mercoledì 12 settembre 2018

Repubblica 12.9.18
Il procuratore Pignatone
"Inquinata la vita della città: avevamo ragione noi"
Intervista di Carlo Bonini


ROMA Il Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone non è uomo loquacissimo, né facile a tradire le emozioni. Ma nel pomeriggio di una sentenza destinata a segnare una discontinuità cruciale nella storia della città e nella lettura dei suoi fenomeni criminali, si abbandona a un sorriso. Sornione. Ma pur sempre sorriso. «Premesso che la presunzione di non colpevolezza vale fino al terzo grado di giudizio, oggi sono soddisfatto e grato. Grato al grande lavoro sostenuto in questi anni dai colleghi del mio ufficio e dai carabinieri del Ros, e all’impegno dimostrato dalla Procura generale. Oggi posso e devo dirlo. Avevamo ragione» .
Che a Roma la mafia esiste anche se non si chiama ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra o Sacra Corona?
«Che i fatti accertati dalla nostra inchiesta sono risultati sussistenti.
E dunque che una rete criminale di intimidazione, corruzione e turbative d’asta ha inquinato l’amministrazione capitolina per lungo tempo. E che quell’organizzazione criminale aveva le stimmate dell’associazione mafiosa. La sentenza della Corte di Appello conforta e irrobustisce ulteriormente una giurisprudenza che, in questi ultimi anni, ha visto riconoscere la specificità mafiosa a una serie di organizzazioni criminali che inquinavano la vita della città. Penso ai Casamonica, ai Fasciani, agli Spada. Sapevamo bene e non abbiamo mai smesso di ripeterlo che "Mafia Capitale" non era Cosa Nostra o la ‘Ndrangheta.
Né che lo sono i Casamonica, gli Spada o i Fasciani. Ma abbiamo anche sempre ripetuto che l’articolo 416 bis del codice penale non è una norma che parametra la mafiosità di un’associazione criminale sulle caratteristiche antropologiche e organizzative delle mafie tradizionali, bensì sulla forza di intimidazione e la riserva di violenza. Mafia Capitale le presentava entrambi. Insomma, esistono le grandi mafie e le piccole mafie. Ma il fatto di essere piccole non significa che non lo siano».
Una mafia che non controlla il territorio con la violenza non può essere mafia, si è detto e ha detto, per altro, il collegio di primo grado.
«Il lavoro di un magistrato è l’applicazione della legge. E nell’articolo 416 bis del codice penale non si parla né di controllo del territorio, né di uso delle armi. Il controllo del territorio e l’uso delle armi — come ha spiegato egregiamente la Cassazione a partire dal 2014, con la sentenza che confermò le misure cautelari di Mafia Capitale — sono parametri di valutazione per apprezzare la forza di intimidazione di un’associazione mafiosa. Ma quella forza, dice ancora la Cassazione e dice ora la Corte di appello, si può esplicare anche nel controllo dell’ambiente sociale, come nel caso di Mafia Capitale. Naturalmente, fermo restando la cosiddetta "riserva di violenza" dell’associazione. Che, nel caso di Mafia Capitale era assicurata da Carminati, dalla sua storia criminale e dalla provata capacità di mobilitare soggetti che quella violenza erano in grado di esprimere» .
Dire che c’è mafia e mafia non consegna alla magistratura una discrezionalità tale per cui "Procura che vai, mafia che trovi o non trovi"?
«Ogni processo ha una sua peculiarità. E i giudizi servono a questo. Stabilire le responsabilità del caso concreto, apprezzando la specificità di un fenomeno criminale. Non vedo il problema. A maggior ragione di fronte a una ormai costante giurisprudenza di Cassazione il cui scopo è proprio quello di armonizzare i criteri di interpretazione del 416 bis. A meno che qualcuno non pensi di sottrarre al magistrato la discrezionalità della valutazione giuridica di un fatto. E poi trovo la polemica sterile. Io fui il primo, dopo gli arresti, a esprimere parere contrario allo scioglimento per mafia dell’assemblea capitolina. Proprio perché sostenevo che la peculiarità di Mafia Capitale era tale che si poteva ritenere cessata l’associazione mafiosa nel momento in cui era stata disarticolata».
Si obietta che questa giurisprudenza "avanzata" del 416 bis sia di fatto una riscrittura della norma. Compito che spetterebbe al Parlamento.
«No. Siamo di fronte e non da oggi a una interpretazione avanzata della norma che legge una realtà in continuo mutamento. Chiedo: è un male? E chi dovrebbe esserne preoccupato? A Roma, in questi anni, abbiamo potuto perseguire fenomeni criminali con strumenti investigativi particolarmente penetranti proprio grazie a questa interpretazione del 416 bis. E potremo continuare a farlo. Detto questo, non penso che la mafia sia il primo problema di Roma».
E quale è?
«Sono i reati contro la pubblica amministrazione e l’economia.
Sono le corruzioni, le turbative d’asta, le bancarotte, le frodi multimilionarie».
Come è possibile che la Corte di Appello, pur riconoscendo il reato più grave di mafia, abbia poi ridotto le pene?
«Le pene per il 416 bis sono state modificate in senso più afflittivo successivamente agli arresti del dicembre 2014. Noi abbiamo ritenuto che le nuove pene, più alte, potessero applicarsi perché ritenevamo che l’associazione a delinquere, formalmente, dovesse essere considerata "attiva" fino al pronunciamento della sentenza di primo grado. L’Appello, al contrario, penso abbia ritenuto che Mafia Capitale sia cessata al momento degli arresti e dunque che il calcolo delle pene andasse fatto con le vecchie norme» .
Pensa che la posta in gioco in questo processo abbia influito sul giudizio? In primo come in secondo grado?
«Io, ma direi noi, il mio ufficio, riteniamo che i giudici non possano essere condizionati. Sia quando ci viene dato torto che quando ci viene data ragione»