricorrendo alle loro vecchie ricette. Avviene ovunque, e il parlamento europeo che eleggeremo nel maggio prossimo avrà certamente una composizione assai diversa da quella che abbiamo conosciuto fino ad ora.
La prima novità che si delinea è quella di una spaccatura definitiva del gruppo che aggregava i vari moderati partiti democristiani e la creazione di una corposa destra estremista. E sovranista. Tenuto conto del ruolo che ha ed ha avuto Angela Merkel nell’Eu, la scomposizione della sua forza politica di provenienza sarà carica di conseguenze.
Ma anche la sinistra è investita dallo tsunami, sia quella socialista che quella affiliata al Partito della Sinistra Europea: in Francia non ci sono quasi più né il Psf né il Pcf, ma un “renziano” come Macron, oltre all’iper sovranista Mélanchon che ha addirittura dichiarato di voler buttare fuori Syriza dal Partito della Sinistra Europea; in Germania è nato in seno alla Linke, forse il più forte e assennato fra i partiti che vi appartengono, il movimento “Aufstehen” (alzarsi), un appellativo che già di per sé suscita preoccupazione, senza parlare di quello scelto in Italia da Fassina, ”Patria”, un termine che evoca memorie funeste. Le parole non sono acqua ma cariche di simbologie non innocue.
Il cosiddetto sovranismo – e cioè la convinzione che i problemi che incombono potrebbero esser risolti solo che a decidere sia un governo nazionale anziché europeo – sta dilagando anche in Italia. Tutti convinti che siccome i Savoia erano pessimi sarebbe stato giusto abbandonare l’Italia e rientrare nel borbonico Regno delle due Sicilie.
La difficoltà che oggi incontriamo a controllare le decisioni che contano dipende dal fatto che a livello globale non c’è istituzione democratica che possa esercitare questa funzione; e tanto meno potremmo esercitare la nostra sovranità se ci ritirassimo nel nostro piccolo mondo, affogati nel Mediterraneo dove sarebbe ancora più facile esser ingoiati dai tanti potentissimi squali, anche nostri concittadini, che lo popolano.
L’Ue, così come è stata costruita, è pessima, ma è là che dobbiamo vincere se vogliamo recuperare un po’ di potere decisionale, perché quella è la sola dimensione che può contare qualcosa nello scenario globale, e possiamo ottenere che questo qualcosa sia meglio di quanto possiamo trovare altrove perché con tutti i suoi difetti l’Europa è il contenitore del maggior numero di diritti democratici e sociali che la storia ci ha fornito. Come anche il voto di Orbán in fondo ci ha dimostrato.
Insistere sull’Europa tuttavia vuol solo dire scegliere un campo di battaglia, non un prato accogliente e su questo c’è di che riflettere autocriticamente. Per l’assenza di dimensione europea di tutte le nostre iniziative proposte lotte legami associativi. La condanna dell’Ungheria ci ammonisce anche per questo: possibile che abbiamo consentito senza muovere un dito che in questi decenni crescesse un’Ungheria così, e, più in generale, un’Europa come quella di Visegrad? Qualcuno deve pur esserci ancora vivo che ricorda quanto e come siamo stati coinvolti nel ’56 dalla rivolta di Budapest, una speranza che fu affossata nel sangue ma che aveva anche mostrato la ricchezza di energie e tradizioni socialiste democratiche di quel paese, poi via via spente senza che noi sinistra occidentale ci occupassimo di intrecciare con loro un qualche dialogo? Possibile che da quando è caduto il Muro non ci siano più stati legami politici, iniziative comuni, persino amicizie? Possibile aver anche solo pensato che l’annessione all’Ue dei paesi dell’ex blocco sovietico, di cui hanno dovuto accettare senza fiatare tutte le decisioni pregresse, buone solo per integrare il loro ceto compradore, non avrebbe avuto conseguenze su tutti noi? Come pensiamo di cambiare l’Europa se non ci impegniamo a costruirne una società comune e dunque a far crescere nuovi protagonisti? Non è solo il Trattato di Maastricht o la Troika che impediscono una economia europea retta dalla solidarietà anziché dalla competizione. Se è così è anche perché la società europea si è incattivita, e ognuno si chiude sempre più nel localismo, nella sua piccola patria, considerata più sicura della condivisione. Orbán non è popolare solo in Ungheria.

La Stampa 14.9.18
Il duello con i populisti sulle diseguaglianze
di Giovanni Orsina


La campagna elettorale per il voto europeo del maggio 2019 sta entrando nel vivo con larghissimo anticipo. E la settimana che si sta chiudendo è stata segnata da due iniziative importanti.
Due iniziative di quello che, per capirci, chiameremo l’establishment europeista contro quello che – sempre per capirci – chiameremo lo sfidante sovranista: il voto del parlamento europeo sul governo ungherese guidato da Viktor Orban, e la decisione del presidente francese Macron di investire otto miliardi di euro nel «reddito universale di attività». Sono, com’è ovvio, questioni assai diverse. Ma non è impossibile collegarle in una strategia di bastone e carota della quale, per il momento, cominciamo soltanto a intravedere i contorni.
La censura a Orban (il bastone) persegue l’evidente scopo politico di isolare i sovranisti e spegnere sul nascere qualsiasi tentazione di dialogare con loro possa aver preso forma fra i Popolari. E che stesse prendendo forma, lo testimonia l’intervista a Manfred Weber – probabile Spitzenkandidat, ossia candidato alla guida della Commissione, per il Partito popolare europeo – pubblicata la settimana scorsa su questo giornale. L’iniziativa di Macron (la carota) vuol mostrare invece che l’establishment europeista può tornare a soddisfare le esigenze di un elettorato che lo ha abbandonato, per seguire le sirene sovraniste, anche perché lo accusa di tutelare unicamente i «vincenti della globalizzazione». Macron cerca così di smentire chi lo chiama il «presidente dei ricchi». Ed è quanto mai significativo che lo faccia con un provvedimento non troppo dissimile dal reddito di cittadinanza, bandiera del Movimento 5 Stelle.
La via verso le Europee del maggio 2019 è ancora lunga. Ci vorrà del tempo perché le diverse proposte prendano compiutamente forma, e per valutarne il successo bisognerà naturalmente aspettare i risultati del voto. Se quelle che ho delineato sopra dovessero confermarsi le linee portanti della strategia europeista, tuttavia, mi pare allora che essa sia debole in due punti. In primo luogo, le risposte che dà alle esigenze degli elettori non sono europee. Quando Macron è stato eletto, nella primavera del 2017, il rilancio dell’Europa era una parte essenziale della sua retorica. Poi s’è detto che bisognava aspettare le elezioni tedesche di un anno fa. Poi che a Berlino si formasse un governo. Tutto questo si è compiuto da mesi, ma i dissensi lungo l’asse franco-tedesco – e, nei pochi punti in cui quell’asse consente, i veti posti dagli altri partner dell’Unione – tengono paralizzato il processo d’integrazione. Il «reddito universale» di Macron, così, è francese, non europeo.
La strategia per il momento è doppiamente sbilanciata, in secondo luogo: sul lato materiale e su quello sinistro. Il montare dei sovranisti è senz’altro causato anche dalle disuguaglianze e dalle difficoltà economiche, ma ha pure delle robuste radici identitarie che, se sono sollecitate soprattutto dalla sfida migratoria, non si esauriscono però nell’avversione per le migrazioni. Su questo terreno l’establishment europeista sembra incapace di muoversi. Col voto su Orban, infine, il Partito popolare si è simbolicamente spostato verso il centro. Lo spazio alla sua destra è sì più isolato, adesso – ma anche più vasto. Si ripete così un meccanismo che già abbiamo visto in azione a livello nazionale: è stato proprio quando i gollisti francesi e i cristiano democratici tedeschi si sono accentrati troppo, che il Front National e Alternative für Deutschland si sono potuti sviluppare.

Il Fatto 14.9.18
La tecnica non è neutra: Severino spiega Oettinger
di Marco Palombi


Non è mai troppo il rilievo che si può dare a quanto ci ha spiegato, tra gli altri, il filosofo Emanuele Severino: la tecnica non è neutra, ogni tecnica organizza attorno a sé un racconto della realtà e dunque, ideologicamente, una sua verità. Ieri il commissario al Bilancio Ue, Günther Oettinger, si è presentato a Montecitorio nella sua veste non tanto di politico o di persona, ma di entità tecnobiologica organizzata attorno alla verità che le è necessaria. Tra le molte cose il nostro ha spiegato – con tono vivace e a tratti in modo sgradevole – che l’austerità non esiste, che gli Stati devono essere credibili come il cliente di un ristorante che ordina un Barbera (esempio, crediamo, suggerito da Juncker) e che il livello dei salari nei singoli Paesi non lo decide lui e quindi, se l’Italia ha problemi di competitività, forse sono troppo alti: è tanto vero che le imprese producono auto dove sono più bassi. Se lavorate a Mirafiori e non vi eravate accorti che i salari fossero così alti non è un problema, ma nel racconto della realtà ideologicamente organizzato chiamata “unione monetaria” ha ragione Oettinger: sono troppo alti e il capitale, come la donna, è mobile. Uno potrebbe provare a reagire con l’azione dello Stato, ma solo in teoria: niente aiuti di Stato, meno spesa pubblica (Oettinger) e “il compito della Bce non è garantire il deficit dei governi” (Draghi ieri). E quella cosa del diritto al lavoro (articolo 4 della Costituzione) e a un salario che consenta “un’esistenza libera e dignitosa” (articolo 36)? Quell’era un’altra tecnica, oggi c’è questa. E non è neutra.

il manifesto 14.9.18
Budapest fa quadrato: «Vendetta meschina»
Ungheria. Per il ministro degli Esteri, il voto di Strasburgo arriva da «politici favorevoli all’immigrazione». Ma l’opposizione torna in piazza domenica nella capitale contro il regime, rispondendo all'appello di socialisti e coalizione democratica
Budapest, protesta contro le misure del governo ungherese che attaccano le ong e lo stato di diritto
di Massimo Congiu


BUDAPEST Il governo ungherese ha reagito con sdegno al voto del Parlamento europeo. Più precisamente il ministro degli Esteri Péter Szijjártó ha definito il medesimo «una vendetta meschina da parte dei politici favorevoli all’immigrazione». Una vendetta dovuta al fatto che Budapest, secondo il ministro, si è opposta alla politica dell’Ue in questo ambito e ha dimostrato che l’immigrazione si può fermare.
È SEMPRE IL CAPO della diplomazia di Budapest ad affermare che il governo di cui fa parte sta riflettendo sulla possibilità di presentare un ricorso dal momento che, secondo le autorità ungheresi, nel valutare il risultato del voto non si è tenuto conto delle astensioni.
Per Szijjártó tredici delle sessantanove affermazioni contenute nel rapporto della Sargentini si riferiscono a questioni già regolate con l’Ue, diciannove hanno a che fare con aspetti su cui sarebbe attualmente in corso un confronto con la Commissione europea e i punti restanti sono menzogne che offendono il Paese e ledono il suo diritto alla sovranità nazionale.
Per il resto le forze governative negano che i suoi manifesti giganti facenti parte della campagna contro George Soros siano un’incitazione all’antisemitismo e che ci siano forti limitazioni alla libertà di stampa, quelle denunciate dal rapporto e dai giornalisti ungheresi non filogovernativi.
Reazioni previste, in fondo, considerando i toni della propaganda governativa alla vigilia del voto. Essa parlava già di vendetta, di caccia alle streghe e di sopruso nei confronti di un paese che respinge ingerenze esterne e vuole solo essere padrone in casa sua. Nel suo intervento a Strasburgo Viktor Orbán ha affermato che approvare il rapporto Sargentini sarebbe equivalso a punire un intero popolo che ha sempre lottato per la sua libertà, come nel 1956 contro i carri armati sovietici, e continua a farlo.
La tesi rimane questa e l’opposizione cerca di smentirla e di aprire gli occhi all’opinione pubblica, a quanti sono sotto l’effetto continuo della propaganda governativa, onnipresente e ossessiva. Così risponde alle dichiarazioni dell’esecutivo sostenendo che il Parlamento europeo non intende punire gli ungheresi ma un sistema antidemocratico e corrotto.
CONTRO IL QUALE, in ogni caso, le stesse forze di opposizione – ed in particolare i socialisti del Mszp, la Coalizione democratica, Dk e il movimento Párbeszéd, «Dialogo» – stanno organizzando per domenica pomeriggio una grande manifestazione di protesta nella capitale.
Quanto ai Verdi non prendono una posizione netta e sostengono che non è giusto sanzionare un popolo per la politica sbagliata del suo governo. Nel momento in cui scriviamo anche Jobbik tentenna: è contrario all’accoglienza di migranti e rifugiati ma nello stesso tempo avversa l’esecutivo.
Il Paese è insomma diviso, c’è chi crede davvero in Orbán e nella sua presa di posizione verso le istituzioni europee, c’è chi apaticamente sostiene, se interpellato, che a votare contro l’Ungheria sono stati quelli che vorrebbero un’Europa piena di migranti (esattamente come recita la propaganda di governo) e c’è chi esprime soddisfazione per il voto di giovedì.
«ERA ORA CHE BRUXELLES compisse dei passi concreti contro questo sistema antidemocratico», si sente dire negli ambienti dell’opposizione politica e sociale a Orbán. Quell’opposizione che spera nell’inizio di un cambiamento grazie a questo voto e che dice «potrebbe essere una prima spallata decisa al governo attuale».
Anche gli intellettuali europeisti esprimono soddisfazione per l’accaduto vedendovi una giusta reazione da parte delle istituzioni europee, quella che aspettavano da tempo per sanzionare un regime da additare come esempio negativo a tutto il Vecchio Continente. I socialisti sono sulla stessa lunghezza d’onda ma sperano che il tutto non dia luogo a effetti negativi per la popolazione, in termini di interrotta erogazione di fondi comunitari. Questo pensiero, però, non li salva dalle accuse del governo che li considera traditori della patria dal momento che gli eurodeputati di questo partito hanno votato a favore delle sanzioni.
IRONICI, come sempre, quelli del Partito del Cane a due Code (Mkkp) i quali, sulla loro pagina Facebook, si sono complimentati col governo per i suoi nuovi due terzi brillantemente raggiunti al Parlamento europeo. Si tratta però della maggioranza che si è espressa a favore del rapporto di Judith Sargentini.

Repubblica 14.9.18
Le sfide dei sovranisti
Visegrad si schiera con Orbán l’Ungheria sbeffeggia la Ue
I Paesi dell’Est annunciano il veto alle sanzioni contro Budapest: bloccherà gli effetti della mozione
di Andrea Tarquini


Il leader polacco Jaroslaw Kaczynski è stato il primo a mandare al diavolo l’Europarlamento, il premier cèco Andrej Babis l’ha seguito a ruota. E a casa, l’opinione pubblica celebra i " no" che arrivano da Bruxelles.
Per il capo dell’esecutivo sovranista ungherese Viktor Orbán non poteva andar meglio. La sua sembra una vittoria al calcio prevista per l’abilità del suo team e la forza della tifoseria, e causata infine dall’autogoal degli avversari. Mai come ora dalla fine dell’Unione Sovietica e dalla caduta del Muro di Berlino, le due Europe sono state cosí lontane come oggi. Mai come ora, il gruppo di Visegrad (Polonia, Cechia, Slovacchia e Ungheria), spesso affiancato da Austria e Italia, oltre che da altri leader sovranisti, si è sentito cosí forte.
Il fronte Kaczynski- Orbán non è mai apparso cosí facile da difendere. Nei Consigli europei infatti si decide a unanimità e non a maggioranza: Varsavia porrà il veto a qualsiasi sanzione contro l’Ungheria, ha dichiarato il governo polacco. Poco dopo gli si è affiancato Babis: « Noi céchi e gli ungheresi siamo alleati fedeli, noi stiamo dalla parte di Orbán».
Inoltre, l‘ Ungheria ha già annunciato che con tutta probabilità farà ricorso davanti alla giustizia europea per far annullare il voto dell’Europarlamento. Come ha detto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ungherese, Gergely Gulyas, il governo « deciderà lunedì azioni legali concrete ».
Poco importa a questo punto se Fidesz, il partito di maggioranza magiaro, resterà nel Partito popolare europeo o passerà ad altri club come il PiS di Kaczynski, che è nei conservatori.
La Ue è spaccata e debole. E dalla loro, oltre a opinioni pubbliche in maggioranza favorevoli e maggioranze deboli, i leader di Visegrad hanno anche, tutti, un’economia che cresce a ritmi invidiabili.

Repubblica 14.9.18
Orbán e i suoi
Criticano l’Ue ma non escono
di Siegmund Ginzberg


Paradossi d’Europa. Buona notizia: Orbán censurato con 448 voti contro 197 (e 48 astensioni) dal Parlamento europeo. Cattiva notizia: la cosa non avrà esito perché la Polonia, e forse gli altri di Visegrad, metteranno il veto. Cattiva notizia: l’Europa è più divisa che mai, tra Paesi e all’interno di ciascun Paese, anche all’interno dei maggiori schieramenti. Buona notizia: a differenza dell’aria che tirava un paio di anni fa, nessuno vuole più uscire dall’Europa, neanche Ungheria e Polonia, nemmeno i 5 Stelle o Salvini. Per una ragione semplice: perché non gli conviene.
Brexit ha avuto un effetto dissuasorio. Si sta rivelando catastrofica per i promotori. Nigel Farage, entrato nel Parlamento europeo sull’onda dei successi del sovranismo britannico, è ormai un fantasma. Nemmeno Orbán ha preso sul serio il suo invito a iscriversi al club di quelli che vorrebbero lasciare l’Europa. È ultra-sovranista, ma non suicida. Nessuno di quelli che ce l’hanno ora con l’Europa se ne vuole andare. Se ne guardano bene dal chiederlo i polacchi, i cechi, gli slovacchi, i finlandesi, l’Austria o la Slovenia. I sovranisti svedesi erano per la Svexit, ma sono stati inchiodati al 17,6 per cento, pressappoco la percentuale di Le Pen in Francia, della Lega in Italia.
La cosa che più accomuna Orbán e i suoi amici è l’alt feroce all’immigrazione. Ma il paradosso è che proprio l’Europa centrale rischia di pagarlo caro. Non perché passano per cattivi. Per ragioni più solide. La demografia non perdona. In crescita fino alla fine degli anni ’90, la popolazione dei quattro di Visegrad sta cominciando a subire il declino che ha già colpito l’Europa occidentale. Da ora al 2050 si prevede un calo, del 13 per cento, da 64 a 55 milioni, cioè a ritmo più vertiginoso che in qualsiasi altra regione del mondo, ad eccezione del Giappone. Sta venendo meno la spinta propulsiva che li aveva fatti crescere più degli altri europei negli ultimi due decenni. Comincia a mancare forza lavoro. Sarebbero già nei guai se non avessero avuto un influsso di almeno 2 milioni di ucraini. Dovranno prima o poi accogliere immigrati anche loro. Da un recentissimo studio di Ian Goldin dell’Università di Oxford viene fuori che ben due terzi dell’impressionante crescita Usa dal 2011 in poi è attribuibile direttamente all’immigrazione. Se avessero congelato l’immigrazione in Gran Bretagna nel 1990 l’economia sarebbe cresciuta di almeno il 9 per cento in meno. In Germania del 6 per cento in meno. In Italia la già modesta crescita che c’è stata si sarebbe dimezzata, se non azzerata.
Che gli Stati uniti, i più beneficati di tutti dall’immigrazione, abbiano eletto Trump su una piattaforma anti-immigrazione, e i campioni anti- migranti in Europa siano Ungheria e Polonia (dove di migranti ce ne sono in proporzione meno che in qualsiasi altro Paese d’Europa) può sembrare assurdo, ma non è inedito. Nella Germania tra le due guerre l’antisemitismo era più virulento laddove di ebrei quasi non ce n’erano. La pulsione a darsi la zappa sui piedi è storicamente diffusa. Non sarebbe la prima volta che chi più urla e più si agita lo fa contro i propri interessi. Né è detto che si ravvedano a breve termine. Quella specie di Visegrad allargata, di internazionale del totalitarismo, di riedizione degli Imperi centrali che fu l’Europa di Hitler, se la prendeva con gli ebrei esattamente come questi ora se la prendono con gli immigrati.
Sarà bene però ricordare che Orbán non è stato censurato per le politiche sull’immigrazione, ma per le minacce alla democrazia. Anche questo è un elemento che lo accomuna ai suoi amici in Europa. Non per niente a tutti loro piace Putin. Stravotato in Russia come Orbán in Ungheria, come Erdogan in Turchia. Per Trump si vedrà come si mette tra poche settimane. In Cina non ci sono elezioni, indovinate nel caso chi voterebbero con un plebiscito.
Sono tempi in cui la democrazia è svalutata un po’ dappertutto. Perché è inconcludente. Perché è lenta, spesso cerca rimedi quando i buoi sono scappati. Lo stesso si potrebbe dire dell’Europa di Bruxelles ( l’Europa reale contrapposta a quella ideale). Quando andremo a votare tra otto mesi per il rinnovo del Parlamento europeo potrebbe venirne fuori un’Europa ancora più brutta e divisa. Ma quali sarebbero le alternative? A ranghi sparsi, nudi, a dilaniarsi gli uni con gli altri nella crisi che può riscoppiare da un giorno all’altro? Uomini della provvidenza che ci conducono alla catastrofe come negli anni ’ 20 e ’ 30? Un quarto di secolo fa mi capitò di seguire l’allora presidente socialista francese Mitterrand in una visita al Nord desolato. Agli operai che lo ascoltavano parlò del senso dell’Europa. « Le nationalisme c’est la guerre », disse. Pareva semplicistico. Era semplicemente l’essenziale.

Repubblica 14.9.18
Le trincee dei tre leader europei
Angela Merkel
Il crepuscolo della cancelliera intrappolata dalle crisi interne
di Tonia Mastrobuoni


FRANCOFORTE Angela Merkel è troppo debole per sconfiggere i suoi avversari e troppo forte per essere costretta a mollare. Una paralisi, anzi una trappola in cui ha la cancelliera ha anche infilato il suo Paese. La Germania è irrequieta, agitata dallo spettro di un’Afd che raccoglie sempre più consenso man mano che si sposta a destra. Qualche giorno dopo i fatti di Chemnitz, dopo che i capi della destra populista avevano sfilato con neonazisti ed estremisti, un sondaggio ha registrato il sorpasso della Cdu da parte dell’Afd, nella vecchia Germania est. E il capo dei servizi segreti, Maassen, che sta sfidando la cancelliera apertamente da giorni non fa che accentuare l’impressione di una terribile stasi. E’ vero che ad aggravare la situazione si è aggiunto Horst Seehofer, che fa da scudo a Maassen. Ma ieri anche la Spd ha alzato la voce, chiedendo che venga cacciato. Non è assurdo pensare, probabilmente, che in un altro momento della sua carriera, meno crepuscolare, Merkel avrebbe avuto le sue dimissioni già sul tavolo da un pezzo. Certo, nel voto contro Viktor Orban la cancelliera ha giocato un ruolo importante per evitare una spaccatura troppo grave del Ppe. Ma il potere che irradia dalla Kanzlerin non è più lo stesso di una volta. Tuttavia, chi la conosce bene assicura che "mai e poi mai" la cancelliera lascerebbe nel 2019 per conquistare una poltrona a Bruxelles. Primo, per il suo proverbiale senso di responsabilità: la cancelliera ha accettato ricandidarsi dopo una lunga e tormentata riflessione. E dunque intende onorare il suo impegno fino alla fine della legislatura o, almeno, finché non avrà preparato il terreno per un successore credibile.
Soprattutto, in una situazione politicamente difficile come quella che la Germania attraversa ora.
Infine, perché rinunciare allo scettro da cancelliera, che comunque pesa ancora di più di qualsiasi poltrona a Bruxelles?

Repubblica 14.9.18
La sfida del ministro
Salvini chiude ancora i porti però sui migranti è in difficoltà
Annunciata la linea dura contro 7 barchini. Il decreto è fermo: rischio di incostituzionalità
di Alessandra Ziniti


Roma Sette barchini con 62 migranti in navigazione in acque maltesi verso l’Italia. Matteo Salvini è pronto ad una nuova battaglia: « Malta faccia il suo dovere, in Italia non sbarcheranno. Porti Chiusi, mi indaghino pure » . Non basta, il ministro commenta anche con sarcasmo la notizia che 42 migranti che erano a bordo della nave Diciotti potrebbero costituirsi parti civili contro di lui. «Siamo alle comiche. Su ordine della Procura di Palermo la polizia di Ventimiglia sta cercando decine di clandestini scomparsi perché possano denunciare per sequestro di persona il ministro dell’Interno. Per me sono altre 42 medaglie ».
Ma la strategia antimigranti del vicepremier sta incontrando più di una difficoltà. E non è detto che i decreti con cui vuole imprimere la sua stretta approderanno la prossima settimana in Consiglio dei ministri come pure ha annunciato: quello sulla sicurezza sì, quello sull’immigrazione forse. Molte sono le riserve politiche ( di parte del M5S) e tecniche ( dei funzionari del Viminale) soprattutto alla luce del nuovo monito del presidente della Repubblica. E alcuni dei punti del decreto immigrazione sembrano decisamente " saltare" quei principi costituzionali dei quali il Capo dello Stato, che il decreto deve firmare, è il custode. La "moral suasion" tecnica al Viminale continua, anche l’Alto commissario Onu per i rifugiati Filippo Grandi, che ha incontrato Salvini e Conte, si appresta a fornire "osservazioni tecniche" sul decreto. Le parti contestate sono quelle che riguardano l’abrogazione della protezione umanitaria, la revoca dei permessi senza aspettare la condanna definitiva per una serie molto estesa di reati e il trattenimento dei migranti irregolari non solo nei centri per il rimpatrio ( che è una detenzione amministrativa) ma anche in strutture delle questure.
Il testo del decreto che contiene invece 34 articoli di " disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, prevenzione e contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa", è ormai definito. E la novità è una norma per prevenire attentati di stampo terroristico come quelli compiuti a Nizza, Berlino o Barcellona, con Tir lanciati sulla folla. Le aziende di noleggio saranno obbligate a comunicare al Centro elaborazione delle forze di polizia, con anticipo rispetto alla consegna del mezzo, i dati identificativi riportati nella carta di identità di chi ne fa richiesta. Tra i provvedimenti il potenziamento dei sistemi informatici con uno stanziamento di 16 milioni per il 2018 e di altri 300 fino al 2025, ma anche l’estensione del Daspo urbano ai soggetti sospettati di far parte di organizzazioni di terrorismo internazionale. Dunque anche una misura amministrativa per chi può essere già colpito da espulsione per motivi di sicurezza.
C’è poi il capitolo della lotta alle occupazioni abusive. Innanzitutto pene raddoppiate per chi occupa, da due a 4 anni di carcere, predisposizione di un piano nazionale che dispone la ricognizione degli edifici da liberare ogni sei mesi. Tocca poi ai prefetti, entro 60 giorni, provvedere agli sgomberi anche con la forza pubblica.
Il decreto prevede poi il rafforzamento delle strutture impegnate nella lotta alla criminalità organizzata, a cominciare dalle nuove 70 unità che verranno assegnate all’Agenzia dei beni confiscati.

Repubblica 14.9.18
La sfida sui migranti
Berlino: sui profughi c’è l’intesa con Roma Ma l’Italia gela Seehofer
Salvini in serata fa saltare il tavolo: "Dovrei fare un favore ai tedeschi soltanto perché sono in campagna elettorale?"
di Carmelo Lopapa


Vienna Francoforte Il governo tedesco annuncia con enfasi l’accordo chiuso con l’Italia sui "migranti secondari". Rimandare nei nostri confini i richiedenti asilo approdati sulle coste della Penisola e finiti in Germania è da tempo il pallino che il falco della Csu Seehofer tenta di mandare in buca. Ancora più adesso, a un mese dal decisivo voto in Baviera. In serata quell’accordo invece Matteo Salvini lo straccia, anzi, fa sapere che non si è mai chiuso e che non verrà affatto ratificato nel vertice informale dei ministri Ue oggi a Vienna. «Non intendo affatto fare un favore ai tedeschi solo perché impegnati in campagna elettorale», attacca. Così, in Europa, l’Italia "sovranista" è sempre più sola.
«L’accordo con l’Italia è concluso. Mancano le due firme del collega italiano e la mia», afferma il ministro dell’Interno tedesco, Horst Seehofer, parlando al Bundestag dell’accordo sul respingimento dei migranti registrati in Italia e fermati al confine tedesco. Il titolare del Viminale finora si è detto pronto a firmarlo solo se "a saldo zero", cioè se la Germania riprenderà a sua volta un numero equivalente di immigrati approdati sulle coste italiane. Sembrava un dettaglio, si è rivelato uno scoglio sul quale l’intesa sembra infrangersi. Seehofer, che col suo Csu nelle elezioni in Baviera del 14 ottobre rischia di perdere per la prima volta la maggioranza assoluta, non può permettersi di offrire il fianco agli oppositori interni riportando in patria altri migranti. In un primo momento, fonti del Viminale lasciano filtrare l’indisponibilità a siglare quell’accordo a meno che non lo si chiuda per il futuro, lasciando immutata la situazione attuale. In serata, il vicepremier italiano perde le staffe e fa saltare il tavolo: «Ma per quale motivo dovrei fare un favore al governo tedesco e al partito della Merkel solo perché lì sono in campagna elettorale? Io non accolgo un solo immigrato in più se non prendono i nostri. I tedeschi possono aspettare, almeno fin tanto che l’Europa non si decida a risolvere il problema italiano ». E l’asse con Seehofer? La possibile alleanza dell’internazionale sovranista con i popolari, dopo le Europee di maggio? Anche qui il numero uno del Carroccio è tranchant: «In Europa il Ppe è alleato coi miei avversari, con la sinistra del Pse, non c’è alcun motivo per stringere adesso accordi con loro», è la sua replica. Per lui l’intero governo Merkel, destra interna inclusa, «è inaffidabile». Una strategia per alzare il prezzo e costringere Seehofer a firmare stamattina alle sue condizioni? Sta di fatto che ieri sera a Vienna, sede del vertice informale di oggi, non davano nemmeno per confermata la presenza del tedesco ai lavori.
L’accordo che Seehofer ha comunque annunciato in linea di principio dovrebbe funzionare sul modello delle intese raggiunte a luglio con Spagna e Grecia. In quei casi, applicando gli accordi di Dublino alla lettera, Berlino rispedirà nei due Paesi mediterranei un certo numero di profughi che erano stati registrati prima lì, in cambio di un tot di ricongiungimenti familiari verso la Germania. Ma il negoziato con l’Italia ha lasciato aperta anche la questione delle modalità dello scambio. I tedeschi insistono per spedirli direttamente, in aereo, mentre Salvini starebbe insistendo per farli passare per l’Austria. Altro dettaglio non secondario: presupporrebbe il via libera di Vienna. E cosa succederebbe se il migrante chiedesse asilo durante il viaggio? In ogni caso, i numeri dimostrano quanto sia ridicola l’isterìa scatenata da mesi da Seehofer (e Salvini) in funzione anti Merkel. Da giugno gli arrivi alla frontiera tra Germania e Austria sono: zero dalla Spagna, 2 dalla Grecia, 113 dall’Italia. Quanto ai cosiddetti migranti secondari, cioè i richiedenti asilo in Italia poi approdati in Germania e in qualche modo rintracciabili, stando a calcoli informali che circolano alla Farnesina sarebbero circa duemila.
Il commissario europeo per le Migrazioni, Dimitris Avramopoulos, fa sapere che vedrà oggi il vicepremier italiano «per una discussione franca e aperta». Ma avverte: «Chi dice ai cittadini che la sfida dell’immigrazione sparirà se si erigono dei muri o se si intraprendono iniziative isolate non europee, sbaglia e non è sincero e onesto con i propri cittadini».

Corriere 14.9.18
Nato nel 1400 a Venezia il diritto d’autore va tutelato anche oggi
di Massimo Sideri


Siamo tutti abituati a chiamarlo copyright in virtù del primato di diffusione della lingua inglese, ma il primo diritto d’autore della storia venne concesso a Giovanni da Spira nel 1469 in quella che era, a tutti gli effetti, una Silicon Valley ante litteram: Venezia. È per questo che la vittoria ottenuta all’Europarlamento con la nuova legge che disciplina il diritto d’autore online è per molti versi italiana: siamo stati i primi ad applicare il principio della difesa dei testi, il cosiddetto privilegio di stampa, non solo dal punto di vista creativo, ma anche economico. Erano quelli gli anni delle grandi sperimentazioni che avrebbero avuto una eco mondiale: alla fine del XV Secolo arrivò in città Aldo Manuzio, il leggendario editore padre del libro tascabile e del corsivo (non a caso il termine inglese corrispondente è italics). Certo, la storia non può essere un ripetersi acritico di eventi. Ma se il governo, attraverso la voce del vicepremier Luigi Di Maio, ha manifestato una posizione contraria alla nuova legge, dovremmo considerare anche che la paternità del diritto d’autore ci dovrebbe spingere in maniera forse più naturale a essere capofila di questa importante innovazione, senza la quale la conoscenza non sarebbe stata protetta nei secoli. Il dibattito che si ripropone oggi in relazione all’utilizzo di testi, opere musicali, film e articoli da parte dei grandi gruppi della tecnologia online, da Google a Facebook, Microsoft ed Apple, è per molti versi simile a quello del 1469: allora fu la rivoluzione portata dalla stampa a caratteri mobili di Gutenberg e del feltrino Panfilo Castaldi a favorire la «vitalità» del libro e anche la possibilità di «copiarlo» con maggiore facilità senza dare nulla a scrittori ed editori. Oggi lo stesso rischio, molto più amplificato, è legato a Internet. In economia si direbbe che per difendere il lavoro creativo e quello intellettuale il valore d’uso (la diffusione virale) deve coincidere con il valore di scambio (il pagamento). Dunque la domanda da porsi è questa: cosa sarebbe capitato dal 1469 ad oggi senza l’innovazione veneziana?

il manifesto 14.9.18
In tre mesi il 500% in più di bimbi migranti in cella
Stati uniti. Da maggio il numero è salito da 2.400 a 12.800. Non perché ne entrino di più illegalmente, ma perché i familiari senza documenti hanno paura a farsi avanti per riprenderli
di Marina Catucci


NEW YORK Il New York Times ha rivelato che, nonostante centinaia di bambini separati dalle loro famiglie dopo aver attraversato il confine Usa siano stati rilasciati per ordine del tribunale, il numero di minorenni immigrati detenuti nelle prigioni federali statunitensi dalla scorsa estate, si è quintuplicato, raggiungendo il livello più alto mai registrato: la cifra record di 12.800 minori in custodia. A maggio 2018 ce n’erano «solo» 2.400.
A quanto pare l’aumento non è dovuto al fatto che più bambini attraversino il confine statunitense, ma a una riduzione del numero di minori rilasciati per andare a vivere con i familiari che fanno da sponsor: i parenti senza i documenti in ordine hanno sempre più paura di farsi avanti e di sponsorizzare i minori, molti dei quali entrano nel Paese da soli.
I lavoratori delle reti di accoglienza hanno dichiarato al quotidiano newyorchese che questo sistema, che sparge timore nelle comunità di immigrati, sta mettendo a dura prova tanto i bambini quanto le strutture che si prendono cura di loro. La maggior parte dei minori che attraversano il confine da soli sono adolescenti provenienti dall’America centrale e sono ospitati in oltre 100 centri di accoglienza sparsi per gli Stati uniti, con la più alta concentrazione vicino al confine sud-occidentale.
Da maggio in poi i centri si sono riempiti fino a raggiungere il 90% della loro capacità, mentre un anno fa erano occupati per circa il 30%. «Più ci si avvicina al 100%, meno si è capaci di gestire qualsiasi flusso di ingressi imprevisto», ha dichiarato Mark Greenberg, che supervisionava la cura dei bambini migranti per il Dipartimento della salute e dei servizi umani sotto il presidente Obama.
L’amministrazione Trump ha annunciato che, per far fronte al problema, entro la fine dell’anno triplicherà le dimensioni di una tendopoli temporanea a Tornillo, in Texas, che può ospitare fino a 3.800 bambini. I difensori degli immigrati e i membri democratici del Congresso hanno reagito alle notizie con angoscia, perché le condizioni di queste grandi strutture sono molto più rigide rispetto ai centri di accoglienza tradizionali.
Le autorità federali hanno dichiarato di avere a che fare con un grosso numero di attraversamenti illegali delle frontiere e richieste di asilo. «Il numero di bambini stranieri non accompagnati è un sintomo della più ampia questione di un sistema di immigrazione difettoso», ha detto Evelyn Stauffer, segretario stampa del Dipartimento di salute e servizi umani.
Il sistema di protezione dei bambini migranti è entrato sotto esame quest’estate, quando oltre 2.500 bambini separati dai genitori sono stati ospitati in centri di accoglienza federali sparsi per il Paese, a causa della politica di tolleranza zero di Trump che usa la separazione delle famiglie come deterrente per gli ingressi illegali e le richieste di asilo. Quei bambini ora sono solo una frazione del numero totale dei minori attualmente detenuti.

il manifesto 14.9.18
«In Brasile 13 femminicidi al giorno: è una guerra contro le donne»
Intervista. Incontro con l’artista brasiliana Adelaide Ivánova, oggi al Babel Festival: «Il femminismo va pensato all’interno della lotta di classe: impossibile separare questa maschilità tossica da neoliberismo e razzismo»
di Claudia Fanti


In Brasile «mimimi» è l’espressione colloquiale che viene usata per prendersi gioco di chi non fa che lamentarsi. Averla scelta come titolo di un’opera che si propone di denunciare il fenomeno del femminicidio dice già molto della potenza espressiva dell’autrice, la scrittrice e attivista politica brasiliana (ma residente in Germania) Adelaide Ivánova.
Ospite oggi al Babel festival di letteratura e traduzione che si svolge quest’anno a Bellinzona dal 13 al 16 settembre – un’edizione dedicata al Brasile con tutti i suoi stupefacenti chiaroscuri – la poliedrica artista brasiliana (impegnata sui diversi terreni della poesia, la fotografia e l’editoria) ha accettato di rispondere ad alcune domande sulla sua opera e sui nessi tra questione di genere, capitalismo e razzismo da cui la sua ricerca è attraversata.
In un mondo in cui le immagini influenzano la nostra percezione della realtà, formano le opinioni, condizionano le nostre idee, contribuiscono a costruire le nostre certezze, con il loro potere di svelare ma anche di manipolare, di provocare indignazione ma anche di spingere all’indifferenza, cosa ti sei proposta con la ricerca iconografica di «Mimimi» sui più importanti casi di femminicidio e di esecuzioni capitali delle attiviste politiche in Brasile?
Si tratta di una performance divisa in quattro parti, la prima delle quali relativa a fotografia e femminicidio, la seconda a femminicidio e maternità, la terza, che viene ora presentata al Babel Festival di letteratura e traduzione, a stupro e poesia e la quarta a misoginia e immigrazione. Gli obiettivi che mi pongo con tale ricerca sono vari. Il primo appare già nell’ironia del titolo: quello di gettare in faccia allo spettatore la violenza del linguaggio che minimizza o ignora le testimonianze di chi soffre sulla propria pelle il razzismo, il sessismo, il classismo. Ciò che si definisce «mimimi» noi lo chiamiamo assassinio di donne, femminicidio. Un altro aspetto è quello di porre il femminicidio accanto a situazioni di conflitto: se viviamo in un Paese in cui vengono assassinate tredici donne ogni giorno, possiamo dire che siamo in guerra contro le donne? È per questo che uso il testo di Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri: perché in esso l’autrice parla della relazione tra immagine e guerra usando, per contestualizzare, la sua esperienza nella guerra dei Balcani.
Infine, il mio obiettivo era quello di lavorare sulla nostra stessa percezione della visibilità: un’immagine non è solo una cosa che si vede con gli occhi, ma la facoltà di rendere una cosa invisibile ha sempre a che fare con una scelta politica. Per esempio, il fatto che nel 99% dei casi di stupro non si arrivi a una condanna – parliamo della media mondiale – è un modo per rendere invisibili milioni di donne. È per questo che io non proietto le foto, ma mi limito a descriverle dettagliatamente. Cerco di generare, nello spettatore, il disagio dell’invisibilità che noi viviamo quotidianamente.
L’artista brasiliana Adelaide Ivánova
Nell’impeachment mosso contro Dilma Rousseff quanto ha pesato il fatto che fosse una donna?
Non sono in grado di dire se e quanto il suo essere donna sia risultato decisivo, ma è piuttosto evidente che vi sia stato un aspetto misogino non solo nella motivazione dell’impeachment, ma anche nel modo in cui si è svolto il processo. Temer e i membri del Movimento Democrático Brasileiro hanno adottato strategie apertamente sessiste nei confronti di Dilma Rousseff. E il dibattito sui mezzi di comunicazione golpisti è stato anch’esso sempre «genderizzato».
In un Paese in cui vengono assassinate tredici donne ogni giorno – il quinto al mondo per numero di femminicidi – non risulta preoccupante che un candidato come Jair Bolsonaro, che mostra così poco rispetto per le donne, dopo la bocciatura della candidatura di Lula figuri al primo posto nei sondaggi?
In realtà, risulta al primo posto ma con una percentuale piuttosto bassa: solo il 24% delle intenzioni di voto. Dall’altro lato, l’indice di disapprovazione nei suoi confronti è enorme: è il 43% dell’elettorato brasiliano a opporsi alla sua candidatura. Vuol dire che è assai improbabile che possa vincere un eventuale ballottaggio. Per quanto sia triste, non dovrebbe sorprendere che un paese che uccide tredici donne e ne violenta molte altre ogni giorno (al ritmo di uno stupro ogni undici minuti) pensi di eleggere una persona che rappresenta proprio tutto questo. Ma pensiamo anche a ciò che questo indica in relazione alla disuguaglianza sociale e alla distribuzione della ricchezza: il candidato fascista riceve molti più voti al sud e al sud-est, che è la parte più ricca del paese e anche la più razzista. Nel nord-est, la regione più povera dove Lula contava sul 60% delle intenzioni di voto, questo candidato non verrebbe mai eletto. Non a caso, il programma di governo di Lula (e ora di Fernando Haddad) prevede anche misure di rafforzamento della Legge Maria da Penha (contro la violenza nei confronti delle donne) e la riapertura del dibattito sulla depenalizzazione dell’aborto.
In tanti parti del mondo le donne si organizzano e scendono in piazza. La resistenza al capitalismo ha oggi un volto prevalentemente femminile?
In realtà c’è ancora una parte enorme del femminismo che ignora, inconsapevolmente o per scelta, le questioni di classe. Credo che la resistenza al capitalismo abbia una connotazione femminista sempre più pronunciata, ma che vi sia ancora molto da fare. Ci stiamo lavorando.
Di fronte all’impossibilità di lottare contro il capitalismo senza combattere allo stesso tempo la costruzione socioculturale del patriarcato, quali sono i compiti principali per le donne?
Di certo è impossibile separare questa misoginia, questa maschilità tossica, da un pensiero neoliberista, capitalista, classista, razzista. La questione patriarcale non solo presenta una stretta connessione con la costruzione del capitalismo, ma è anche uno dei fattori da cui il capitalismo dipende. Nell’area della produzione culturale, direi che i compiti da portare avanti sono quelli di pensare il femminismo all’interno della lotta di classe e di usare la produzione culturale come una piattaforma che mescoli fruizione politica e fruizione poetica e principalmente come strumento per invitare/ispirare le donne ad agire e a intervenire nelle proprie comunità.

La Stampa 14.9.18
Grave il leader delle Pussy Riot
Si teme sia stato avvelenato
di Giuseppe Agliastro


Pyotr Verzilov versa in «gravi condizioni». Si teme che sia stato avvelenato. Trent’anni, membro di primissimo piano della band anti-Putin “Pussy Riot”, Verzilov è stato uno dei protagonisti dell’invasione di campo della finale dei Mondiali. Furono lui e tre ragazze del gruppo punk a irrompere sul terreno di gioco travestiti da poliziotti per protestare contro le persecuzioni politiche in Russia. Pyotr ha cominciato a sentirsi male martedì sera ed è stato ricoverato d’urgenza in un ospedale di Mosca. Aveva difficoltà a vedere, parlare e muoversi.
Il secondo mistero
La notizia è arrivata poche ore prima che il Cremlino diffondesse la sua versione ufficiale su un altro caso misterioso: quello dell’ex spia doppiogiochista Sergey Skripal e di sua figlia Yulia, avvelenati a Salisbury il 4 marzo con una sostanza nervina. Ieri i due russi sospettati dalle autorità britanniche hanno raccontato in tv che se si trovavano nella cittadina inglese proprio nel giorno del tentato omicidio è stato per puro caso: loro - assicurano - erano lì solo come turisti, per ammirare «la famosa cattedrale» gotica. Parole che confermano quanto dichiarato il giorno prima da Putin. Ma che non convincono molti osservatori. E men che meno il governo di Sua Maestà, che ieri è tornato ad accusare Mosca di «mistificazioni e menzogne». Secondo Putin, i due «non hanno commesso alcun reato» e non sono ufficiali della temibile intelligence militare russa (Gru) come sostengono gli inglesi, che ne avevano già diffuso le immagini catturate dalle telecamere di sicurezza. In tv loro hanno detto di chiamarsi Aleksandr Petrov e Ruslan Boshirov. Sono gli stessi nomi che secondo Scotland Yard comparivano sui loro passaporti. Ma con la differenza che per i britannici si tratta con ogni probabilità di identità fittizie. Inoltre non è chiaro perché siano andati due volte a Salisbury. Prima in ricognizione e poi per uccidere, spiegano da Londra. I diretti interessati invece raccontano di essere andati subito via la prima volta perché le strade erano piene di «neve mista a fango».
Sospetto avvelenamento
Anche il presunto avvelenamento di Verzilov resta un giallo. Il collettivo Pussy Riot teme per la sua vita. A non essere chiaro è cosa lo abbia ridotto così. I medici, stando ai familiari del dissidente, ipotizzano un’intossicazione da farmaci anticolinergici, usati contro capogiri, ulcera, insonnia e asma. Ma amici e familiari si dicono sicuri «al mille per cento» che Piotr non abbia assunto alcun medicinale del genere. Almeno non di sua volontà.

La Stampa 14.9.18
Passata la legge
I resti di Franco saranno tolti dal memoriale
di Francesco Olivo


Il governo spagnolo parla di giornata storica: «Non ci può essere concordia, né pace, finché il dittatore è sepolto accanto alle sue vittime» scandisce la vicepresidente Carmen Calvo. Il parlamento di Madrid ha convertito in legge il decreto che autorizza lo spostamento dei resti di Francisco Franco dalla Valle de los Caidos, il mausoleo che lo stesso Caudillo aveva fatto costruire vicino Madrid come omaggio ai morti della Guerra Civile. La data non c’è ancora, il governo di Pedro Sanchez sperava di andare più spedito. Il progetto originario era di procedere entro lo scorso luglio, ma vari ostacoli hanno causato il ritardo, primo fra tutti l’opposizione della famiglia del dittatore a trovare una sepoltura alternativa. Altro problema è sorto con l’atteggiamento ostile dei monaci benedettini della basilica, sotto il cui altare è sepolto Franco.
Atto storico
Ora, con la legge approvata, l’atto simbolico che la sinistra spagnola aspettava da 4 decenni si può compiere. L’esecutivo socialista stavolta ha evitato di indicare date specifiche, si sa soltanto che la riesumazione avverrà prima della fine del 2018. Un periodo adatto potrebbe essere novembre, quando si celebreranno i 40 anni della costituzione democratica del ’78. Il governo si sente orgoglioso della scelta, ma parte della società ha vissuto questa decisione come la riapertura di alcune ferite non sempre rimarginate. Da quando è arrivato l’annuncio del governo, ad esempio, le visite al mausoleo sono più che triplicate. Così, per evitare le possibili proteste dei nostalgici, l’esecutivo potrebbe annunciare la rimozione a cose fatte.
L’approvazione della Camera non è stata unanime: l’opposizione di centrodestra, Partito popolare e Ciudadanos, si è astenuta, adducendo questioni formali (era un decreto governativo e non una legge del parlamento), ma è chiaro che una parte dell’elettorato conservatore non avrebbe approvato una scelta diversa. La carica emotiva della seduta è stata molto alta: nelle tribune le associazioni delle vittime del franchismo si scioglievano in lacrime, mentre fuori si confrontavano gruppi di manifestanti, da un lato i repubblicani, dall’altro i franchisti.
Le incognite restano su cosa fare del mausoleo, dopo la riesumazione del Generalissimo. L’enorme monumento, costruito grazie al lavoro dei prigionieri repubblicani, potrebbe essere convertito in un museo della memoria della dittatura, ma il progetto è molto complesso. Sotto l’immensa croce sono sepolti circa 33 mila combattenti della guerra, spesso anonimi.

il manifesto 14.9.18
Guido Ceronetti, un asceta sedotto dall’inferno
ADDII. A 91 anni è morto nella sua casa di Cetona il poeta, filosofo e drammaturgo, nato a Torino nel 1927. Col «Silenzio del corpo» aveva dato l’immagine compiuta di sé, nello sfrangiarsi. Dopo, solo l’abisso. Fu anche traduttore di Marziale, Catullo, Giovenale con versioni che somigliavano a riscritture degli antichi
di Raffaele Manica


Pieno di imperfezioni, di manie e di humour, ferito e senza il dono dell’illusione, come lo vide Cioran in uno dei suoi Esercizi di ammirazione, non si crede che, scomparso ieri a novantuno anni, Guido Ceronetti sia diventato infine un maestro, se non per una schiera di affezionati suoi lettori, per i quali maestro era da sempre. Radicalmente mite e mitemente radicale, fragile e forte insieme, la sua figura – per eccellenza antimoderna e naturalmente aristocratica nel pensiero – è stata variamente controversa e controcorrente: un inattuale che scriveva per i giornali trovando misure irreplicabili per originalità (ma variamente quanto goffamente imitate). Ceronetti ha camminato nel nostro secolo al modo di un flâneur che coglie nel corpo i segni dell’anima e nel pensiero i sintomi del corpo.
QUESTO DICEVA IL LIBRO che lo fece incontrare con molti suoi lettori dal 1979 in poi, Il silenzio del corpo: un libro del sintomo e del segno, indicatore di un’introspezione portata a diventare visione del mondo. Scriveva Cioran (1983) che il libro era emanato «da un’esigenza di purezza» e attestava «un gusto innegabile per l’orrore» e che dunque Ceronetti poteva dirsi «un eremita sedotto dall’inferno. Dall’inferno del corpo. Segno certo d’una salute precaria, anzi minacciata: sentire i propri organi, esserne coscienti fino all’ossessione. La maledizione di trascinarsi dietro un cadavere è il tema stesso di questo libro. Da un capo all’altro – una sfilata di segreti fisiologici che vi riempiono di sgomento». E ancora: «Leggendo Il silenzio del corpo ho pensato più volte a Huysmans, in particolare alla sua biografia di Santa Lydwine de Schiedam. Salvo per l’essenziale, la santità dipende dalle aberrazioni degli organi, da una serie di anomalie. Nessun eccesso interiore senza un substrato inconfessabile, dato che l’estasi più eterea ricorda per certi aspetti l’estasi bruta» (non si vorrebbe mai andasse smarrita la suprema ironia – nel pozzo del tragico – sia di Cioran sia di Ceronetti: «Salvo per l’essenziale, la santità dipende…», come era tra laude e ironia l’esergo del volume, da Paolo ai Corinzi: «glorificate Dio per mezzo del vostro corpo»).
CERONETTI, col Silenzio del corpo aveva dato l’immagine compiuta di sé, nello sfrangiarsi. I libri venuti dopo sono il perfezionamento di quell’abisso, la varia specificazione di questi «materiali per studio di medicina», con bilanciamenti di diversa indole e disperatamente sereni, a cominciare dai Pensieri del Tè (1987): saggi, aforismi, perforazioni. Ci si può immaginare Ceronetti, «salvo l’essenziale», in una zona del nostro Novecento tra Manganelli e Testori: visionari con regolari accensioni di stile, febbri intermittenti, lucidità scoraggianti, sarcasmi, Dio e Nihil. La zona è quella. A chi appartiene dei tre un passaggio come questo? La citazione è un po’ lunga, ma è piena di indizi: «In gioventù ho detestato Sciltian, alfiere accademico, calligrafo maniaco, poi non ci ho più pensato, vistone di rado qualcosa; era quasi del tutto dimenticato. Pensavo di fargli un’intervista, proprio perché personaggio così polveroso e venuto di lontano, violino di chissà quanti ricordi, e di cercarlo a Roma, dove abitava. Le idee io non le piglio dal computer: questa mi era venuta da un cappello. Anzi ma un mare di cappelli. Tutti di Alessandria. Tutti Borsalino. Ecco una cosa che i più arganici critici d’arte ignorano: Gregorio Sciltian ha sempre portato il cappello. ’Da cinquant’anni porto cappelli Borsalino’ dice in una lettera datata 5 dicembre 1984, che mi è stata mostrata in un fluire mitissimo di feltri. Memoria di ferro: ricordava esserci una pittura sua, del 1929, di proprietà della Borsalino, e la richiedeva al suo attuale Presidente per una retrospettiva, o per riprodurla in uno di quei volumi d’arte che vanno in strenna agli industriali con cui si è sofferta una Colazione di Lavoro, agli urologi dopo una prostata finita bene, a volte ai Pontefici, in cambio di una mezzaluna benedetta. Lo Sciltian era stato comprato da Teresio Borsalino quando l’artista aveva studio a Parigi. Il grande Borsalino aveva pagato, signorilmente, in cappelli e Gregorio gli aveva dato un quadro con cappelli, certamente Borsalino».
Rinunciando al gioco delle tre carte, si tratta di una pagina di Albergo Italia (1985), non proprio un altro volto di Ceronetti, ma il completamento della sua Hilarotragoedia. E, a proposito di interviste, indimenticabili le Interviste impossibili di metà anni settanta per la radio ad Attila, George Stephenson, i fratelli Lumière, Jack lo Squartatore e, nientemeno, a Pellegrino Artusi, che ci si sarebbe aspettati di mano di Manganelli: ma la scelta degli intervistati è tutta singolare, forse antifrastica rispetto all’intervistatore. Anche da qui si può vedere come Ceronetti, con parole ancora di Cioran, avesse «tentazioni contraddittorie» e dunque «un debole evidente per il marciume» ma anche per «ciò che vi è di puro nella saggezza visionaria o disperata dell’Antico Testamento».
MA QUANTE COSE ha fatto questo asceta: uno sbircia il risvolto di Albergo Italia e legge un’informazione che non può non essere di mano dell’autore: «Guido Ceronetti, dilettante, traduce, sempre in versi, antichi testi di rivelazione e di poesia». Traduttore dal latino di Marziale, Catullo, Giovenale con versioni così particolari da somigliare a riscritture degli antichi, con rifacimenti in soggettiva che potevano non piacere per vari motivi: non dediti al culto della bellezza ma della sostanza, erano tuttavia di una loro segreta fedeltà agli originali (chi ha già visto il suo Orazio riferisce di una felice soluzione dell’enigma del tradurre). Sia detto con una formula da riportare a postura non consunta: nascevano dalla necessità di incontrare altri tempi e altri spazi, servendosi di una libertà di lettura sempre in atto e che stavolta aveva preso consistenza nel tradurre poesia, come altre volte in cose e fatti. Quasi allo stesso modo si presentavano, ma con più incantamento e meno conflitto, le sue versioni dai libri poetici o terribili della Bibbia: Salmi, Qohèlet, Cantico dei Cantici, Giobbe, Isaia.
LE DUE SUE PASSIONI profonde: la poesia praticata per tutta la vita e consegnata a un volume già riepilogativo nel 1987, Compassioni e disperazioni, al quale si sono aggiunti vari séguiti e riepiloghi, come La distanza (1997); e il teatro: dal 1970 in poi parte della sua vita è dedicata al Teatro dei Sensibili e alle sue marionette. Viaggiò, infine; soprattutto in Italia: un resoconto è Un viaggio in Italia (1983) dove è più manifesto il desiderio di presentarsi quale scrittore satirico. Il senso di questo viaggio è in Albergo Italia: «Un albergo del malessere del fastidio e dell’insonnia. Qua e là, sempre più, dell’ansia, della paura. Ma ha il fascino dei Grandi Alberghi declassati, con le lapidi che ricordano i soggiorni degli Imperatori e dei musici; e poi è il mio»; e continuava: «Tutti frequentano frenetici l’Estero; i più dei miei viaggi io li faccio su e giù per questo albergo dove compensi al malessere e alla vergogna sono una quantità di angoli immaginari, tante stanze non occupate e senza numero sulla porta»: una bella similitudine, adesso, per la sua opera.
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SCHEDA: Teatro dei Sensibili in appartamento
Il Teatro dei Sensibili è un teatro di appartamento, fondato nel 1970 da Guido Ceronetti e dalla moglie Erica Tedeschi nella loro abitazione di Albano Laziale, che si caratterizza per l’uso delle marionette ideofore cui l’attore dà voce e corpo. Riservato a pochi intimi – tra cui Eugenio Montale, Guido Piovene, Valentino Bompiani, Buñuel e Fellini -, nel corso degli anni è divenuto itinerante, pubblico dal 1985. Tra i primi spettacoli il Macbeth (anni ’70, in appartamento) e «Lo Smemorato di Collegno».

Il Fatto 14.9.18
Il funambolo snodabile con l’allergia per l’ovvio
È scomparso a 91 anni Guido Ceronetti
di Pietrangelo Buttafuoco


Avolte uguale, col Tragico tascabile, a uno dei tanti schizzi sfuggiti ai taccuini di Federico Fellini – poliforme, polifonico e plurale – fu, con Insetti senza frontiere, come persona del Dramatis Personae di un Ermanno Cavazzoni o come fantasma di un Eugène Ionesco. Sgamato nell’anagramma “Ugone da Certoit”, scambiato spesso per un cappello o, manco a dirlo, per Geremia, in virtù del suo stesso pseudonimo “Geremia Cassandri”, l’uomo Ceronetti – in carne e ossa, in vestaglia, occhiali e camicie spiegazzate – fu sempre se stesso fino a diventare un genere, un modo e un’unica maniera.
Sempre abile a sciorinare le taglienti sentenze della sapienza, al punto di rintuzzare schifato chi prendeva a calci la bara di Erich Priebke (e sempre a dispetto delle noterelle a margine nei convenevoli di società; meno che mai quelli della società letteraria) fu solo, e sempre nella lucente solitudine del pezzo raro.
Scrittore, che fu anche poeta – squillante apostrofo, tra le prime firme nell’accigliata verve brezneviana de La Stampa, il quotidiano della sua Torino – ebbe l’acume del filologo nel virtuosismo del cesello.
Così nel ruolo del biblista (senza tema di sfigurare col cardinal Martini), quindi da traduttore di Catullo – esegeta dell’aura latina in ogni propaggine, perfino la santa messa di San Pio nel rito amato da Cristina Campo – e poi da notista, da editorialista e per svelarsi definitivamente attore. E sempre presente a se stesso.
Quattro giorni fa ha avuto impartito il consalamentum, l’estrema unzione della tradizione. Ancora prima – guadagnando il traguardo del tribolo, issando lo sfibrarsi dei suoi 91 anni su un deambulatore – ha come spento, una dopo l’altra, le luci della ribalta per ogni urto al cuore, per ciascun focolaio ai bronchi, e ai polmoni, e arrivare smarrito – ma presente a se stesso – al sipario dell’ischemia. Nel copione chiamato destino. Quello stesso titolo, il destino, cui rivolgeva l’inchino svelando il perché recondito del suo estremo dasein – l’essere lì, a Cetona, nelle colline senesi – senza soldi ma ricco dell’ammirazione altrui. E sono sempre a gratis i complimenti verso gli scavalcamontagne cui non manca immaginazione e voce (e colore) per fabbricare e animare le marionette nel teatro domestico, come faceva lui offrendo agli amici l’irripetibile e già perfetto istante dell’arte.
Attore, appunto. Puparo, a voler precisare, raccontatore dell’illimitato nel limite circoscritto di tinello e cucinino, assistito dalla moglie Erica Tedeschi – il suo Teatro dei Sensibili – fu l’unico a inverarsi nell’epigramma del suo amato Marziale: “I versi sono miei ma se li reciti male, ecco, diventano tuoi!”. E fu tutto suo quel mondo – italianissimo e latinissimo – a sola sua esclusiva immagine e somiglianza. Sua l’invettiva sulle “menzogne nostre, italofone”. È scritto tutto nell’intervista rilasciata a Silvia Truzzi, andate a rileggervela nel sito del nostro giornale ed è eco di paroliberismi puntuti, taglienti, salvifici contro “bugie povere, senza grandezza, spurghi del pensiero unico che si maschera di anglismi, di sondaggi e di paraocchi economicoidi”.
Un formidabile ritratto – leggetelo! – in un tribolo di messa in scena: “Nessuna verità, neppure un quartino, mai”. Eco di Dostoevskij, di Florenskij, di Bernardo da Chiaravalle, tanto è forte il tamburo di Dio in quel petto fatto di frale cartamusica.
Un contrappunto alla sepolcrale rigidità giacobina fu il suo Un tentativo di colmare l’abisso, l’epistolario con Sergio Quinzio, edito da Adelphi; fu artigiano nel tagli e cuci tutto suo di personaggi, appunti, registrazioni e scarabocchi, oggi eredità materica presso l’Archivio Prezzolini a Lugano.
Sua fu La Buca del tempo: la cartolina racconta.
E tutta sua, infine, fu – malgrado il reclutamento giovanile nella caserma editoriale Einaudi – la sua inadeguatezza alla tensione mondana. Il suo specchio, ben più delle stucchevoli comparazioni con autori alla moda, fu il conte Guido Piovene di Valmarana, l’autore del Viaggio in Italia cui Ceronetti – officiando una sincera amicizia – prese in prestito il canone al costo di un vero e proprio plagio con Un viaggio in Italia per ripercorrere nel 1983 lo stesso tour, compiuto in tutti i modi, con tutti i mezzi e tutte le bestemmie ma per lasciarci, nel confronto, le penne. E ancora una volta col gusto dell’attore. A fare, insomma, il servo di scena per il signor conte. Al modo dei guitti. Sempre lunari, snodabili al punto di rintanarsi tra le nuvole. Nel tutto e nel niente.

Corriere 14.9.18
Il colpo di Panatta (in Rete)
Il suo cameo in un film è virale
«Non conservo a casa i trofei, li ho persi tutti»
di Gaia Piccardi


«Ma ti rendi conto? Passi la vita a giocare a tennis e poi un giorno ti svegli e sei diventato come l’influenza d’inverno: virale...».

Il re del web, nell’estate del pof pofche dal festival del cinema di Venezia in poi ha incendiato i social, è un bel signore romano di 68 anni che pensava di aver dimenticato nel lontano 1976 — l’anno di grazia degli Internazionali d’Italia, del Roland Garros e della Coppa Davis strappata al Cile di Pinochet — le ragioni di una popolarità solida e mai esibita, riparata all’ombra di un ciuffo morbido che pare appena atterrato da una di quelle iconiche veroniche su cui poggia la leggenda del figlio di Ascenzio custode del Tc Parioli, diventato Adriano Panatta nell’arco breve di un indimenticabile triplete. Il suo cameo ne «La profezia dell’armadillo», il film tratto dai fumetti di Zerocalcare, diretto da Emanuele Scaringi e nelle sale da ieri, gira in Rete scatenando gridolini d’entusiasmo («Chi l’avrebbe detto...»), applausi a scena aperta («È il potere del web, oggi il mondo va così. Certo che mi fa piacere») e paragoni importanti («Moretti? Troppa roba, non esageriamo! Villaggio? Con Paolo siamo stati grandi amici tutta la vita ma parlavamo pochissimo di film. Non volevo fare né imitazioni né caricature»): il tennis come metafora della vita spiegato al sondaggista avventizio nella scena dell’aeroporto di Fiumicino è un piccolo capolavoro di ironia e disincanto, abiti di sartoria che Panatta indossa a pennello da sempre. «Chi mi conosce, lo sa: io sono così. Ho recitato me stesso senza finzione. Nella vita di tutti i giorni sono come mi vedi sullo schermo. Anche il finale del discorso mi appartiene: non puoi capi’...».
La richiesta è partita da Domenico Procacci, produttore e amico dell’ex campione. Adriano faresti una particina? «Anche no, grazie, ho risposto. Ma poi Domenico ha insistito, mi ha spiegato il progetto, l’idea mi è piaciuta. Mi sono presentato sul set e abbiamo girato. Cotto e mangiato». La tirata sui colpi armoniosi e piatti come sinonimo di bon vivre contrapposti alla violenza distonica dei giocatori moderni che badano soltanto al risultato, conclusa da quel pof pofonomatopeico già entrato nel linguaggio quotidiano, è un misto tra sceneggiatura e improvvisazione, un’arte che Panatta ha affinato nelle sue mitologiche sfide con Bjorn Borg a Parigi. «Il tennis è una musica che i tennisti di questa generazione, nati con le racchette di carbonio in mano, non hanno mai sentito. Cosa vuoi che ne sappiano del pof pof, dell’ammorbidire il dritto, di un bel servizio in slice a uscire seguito a rete da una soffice volée, della poesia del tennis giocato con le racchette di legno?». Niente. «Ecco, appunto. Infatti io, se voglio passare due ore davanti alla tv a vedere uno che mi piace, scelgo Roger Federer. Il migliore di tutti».
Panatta è appena rientrato nella sua Roma da Treviso, dove vive con la nuova compagna. E, ogni volta, è un tuffo al cuore. «Prima le buche, poi i cinghiali, adesso pure i serpenti in pieno centro. Recentemente ho letto che Roma è la capitale più sporca del mondo. Mi ha fatto male». Da romano, e da buona forchetta, nel post carriera ha assaggiato anche la politica: consigliere comunale nella giunta Rutelli (1997): «Vedere la mia città ridotta così è un dolore. È vero che è difficilissima da governare: solo il Tuscolano è grande come Firenze, cento comuni, una provincia sconfinata... Però non credevo si potesse cadere così in basso». Se non fosse stato all’estero, alle elezioni del sindaco avrebbe scelto Giachetti. «Alle politiche non ho votato. Non mi convince più nessuno, figurarsi i 5 Stelle». All’Accademia gestita dal fratello Claudio, dove insegna il figlio Niccolò, ogni tanto Panatta scende in campo con il nipotino Adrianino, 6 anni, primo figlio di Rubina bella come mamma Rosaria: «Il mio erede? Macché — ride nonno Adriano —, dopo mezz’ora se ne vuole andare. Alla racchetta preferisce le mini-moto: il suo idolo è Valentino Rossi, altro che Adriano Panatta...».
Dice di non avere paura di nulla, tranne dello spleen cupo della noia. Se gli chiedi che fine hanno fatto coppe e trofei, strizza gli occhi come controsole, evidentemente infastidito: «Non ho più niente, ho perso tutto. Meglio così: l’idea di vivere in un salotto-museo mi fa inorridire». Smentisce la favola del latin-lover, benché agli atti ci sia, ben prima del matrimonio, Loredana Bertè: «Una cara amica». È l’estate del revival: la Bertè in radio, Panatta al cinema. Il bilancio ti sorride, Adriano. «Oddio, non sono ancora pronto per i bilanci. Chiamami tra due anni, a 70, se ci arrivo».

Corriere 14.9.18
«Sfruttiamo l’arma dell’ironia per offrire spunti di riflessione»
Riparte «Propaganda Live». Zoro: mi farei tatuare gli elogi di Mattarella
di Renato Franco


«Uno sguardo scanzonato ma mai banale sulla politica». L’applauso del presidente della Repubblica Mattarella, Diego Bianchi — per tutti Zoro — se lo farebbe scrivere sul corpo: «Potrebbe essere il mio primo tatuaggio; è la sintesi perfetta di quello che facciamo e sono parole che danno sostanza anche al nostro lavoro. Possiamo sembrare degli amabili cialtroni che non prendono niente sul serio, usiamo diversi registri e linguaggi — l’ironia è uno di quelli più importanti — ma cerchiamo sempre di dare anche spunti di riflessione».
Quello non era stato l’unico complimento di Mattarella, che aveva anche definito Propaganda Live una trasmissione che «mi fa divertire». La giostra si riaccende stasera alle 21.10 su La7. I compagni di Zoro sono quelli consolidati: Makkox (Marco Dambrosio) con la graffiante satira delle sue vignette, gli opinionisti Marco Damilano e Francesca Schianchi e l’inviato Mirko Matteucci (per chi va in taxi Missouri 4). Oggi tra gli ospiti in studio ci sono Giovanni Floris, Ottavia Piccolo, Lirio Abbate, Aboubakar Soumahoro, Memo Remigi, Paolo Celata, Constanze Reucher. In scaletta un reportage da Genova e — ovvio — la Social Top Ten.
Zoro, lei si è laureato nel 1994 con una tesi sulla Lega Nord. Ci aveva visto lungo?
«Il mio professore era Domenico Fisichella ma alla tesi non venne perché nel frattempo era entrato nel governo Berlusconi come ministro. Il mio lavoro era concentrato su Milano, ai tempi la sfida era tra Formentini e Dalla Chiesa. Allora si parlava di governo locale, poi la questione è evidentemente degenerata».
Che ne pensa di questo governo?
«Mi devo sempre ripetere che questo è il governo Conte, perché se no me lo scordo. Ormai in Italia è passato il concetto che il presidente del Consiglio non c’è. Siamo all’avanguardia».
Cosa la colpisce di più di Salvini?
«Mi colpisce la totale immunità del suo elettorato a qualunque cosa dica — anche la più sorprendente. Un discorso che vale anche per Di Maio: lo sentivo parlare dei 49 milioni di euro fatti sparire dalla Lega e mi sentivo in profondo imbarazzo, anche fisico, per lui. Come fai a essere alleato con la Lega dopo aver parlato sempre di trasparenza e onestà? È un esempio, ma potrei farne molti. Salvini e Di Maio sono riusciti ad anestetizzare il loro elettorato».
E del Pd cosa la sorprende?
«La lentezza ai limiti dell’autolesionismo. Mentre gli altri vanno avanti, il Pd è nelle sabbie mobili della fase renziana. È un partito che si è appiattito su posizioni che non sono mai appartenute alla sua storia: a quel punto l’elettore decide di votare l’originale, non la copia».
La Rete ha sancito la vittoria dell’incompetenza?
«La cultura è diventata un disvalore, ormai basta aver letto un libro in un anno per essere considerato élite. Il web però è solo uno strumento, non è negativo di per sé. Come non lo sono né la tv né i social. È l’uso che se ne fa che gli dà una connotazione piuttosto che un’altra».
Lei è di sinistra...
«Non del Pd».
Da sinistra come ci si sente a raccontare le vittorie degli altri?
«Ci aiuta l’illusione di partecipare. In questo momento politico la nostra è una vita di indicibile sofferenze con sporadiche gioie».

Repubblica 14.9.18
“Bella ciao" e Tom Waits canta come un partigiano
di Gino Castaldo


Ha scelto bene Tom Waits come riapparire dopo due anni di silenzio: una straziante e profonda versione di Bella ciao, sentito omaggio all’Italia e alla sua lotta contro il fascismo, suggerito da una incredibile e inaspettata popolarità di cui all’estero sta godendo l’inno partigiano. Anzi a sentire il suo vecchio compagno di strada, il chitarista Marc Ribot (che esce oggi col progetto anti-Trump Song of Resistance 1948- 2018),
Waits l’ha scelta senza esitare nel mazzo di pezzi che gli aveva proposto, una ricca scelta di canti di opposizione scovati nella storia degli ultimi decenni. Certo, l’arcinota melodia diventa ufficialmente Goodbye beautiful, ma per onorare come si conviene l’originale, Waits ha lasciato alcune parole in italiano, compreso un ruvido e strascicato "partisciano" che ammalia come un esperto colpo da maestro. Racconta Ribot che quando la fece ascoltare in anteprima ai suoi amici italiani gli dissero che la voce di Tom suonava proprio come quella di un vecchio partigiano. E infatti è ruvida, disperata, un’elegia più che un canto di protesta, un urlo di dolore di fronte all’avanzata inesorabile del male, dei nemici della libertà e della democrazia. Ed è solo l’ultimo capitolo, di certo il più autorevole, di una straordinaria catena che sta rilanciando nel mondo il nostro più famoso e condiviso canto di Resistenza.
Ci ha pensato la serie spagnola La casa di carta e a seguire un mare di remix e mash-up che hanno trasformato Bella ciao addirittura in un forsennato pezzo da discoteca, con esempi al limite del buon gusto, anzi decisamente oltre, fino al magistrale tocco di classe di Tom Waits, all’interno di un disco tutto ispirato ai canti lotta. Dice Marc Ribot, che in passato ha collaborato anche con Vinicio Capossela, che arriva un momento in cui bisogna lasciare da parte timori e incertezze e che ogni movimento di opposizione ha bisogno delle sue canzoni. Il suo disco può servire da memoria storica, tanto per ricordare com’è che si faceva, e del resto il governo Trump, insiste Ribot, va combattuto in ogni modo.
E l’Italia musicale? Per ora tace, e a ricordare Bella ciao ci pensano gli stranieri, perfino gli eroi della dance come l’olandese Tiesto. Da noi il testimone non è stato ancora raccolto. E invece sarebbe bello "rispondere" a Tom Waits, allungare la catena, riprendersela, sarebbe bello che a rilanciarla, a darle nuova vita ci pensasse qualche rapper nostrano, un rocker in vena di riscoprire il linguaggio dell’antagonismo. O dobbiamo pensare che oggi un pezzo come Bella ciao serva solo all’America di Trump?