Corriere 12.9.18
Pignatone e la sentenza
«Sì, era mafia ma Roma non è Palermo»
di Giovanni Bianconi
«Smantellato
un sistema. Premesso che fino al terzo grado vale la presunzione di non
colpevolezza, avevamo ragione noi. Ma Roma non è Palermo». Così il
procuratore di Roma Giuseppe Pignatone sulle sentenza d’appello per
Mafia capitale. «Il problema grave resta la corruzione».
Per la
Procura di Roma l’11 settembre poteva non essere solo una data sul
calendario ma la conferma di una pesante sconfitta, mentre
all’improvviso s’è trasformata in una rivincita: Mafia capitale era
mafia, non solo un fenomeno di corruzione in grande stile; l’indagine
più famosa condotta negli ultimi anni non era una fiction , e il
procuratore Giuseppe Pignatone tira le fila di un successo: «Premesso
che fino al terzo grado di giudizio vale la presunzione di non
colpevolezza, e premesso un sincero ringraziamento al procuratore
generale Giovanni Salvi e al suo ufficio che ha sostenuto l’accusa in
appello, sono ovviamente soddisfatto per l’esattezza dell’inquadramento
giuridico dei fatti ricostruiti dai carabinieri del Ros, oltre che dai
sostituti e dai procuratori aggiunti che hanno seguito anche il
dibattimento in secondo grado».
Quindi a Roma c’è stata una mafia autoctona, originale e originaria, come sostenevate nei vostri atti d’accusa.
«Sì,
ma noi abbiamo sempre detto che, pur essendo il “Mondo di mezzo” un
gruppo che utilizzava il metodo mafioso, questo come gli altri gruppi
inquisiti o condannati per associazione mafiosa, dai Fasciani agli
Spada, ai Casamonica, non sono paragonabili a Cosa nostra, alla
’ndrangheta o alla camorra. E Roma non è Palermo, né Reggio Calabria né
Napoli. L’abbiamo sempre sostenuto, anche nel parere contrario allo
scioglimento del Comune per mafia. Ritenevamo quella “piccola mafia”
debellata con gli arresti, e forse da questo dipendono le pene più basse
inflitte dalla corte d’appello».
Allora che cosa contraddistingue la mafiosità del gruppo di Carminati e Buzzi?
«Non
il controllo del territorio, ma il controllo di un ambiente sociale, di
alcuni settori dell’imprenditoria o della pubblica amministrazione, in
questo caso alcuni Dipartimenti del Comune di Roma; che si è verificato
non solo attraverso la corruzione praticata da Buzzi, ma con la “riserva
di violenza” garantita da un personaggio dello spessore criminale di
Carminati e dall’aggregazione di soggetti particolari. Questo l’aveva
stabilito la Cassazione quando confermò gli arresti del dicembre 2014.
La nostra elaborazione avanzata dell’associazione mafiosa era già basata
su alcune pronunce della Corte suprema, che poi l’ha ribadita in altre
sentenze. La corte d’appello ne ha preso atto e ha individuato un
condizionamento di tipo mafioso».
Ma allargando così tanto il
concetto di mafia, non si rischia di sminuire il senso di quel reato?
Alla fine se tutto è mafia niente è mafia...
«Non è così. Noi
cerchiamo di applicare la legge, e siamo arrivati alla conclusione che a
Roma ci sono gruppi criminali che sulla base di una corretta
interpretazione dell’articolo 416 bis del codice penale vanno
classificate come associazioni mafiose. Altre no. Noi stessi, in alcuni
casi, contestiamo il metodo mafioso ma non l’associazione. Non tutti i
traffici di droga si possono considerare mafiosi, così come non tutti le
corruzioni. Ci dev’essere un condizionamento derivante dal vincolo
associativo, ed è necessaria la “riserva di violenza” riconosciuta
all’esterno. Detto questo, anche dopo questa sentenza, ripeto che a Roma
il problema principale non è la mafia».
E qual è?
«Credo
che si possa individuare in quell’insieme di reati contro la pubblica
amministrazione e l’economia che va sotto il nome di corruzione ma
comprende le grandi bancarotte, le grandi frodi fiscali, le grandi
turbative d’asta e fenomeni correlati. La cifra di una metropoli come
Roma è la complessità, anche sotto il profilo criminale. Mafia capitale è
solo un tassello di un mosaico molto più grande e complicato».
C’è
pure chi dice che dopo la bocciatura della vostra tesi in primo grado,
la corte d’appello s’è arresa al condizionamento mediatico su un
processo molto pubblicizzato.
«Questo ufficio ha un tale e totale
rispetto dei giudici da rigettare anche la sola ipotesi che le loro
decisioni possano essere condizionate dalla maggiore o minore pubblicità
data a un’inchiesta giudiziaria. In ogni grado di giudizio. Del resto
il dibattimento in tribunale non aveva avuto molta eco sui mass media, e
quello d’appello ancora meno».
Però voi rischiavate molto con questa sentenza.
«Non
credo che una corte d’appello si preoccupi granché delle sorti di una
Procura. Pur senza negare l’importanza di questo processo, che si è
caricato di molti significati, anche di natura politica, ma non per
nostra volontà, mi pare che in questi anni abbiamo fatto anche molte
altre cose. E non penso che il giudizio sul lavoro di una Procura si
possa legare all’esito di una singola inchiesta».