lunedì 24 settembre 2018

«Noi»: meglio saperlo in tempo, un’ideologia di obbedienza basagliana si candida con Claudio Magris alla guida culturale del Paese...
Corriere 24.9.18
Dialoghi. Michele Zanetti affiancò Basaglia nella riforma che chiuse i manicomi. Ha scritto «Rendiconto» (Il miolibro)
Ricette per trasformare l’io in noi
Siamo tutti legati. Evitiamo sia chiusure identitarie sia i buonismi del «diverso è bello»
I valori cristiani sono utili in un oggi confuso tra un individualismo sfrenato e una rozza idea di democrzia
di Claudio Magris


Le prime righe e la citazione che le precede dicono subito lo spirito più profondo del libro, una ferma e calda umanità consapevole della brevità dell’esistenza ma anche del suo sanguigno e forte significato; consapevole soprattutto che nessun frammento di vita svanisce in un nulla indistinto, ma è un tassello della vita intera, di cui si è responsabili. «Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più tenerla» dice il passo evangelico (Luca, XVI, 2) scelto quale sintesi essenziale, cui seguono le prime righe: «Ho vissuto più a lungo di mio padre e di mio fratello maggiore…». La qualità della nostra vita non finisce alla punta delle nostre dita ma comprende chi ci sta intorno e, più oltre, l’esistenza di tutti. Michele Zanetti ha dato alla politica più di quanto abbia ricevuto e ha pagato senza batter ciglio, con tranquilla e ironica serenità, il prezzo per le sue iniziative più coraggiose e dirompenti, come la Riforma Basaglia che potrebbe portare pure il suo nome. La nostra fraterna amicizia dura da 68 anni, in cui abbiamo condiviso alcune tappe essenziali del nostro crescere e invecchiare, vicinanza nelle perdite affettive e momenti felici, da un leggendario match di boxe, con tanto di contratto e ring piantato in casa, alle gare su chi ricordava meglio a memoria i romanzi di Salgari. Le immagini di Ugo Guarino, geniali espressioni di una bislacca, irridente e calda fraternità umana, s’accompagnano coerentemente a questo Rendiconto.
La vocazione politica di Michele Zanetti nasce spontanea dall’incontro con le cose, fin dai tempi degli studi universitari di giurisprudenza a Trieste dove, dopo un breve periodo di insegnamento a Parigi, è stato docente di Diritto del Lavoro. Politica, polis, la Città, il bene comune ossia di tutti o almeno di quanti più possibile. Nel suo Rendiconto scrive raramente «io» e, molto più spesso, «noi». Chi sono, gli chiedo, questi «noi» e dove finiscono (se finiscono)?
Michele Zanetti — Il «noi» è importante per una molteplicità di motivi: per ridurre il narcisismo, per contenere la presunzione di chi ritiene di aver realizzato da solo qualcosa di significativo e per riconoscere di conseguenza il contributo che altri, a volte sconosciuti o restii ad apparire, hanno dato. Ma chi sono per te i «noi»?
Claudio Magris — In linea di principio, ogni individuo sulla terra è parte di noi. Naturalmente ci sono legami affettivamente ben diversi tra chi condivide la nostra vita e chi non abbiamo mai visto ma ciò non può cancellare il senso di una comune patria dell’umanità, che abbraccia differenti persone, nazionalità e culture, pietre di una casa comune. Ma due storture fatali minacciano quel senso del «noi». Da un lato la livida chiusura identitaria, il rifiuto di chi vive dall’altra parte della frontiera o anche solo alla periferia della propria città o in un altro gruppo sociale, etnico o religioso. Anche la famiglia può essere fondamentale per aprirci a un incontro con gli altri o per chiuderci in un particolarismo ringhioso. Dante diceva di aver imparato ad amar fortemente Firenze bevendo l’acqua dell’Arno ma aggiungeva che la nostra patria è il mondo come per i pesci il mare. Dall’altro lato c’è lo sciocco e ideologico buonismo che sproloquia «diverso è bello» (dimenticando che anche Hitler era diverso), che si entusiasma (a parole) per lo straniero e ignora il vicino di casa, fomentando per reazione così le più grette chiusure localistiche, aggressive e razziste. In che senso il tuo cattolicesimo ha influito sulla tua azione politica?
Michele Zanetti — Ha influito moltissimo, sia come ispirazione e bussola di orientamento, sia come controllo e verifica di ciò che si sta facendo, soprattutto per registrare e correggere errori e cadute che inevitabilmente accompagnano l’attività di ciascuno. Il riferimento ai valori cristiani mi pare di grande attualità e utilità nell’epoca presente che, dopo aver cancellato le ideologie del Novecento, brancola in maniera confusa tra un individualismo sfrenato, così poco fecondo e produttivo in ambito socio-politico, e una visione rozza e riduttiva di democrazia quale ricerca di un consenso purchessia che porti alla conquista del potere. Anche tu hai avuto in gioventù una formazione simile alla mia…
Claudio Magris — La fede è il senso dell’oltre, la resistenza al dominio delle cose così come sono e che pretendono di essere le uniche e le definitive, escludendo la possibilità di un futuro diverso dal sistema dominante nel presente. Horkheimer, il grande maestro insieme ad Adorno del pensiero negativo, non certo credente bensì caposcuola di un marxismo esperto della terribile realtà dei tempi nuovi, ha parlato di Dio come dell’«assolutamente Altro», sfida necessaria a un presente irrigidito incapace di pensare un futuro diverso e più umano. Tra le tue attività spicca quella, di particolare rilevanza pratica ed economica per la città, di presidente dell’Ente Porto di Trieste. Come hai vissuto questa tua attività?
Michele Zanetti — Se penso ai 13 anni di presidenza del porto di Trieste, dei quali il primo è stato utilizzato per imparare il «mestiere» di amministratore di una realtà complessa e per me nuova, ho maturato alcune convinzioni sul rapporto tra tecnici e politici. Per sua natura e vocazione il porto franco di Trieste vive se ha buone relazioni internazionali che richiedono conoscenza e comprensione delle esigenze dei partner. Al politico è necessaria la conoscenza della materia grande o piccola che è deputato a trattare; egli non deve delegare al tecnico le scelte sostanziali. Il politico inoltre è chiamato a portare innovazione, anche se il nuovo può far paura. Ero riuscito a intessere una vasta rete di relazioni che avevano prodotto un buon numero di linee marittime, containerizzate e no, oltre a cospicui investimenti nello scalo. Purtroppo i miei successori hanno quasi azzerato il lavoro di 13 anni e soltanto oggi il porto si è nuovamente immesso su quella strada.
Claudio Magris — L’esperienza più importante e rivoluzionaria del tuo lavoro è il tuo ruolo essenziale nella Riforma psichiatrica, la «Riforma Basaglia», che ha cambiato il modo di vedere la sofferenza, l’esclusione, l’emarginazione e ha ridato dignità di persona e diritti a chi era escluso dall’umanità, ignorato se non disprezzato, recluso più che ricoverato. Non ha affatto negato la malattia mentale, com’è stato detto; era il sistema precedente che spesso accumunava i malati alle vittime dell’alcol, della droga, della miseria, del rifiuto, del disagio sociale, anche di sé stesse. Ha certo sottolineato l’importanza delle condizioni esterne; anche per un cardiopatico non è la stessa cosa abitare al piano terra o al ventesimo piano senza ascensore. La riforma psichiatrica — nonostante qualche vacuità ideologica assemblear-pulsionale (l’eterno morbillo culturale infantile che insidia la sinistra) — non ha tradito la concezione classica della materia di cui siamo fatti e senza la quale non c’è vero spirito, Logos che si fa carne, sinapsi di neuroni.
Michele Zanetti — Si può e si deve curare il disagio e il disturbo mentale in forme rispettose della libertà e della dignità delle persone sofferenti. Perciò va abolito il manicomio che non solo toglie libertà, dignità e diritti ai ricoverati, ma ne aggrava o talora addirittura provoca la malattia mentale. Per fare ciò si è dovuto abbattere non soltanto gabbie e muri ma ostacoli ben più grandi, quali una cultura e una legislazione fondate sull’esclusione come garanzia di sicurezza per la società. Un tema ricorrente, se si riflette sulle speculazioni politiche di oggi sulla sicurezza, bene essenziale da proteggere in altri modi. Certamente non è stato facile distruggere l’istituzione manicomio a partire da un’altra istituzione come la Provincia chiamata a gestirlo. Ma dopo quasi cinquant’anni, sebbene seppure possano esserci stati errori ed esagerazioni, non è stata intaccata la validità e l’universalità del movimento contro le istituzioni totali alienanti e totalizzanti, che anzi deve essere continuato con impegno.
Claudio Magris — Siamo entrambi uomini del Ventesimo e non del Ventunesimo secolo e talvolta, anzi spesso, restiamo spiazzati dinanzi alle nuove forme che hanno preso la politica e la lotta politica, dinanzi a tante trasformazioni del mondo in cui la straordinaria creazione di nuove libertà si mescola e talora s’intreccia a nuove terribili schiavitù. È difficile resistere all’impulso di rifiutare tutto ciò o di assecondarlo passivamente. Come ti senti sotto questo punto di vista?
Michele Zanetti — Come hai detto, sono veramente spiazzato dinanzi alle attuali forme della lotta politica, le condanno e le rifiuto. Se soltanto penso a quanto di grottesco e di risibile, ma soprattutto di drammaticamente pericoloso è avvenuto di recente per la ricerca di una maggioranza di governo (o a come si avvia in maniera maldestra e inconcludente l’azione del governo stesso), posso soltanto dedurre che siamo a un punto molto basso della politica. Mi auguro vengano presto superati l’uso manipolatorio della democrazia rappresentativa e la sua erosione da gran parte dei mass media. Tuttavia, anche se io non riesco a intravederlo, mi auguro che si manifesti sia pur parzialmente quanto di positivo e di innovativo sta producendo l’attuale fase di transizione.

Il Fatto 24.9.18
L’antico limite alla detenzione delle armi
di Orazio Licandro

Le nuove e più larghe norme italiane sulla detenzione di armi, in ossequio a un impegno elettorale leghista con la lobby delle armi, in combinato disposto con il tentativo di stravolgere la legittima difesa prevista dal nostro codice penale, rischiano di introdurre un altro pericoloso elemento di deterioramento sociale del nostro Paese. Fortunatamente ancora lontani in materia dagli Usa, l’isteria collettiva suscitata dalla pulsione securitaria, in parte profondamente nutrita e in parte assecondata dal governo del cambiamento, non costituisce un avanzamento né sul piano della civiltà giuridica né su quello sociale della sicurezza. Il divieto o il forte limite alla detenzione delle armi è un principio antichissimo, di carattere sacrale, che dovrebbe appartenere al nostro dna etico. Eppure. Nella Roma antica, sin dalle sue origini, era vietato oltrepassare con armi il pomerium, striscia di terra attorno alla città indicante il confine religioso della stessa. E conseguentemente era vietato l’ingresso in città dell’esercito che doveva essere convocato, appunto extra pomerium, in Campo Marzio. Persino in età tardoantica, tra il 455 e il 457 d.C., l’imperatore Marciano emanò una costituzione imperiale, i cui destinatari però erano i barbari, per vietare il commercio di armi (corazze, scudi, archi, spade, frecce, ecc.) all’interno della sacratissima urbs (Roma) e nelle altre città (Codice Giustiniano 4.41.2). La ratio della norma è la stessa: la circolazione di armi costituisce sempre un pericolo. Ora, se persino gli antichi mostravano una profonda consapevolezza del problema, qualcuno spieghi oggi la bontà di questo cambiamento. Chi l’ha detto che più armi in giro assicurino maggiore sicurezza?

Il Fatto 24.9.18
Da ragazza a Barbie che vale 30 milioni: “Un potere pazzesco”
di Pino Corrias


Come quelli un po’ cialtroni dell’Olimpo, anche gli dei del web hanno tutte le nostre vite in mano, ci giocano e si annoiano. Annoiandosi, architettano misteri. Così accade che una giovane donna, Chiara Ferragni, 31 anni, bianca di pelle, bionda di cuore, nativa del grande schermo d’Occidente, fotografata, selfizzata, instangrammata, snapchattata, laikizzata e infine condivisa più o meno 100 milioni di volte a settimana da 10, 20, 30 milioni di bimbe sole, ragazzini soli, ammiratori, ammiratrici, odiatori & seguaci, navigatori compulsivi di eterna e depressa adolescenza, tutti di razza umana, tutti viventi nel medesimo schermo dei desideri in offerta speciale, sia in definitiva e resti fino a oggi – nonostante il cospicuo guardaroba di sorrisi tristi e camicette allegre – quasi del tutto inspiegabile.
Un enigma. Intendendo enigma per noumeno, realtà inconoscibile, però pensabile, come lo zero, come l’infinito. Che a moltiplicarli insieme, sempre zero danno, cioè un vicolo cieco dove si resta intrappolati. E questo a dispetto del bimbo Leone che ha appena scodellato nella nursery social; del matrimonio a Noto che ha appena celebrato, “il matrimonio dell’anno!”; del fatturato in milioni di euro che ha appena incassato. E dei paesaggi veri o verosimili con cui da dieci anni arreda la sua vita in pubblico, dentro la quale ha appeso solo merci sponsorizzate, cominciando dalla sua prima borsa “la mia Speedy Bag di Louis Vuitton, indimenticabile!”. E compreso il suo compagno di bimbo, di matrimonio e di fatturato: Federico Fernando Lucia, in arte Fedez, 28 anni, rapper di buona fattura e sorprendenti parole in rima, non per nulla fabbricato alla periferia della canzone italiana con melodia crescente e rabbia fatalmente in declino, visto che nacque proletario, respirando l’asfalto di Buccinasco e ora nuota nel superattico e nella bambagia neo yuppy di City Light, Milano centro, come è giusto che sia, proprio secondo le regole di ascesa sociale che faceva finta di odiare. E vergognandosene almeno un po’ si va progressivamente cancellando dentro al nero dei tatuaggi, sperando di farla franca, anche a dispetto delle regole di insurrezione anarchica che faceva finta di amare.
Chiara e Fedez – eroi di un vertiginoso successo sul palcoscenico degli sguardi, dei desideri, dei punti esclamativi – sono una coppia specchiante. Una coppia a quattro zampe, direbbero gli psicoanalisti. Respirano nella stessa inquadratura virtuale di ieri, di oggi e forse persino di domani. Ma restano distinti come il giorno e la notte. Lui è dritto per dritto. È così come lo vedi, il bello e tenebroso dell’ultimo banco. La dannazione dei presidi e il sogno erotico delle supplenti. Il gansta rapper che pattina sul proprio specchio: “Mangio pane e malavita, pippo polvere da sparo”, ma lo fa prudentemente, con la mamma manager e il contrattino da giurato di X Factor, dove non distribuisce metanfetamina o pallottole, ma ricette per fare carriera nel buon senso e nel bel canto. Lei no. Chiara Ferragni non sai come prenderla anche se sai com’è fatta. Abita nel black mirror di un inquieto futuro già presente, sebbene venga da un passato assai rassicurante. È nata tra i torroni e la mostarda di Cremona. Famiglia di media borghesia. Due sorelle, lieta infanzia, buone scuole. Padre dentista in perpetua forma jogging detto @paponemarco. Madre che sembra la quarta sorella bionda, Marina Di Guardo, allegra più di tutte, sebbene circondata dai molti cadaveri dei suoi thriller, pubblicati a tiratura crescente, grazie alla locomotiva di casa che lei si ostina a chiamare “la mia Chiarotta”.
La quale è venuta su dal nulla della sua cameretta sversata in Rete, moltiplicando quel nulla all’infinito: “Ho cominciato a 15 anni fotografandomi 50 volte al giorno”. Papone non capiva: “Perché lo fai?”. E a onor del vero neanche lei capiva: “Non lo so, ma mi va di farlo”. A intuire che quell’impulso non era un gioco, ma una vocazione, ci pensò il fidanzato di allora, Riccardo Pozzoli, bocconiano col ciuffo, il quale le spiegò che quella misteriosa attitudine si chiamava personal branding: una emissione di luce nella notte in cui tutte le identità sono grigie. Un sentiero da costruire aprendo il guardaroba e disponendolo – inquadratura dopo inquadratura – fino a formare un sentiero fatto di magliette, gonne, scarpe, smalti, collanine, borse, borsette, tutti sassolini bianchi per trovare la propria strada, tutti segnali di felicità portatile per i followers, i seguaci, che erano 15 mila alla fine del primo anno. Non molti, ma abbastanza da trasformare il gioco in un lavoro e il lavoro (finalmente) nel benedetto denaro, l’equivalente di tutte le merci, comprese quelle esposte da Chiara, coniugando tre verbi solamente: indossare, sorridere, essere. Più il quarto decisivo: diventare.
Così nacque il sito Blonde Salad, insalata bionda, il 12 ottobre 2009, non per nulla anniversario della scoperta dell’America, stavolta in versione fashion blogger: “Una sorta di territorio dove le persone potessero entrare, conoscermi, uscire, tornare”. Chiara diventa cibo per gli smartphone. Diventa moda di nicchia, poi tendenza di massa. Infine influencer. Se ne accorgono i grandi marchi, i pubblicitari, la televisione. “Un giorno sono cominciati gli inviti, prima la Settimana della Moda di Milano, poi le agenzie, poi Chiambretti”. Quando nel 2013, in piazza Duomo, presenta il suo libro – che poi sono consigli di stile, dritte per vestirsi, raccomandazioni “per super divertirsi!” – arrivano duemila ragazzine bionde come lei, magre come lei, vestite come lei.
In loro nome scala il cuore del web più di tutta la concorrenza. “Mi amano, mi seguono”. Prima un milione di seguaci, poi il doppio. Poi il doppio del doppio. “Oggi parlo a 13 milioni di persone senza filtri. È un potere pazzesco!”. Vola a Los Angeles, dove compra casa e ufficio. Disegna un logo, firma scarpe, accessori e assegni. Ha fatturato 10 milioni di dollari nel 2015, quest’anno la sua attività di impresa digitale vale il triplo, ha una squadra di assistenti, dalla quale è stato appena escluso il suo ex fidanzato. Il suo blog è diventato “una piattaforma ispirazionale”, una miniera del product placement. A cominciare dal suo corpo arredato con 22 tatuaggi, l’ultimo è un planisfero, il mondo che ha appena conquistato. Secondo la rivista Forbes è “tra i 30 giovani più influenti al mondo”. Ma nessun analista – o poeta, o manager, o esorcista – sa spiegare perché. Chiara Ferragni non canta, non balla, non recita, non si spoglia, non fa scandali, a parte il bimbo spedito dal primo giorno a succhiare il latte artificiale del web. Sta da sempre seduta al primo banco. È bella, ma non bellissima. È stirata, ma mai elegante. È allegra, ma con il sorriso triste. Non è fredda, non è mai calda. Scrive adolescente e pensa standard: “Io sono il boss di me stessa”; “Non sono mai andata dallo psicanalista, ma mi farebbe super piacere farlo”; “Una donna è molto più di un corpo”. Ma sa essere paradossale: quando Mattel annuncia di avere messo in produzione una Barbie a sua immagine, esulta. E al contrario della fiaba, dove è il burattino di legno che desidera diventare un bimbo in carne e ossa, dice: “Sono una Barbie, il mio sogno da bambina è diventato realtà”.
Chiara Ferragni è un vaso di Pandora a fin di bene. Una Cenerentola che distribuisce scarpine di cristallo a milioni di sorelle. Ma è anche un talento che si sceglie il principe, lo fa inginocchiare all’Arena di Verona e infine se lo sposa, rivestito Versace, mentre intorno danza la luce di 10 mila telefonini trillanti a registrare l’istante.
Il tutto vidimato da contratti, un centesimo di argento a selfie, per un totale, dicono a consuntivo dello sposalizio, di 36 milioni di euro. Più o meno quanto una media azienda. Anche se fatta di nulla. Ma un nulla che consola. E che poi sarebbe il vero segreto che Chiara custodisce, davanti agli indistinti spettatori, disponibili a credere in tutto quello che vedono, salvo che a se stessi.

La Stampa 24.9.18
Troppi libri in Italia? Editori a confronto
L’eccesso di nuovi titoli pubblicati ogni anno in Italia mette in difficoltà le librerie e disorienta il pubblico Dopo l’appello di ieri sulla Stampa affinché si dimezzi la produzione, la parola agli editori

«Cari editori, stampate meno libri». È il titolo del commento pubblicato ieri sulla Stampa, a firma di Bruno Ventavoli. Il responsabile del nostro Tuttolibri spiegava che, nel mare magnum di nuovi titoli riversati ogni giorno sul mercato, per i giornalisti culturali come anche per i semplici lettori diventa molto difficile, se non impossibile, scegliere. E lo stesso problema ricade anche sui librai, che non possono permettersi di tenere un buon assortimento di novità nei loro negozi perché libro nuovo scaccia libro vecchio (e così finiscono con l’avvantaggiarsi realtà come Amazon che non hanno problemi di magazzino). Quindi la domanda delle domande: perché in un Paese dove sono sempre meno coloro che leggono e ancora meno quelli che comprano libri esce un nuovo titolo ogni otto ore, per un totale di settantamila ogni anno?

Il Fatto 24.9.18
D’Alema e Marx: “Una miniera d’oro”
Neocomunismo - L’autocritica alla festa di Articolo 1: “Il tardoblairismo? Una catastrofe”
di Fabrizio D’Esposito


Compagno Massimo D’Alema, per la celebrazione del bicentenario di Karl Marx. Accade a Testaccio, quartiere popolare di Roma, all’ex Mattatoio.
Si chiude la festa nazionale di Articolo 1. Sono le otto di sera e ci sono più di cinquecento persone. L’attesa genera un silenzio totale. Dice una compagna dell’organizzazione: “D’Alema è uno dei pochi politici che provoca questo effetto”. Figuriamoci adesso che si riscopre il padre del comunismo, a due secoli dalla nascita e nell’anno zero della sinistra italiana. L’incipit dalemiano è pragmatico. Prima di lui, il filosofo Maurizio Iacono riscopre la necessità di “ricollegare l’aristocrazia del pensiero coi bisogni della gente”. Il rapporto, cioè, tra teoria e politica.
E l’ex premier non si sottrae: “Non è una stravaganza stare qui a ricordare Marx. Sono stato al convegno mondiale sul marxismo organizzato dai comunisti cinesi. La presenza italiana era marginale, ma c’erano 50 professori delle università americane più importanti. Marx non è un cane morto, è una miniera d’oro. Quando c’è una crisi si riprendono in mano i classici”. Parla di Marx, D’Alema, ma dà la sensazione di riferirsi anche a se stesso.
Ovviamente, lui che è stato l’epigono del blairismo italico non può aggirare la sbornia liberal-capitalista della sinistra italiana nella Seconda Repubblica. I risultati sono sotto gli occhi tutti.
D’Alema è giustificazionista sul passato recente: “Se la sinistra italiana ha ceduto all’influenza liberale è perché il capitalismo globale con il suo ritmo di sviluppo ha fatto crollare il socialismo reale dell’Europa orientale e ha mandato in crisi il modello socialdemocratico. Così noi abbiamo avuto una visione liberale pur temperata dai valori del socialismo. Ma il tardoblairismo (Renzi, ndr) è stato catastrofico”.
Poi è arrivata la crisi devastante del 2008 e il pensiero unico neoliberista ha iniziato a vacillare. Solo che il capitalismo finanziario non ha prodotto antagonisti evidenti: “Il terzo libro del Capitale è fondamentale per l’analisi del capitalismo finanziario. Noi siamo cresciuti consapevoli che il modello della fabbrica produceva l’operaio, antagonista del capitalista. Oggi, ci dice Marx, c’è questa magia del denaro che produce denaro e l’estrazione del plusvalore non ha più il suo antagonista storico, l’operaio”. Alle nove di sera, D’Alema continua a ragionare e nessuno fiata. Ancora tutti zitti e seduti. Il futuro della sinistra è marxista? “La rivolta del populismo, risposta regressiva e pericolosa, c’insegna che il dominio dei mercati fa male”. Ergo il finale è un classico dalemiano: “Ritornare al primato della politica per contrastare il dominio del capitalismo finanziario”.
Nel frattempo più prosaicamente, non per volare basso, Articolo 1 dichiara per bocca di Roberto Speranza che non vuole tornare nel Pd, né fare un rassemblement di sinistra radicale. Una terza via, di nuovo. Marx permettendo. Il “militante Marx”, per dirla alla D’Alema.

Il Fatto 24.9.18
Di Maio: “Dirigenti ci remano contro. Subito carcere agli evasori”
“Sarà una manovra del popolo, con reddito e pensioni di cittadinanza in deficit e aiuti ai truffati dalle banche”
di Luca De Carolis


Non arretra, anzi: “Nella viscere dello Stato ci sono dirigenti che ci remano contro”. Ma soprattutto parla della legge di Stabilità, su cui oggi ci sarà un nuovo vertice a Palazzo Chigi: “Sarà una manovra del popolo che aiuta gli ultimi e fa la guerra ai potenti: e dentro ci saranno il reddito di cittadinanza, il superamento della Fornero e i soldi per i truffati dalle banche. Troveremo le risorse, anche facendo deficit”. Rientrato dalla Cina, il vicepremier Luigi Di Maio risponde al Fatto.
Tutti parlano dell’audio in cui Rocco Casalino, il portavoce di Conte, minaccia “di far fuori quei pezzi di m…del ministero dell’Economia”. Parole inaccettabili, non crede? Anche Salvini lo ha definito un “audio incauto”.
C’è grande ipocrisia. Tutti ci arrabbiamo e capita di dire parolacce in conversazioni private. Ma la gente in queste ore ferma Casalino per strada e gli dice: “Andate avanti”. Ha capito il merito del problema: c’è gente che ci rema contro.
Era una conversazione di lavoro. E l’audio ha disturbato anche alcuni dei vostri parlamentari.
Rocco era arrabbiato, perché sa quello che ci succede. Quanto ai nostri eletti, ho letto alcune interviste (quelle di Luigi Gallo e Elena Fattori, ndr) e dico che anche qui ho visto ipocrisia. Sono stati eletti con un Movimento che ha detto vaffanculo nelle piazze per anni e si scandalizzano?
Se non vi fidavate dei tecnici del Mef, perché non avete cambiato le figure apicali come vi consentiva la legge?
Il problema non è con alcune figure, e tanto meno con il ministro Tria, di cui ci fidiamo. Ma ci sono tanti dirigenti dentro i ministeri che non possiamo toccare, e che rallentano o complicano il lavoro. Per me la Pubblica amministrazione deve essere indipendente, ma in questi anni ci ha messo mano la politica.
Pretesti, i tecnici fanno quello che gli ordinate.
Per ultimare un provvedimento ci vogliono mille passaggi, e se ti vogliono mettere i bastoni tra le ruote possono. Io stesso fino a febbraio non posso cambiare i dirigenti dei miei ministeri.
Lei si fida del ragioniere generale dello Stato Franco?
L’ho visto solo una volta, non è questione di persone. Ci conosceremo meglio. Ma faccio controllare ogni norma ai miei collaboratori, perché non mi fido.
Supererete il 2 per cento in manovra? E di quanto?
Non dico cifre. Ma il tema non è tanto il deficit, ma le misure per far crescere il Pil. Il Portogallo è arrivato ad avere un rapporto tra deficit e Pil del 7 per cento, ma ha abbassato il debito grazie alla crescita.
Tria non la pensa così. E neanche l’Europa.
Troveremo risorse facendo deficit. E la manovra farà salire le pensioni minime a 780 euro e darà il reddito di cittadinanza a tutta la platea, esclusi gli stranieri.
Bel favore a Salvini.
Falso. La proposta l’avevamo già cambiata nel 2015: tenendo dentro i migranti ci avrebbe fatto saltare i conti. E poi sarebbe stato un fattore di richiamo per tanti stranieri. Ma il reddito spetterà ai residenti in Italia da dieci anni.
La Lega parla di condono. Per voi è un’eresia?
Il condono fino a un milione di euro per noi è inaccettabile. I furbi non vanno premiati, e infatti a fine settembre nel decreto fiscale verrà previsto il carcere per chi evade.
La pace fiscale è un condono mascherato, in manovra.
Abbiamo chiesto agli uffici i dati per individuare le persone in difficoltà, dai piccoli imprenditori alle famiglie. E su quelli costruiremo soglia e platea della pace fiscale. E non ci saranno scudi fiscali o rientri di capitali esteri.
E la flat tax per le imprese come sarà costruita?
È una misura della Lega. Ho proposto che vengano premiate le imprese che assumono. Ma ci sarà una flat tax verde: chi meno inquina, meno pagherà di Ires.
È vero che la Fornero verrà superata per i quota 100 con 36 anni di contributi?
Verrà superata. E ci saranno anche altre misure.
Spieghi.
Verranno risarciti tutti i truffati dalle banche.
Servono 12,4 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva. È vero che potreste aumentare alcune aliquote?
Questo non avverrà mai.
Ma quanto vale la manovra? E dove troverete i soldi?
Niente cifre. Ma ci saranno anche tagli. Toglieremo le esenzioni fiscali ai petrolieri. E potremmo inserire in manovra il taglio delle pensioni d’oro sopra i 4500 euro netti.
Dove sono finite le norme per la trasparenza sui soldi a partiti e fondazioni? Dovevano essere nel ddl anticorruzione.
Sono già nel testo, che in settimana andrà in commissione Giustizia alla Camera. Partiti e fondazioni dovranno dichiarare la provenienza dei soldi ricevuti, e dovranno farlo entro 15 giorni, anche in campagna elettorale, o subiranno pesanti multe.
La Lega sarà entusiasta…
Hanno dato il via libera alla norma. Con me sono sempre stati aperti alla trasparenza.
Sarà. Intanto dovrete litigare sul decreto immigrazione e sicurezza di Salvini. I tecnici del Quirinale hanno molte riserve e anche il suo M5S è preoccupato. Lo nega?
Ci sono alcuni punti che non sono nel contratto di governo, e quindi li discuteremo in Parlamento. È previsto l’adeguamento della disciplina dei permessi di soggiorno agli altri paesi europei. Solo in Slovacchia e in Italia c’è quello umanitario ed è per questo che viene abolito. Questo però non può far ignorare le condizioni delle persone. Per questo verrà introdotto un nuovo tipo di permesso che è quello per casi come calamità naturali e altri. Lo Sprar (il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr)continuerà ad esistere così com’è. E varrà per tutti i permessi umanitari in corso e per tutti i rifugiati, compresi i minori non accompagnati.
Resta un passo indietro.
Non è così, e i rimpatri saranno saranno solo verso Paesi in cui ci sono condizioni di sicurezza. I principi costituzionali vanno rispettati, da tutti.

Il Fatto 24.9.18
Se dev’essere Medioevo, allora si legalizzino anche i bordelli
di Lia Celi


Simone dice che è molto semplice e queste cose lui le sa: butta in aria il divorzio, l’aborto è da cancellar e le unioni civili le dobbiamo bruciar. Il Simone è Pillon, il senatore leghista che fuori sembra Diego Della Palma e dentro, ahimé, è Simone Pillon, quello che vuole “obbligare le donne a partorire” e, se si separano, a mantenere i figli alla pari col padre, in un Paese in cui nelle coppie il gap economico fra lui e lei è del 50 per cento, a favore dell’uomo, of course. C’è chi ha parlato di ritorno al Medioevo, senonché ridurre il Medioevo all’oppressione sessuale è come andare a Parigi e visitare solo i cessi della Gare de Lyon. Se dev’essere Medioevo, senatore Pillon, allora facciamo le cose per bene: vogliamo anche gli ecclesiastici (dal prete al Papa) con moglie e figli, la legalizzazione dei bordelli e la masturbazione consigliata dalla scuola medica salernitana come disintossicante per mente e corpo.
Vogliamo le feste pubbliche che duravano giorni e le corti d’amore in cui dame e poeti discettavano di sottili questioni erotiche con ben altro spessore che nelle nostre “poste del cuore”. Vogliamo donne potenti come Eleonora d’Aquitania e Matilde di Canossa, autorevoli come Ildegarda di Bingen e Christine de Pisan, sante spaccatutto come Giovanna d’Arco e Caterina da Siena. E non mi rifaccio a Feudalesimo e Libertà, il blog brancaleonico filo-Sacro Romano Impero, ma a una medievista cara ai conservatori, la compianta Regine Pernoud. Età difficile e violenta, quella di mezzo, dove si amava, si odiava e si godeva con un’intensità oggi impensabile. Archiviare le conquiste civili non è tornare al Medioevo, e nemmeno agli anni Cinquanta. È realizzare in Italia la Galaad del Racconto dell’ancella di Margaret Atwood, lo stato dispotico in cui le donne valgono solo in quanto fattrici. Senza nemmeno il contentino dell’amor cortese.

La Stampa 24.9.18
L’Austria di Kurz riscrive il Risorgimento
“Cavour e Mazzini oppressori nazionalisti”
di Rita Monaldi Francesco Sorti


Il Risorgimento? Una guerra di aggressione. Cavour voleva unire l’Italia? No, dividere l’Austria. Mazzini e Garibaldi? Nazionalisti di estrema destra. E il Kaiser? Buono e globalista.
Sebastian Kurz ha da poco rinnovato ai nostri connazionali altoatesini l’offerta della nazionalità austriaca, con gran stizza della Farnesina. Il timing però non è ottimale: a settembre ricominciano le scuole, ed è naturale chiedersi che immagine abbiano gli austriaci dell’Italia, visti i precedenti a dir poco turbolenti. E qui vengono le sorprese.
Perché un’indagine nei libri scolastici della repubblica alpina fa intravedere nella mossa di Kurz, anziché la gioia di un nuovo amico, il ran
core di un vecchio padrone.
Cominciamo con qualche assaggio. In Netzwerk Geschichte («Rete Storia» per le scuole medie, edizioni Lemberger) nel capitolo sul Risorgimento italiano vengono particolarmente evidenziate le date più tarde: la proclamazione dell’unità del 1861, la breccia di Porta Pia del 1870, la morte di Garibaldi nel 1882, addirittura i Patti lateranensi del 1929. Dei 30 anni di moti d‘indipendenza contro il sanguinario sfruttamento austriaco non c’è traccia. Ecco invece la domanda retorica e insinuante degli autori: «Austria, Francia e Gran Bretagna possono vantare una lunga storia. Da quando esiste lo Stato italiano?».
In Geschichte live (editore Veritas, scuole medie) dopo abbondanti descrizioni delle virtù del Kaiser Francesco Giuseppe, si ammette che «dopo il 1848 l’imperatore e il suo governatore generale (il sanguinario maresciallo Radetzky, ndr) erano gli uomini più odiati in Italia del nord», ma solo perché «agli occhi degli Italiani erano loro due ad aver fatto fallire le aspirazioni dell’Italia all‘unità e alla libertà». Il dominio austriaco era insomma una sensazione soggettiva, valida solo «agli occhi degli Italiani».
In VG3 Neu (per la scuola media, ancora Lemberger editore) il capitolo sul Risorgimento si apre con un’abile premessa: «Nel XIX secolo, ambiziosi uomini di Stato capirono che l’idea nazionale si adattava in modo eccellente al raggiungimento dei loro personali obiettivi politici. Volevano espandere i loro Stati a costo degli altri, e allo scopo utilizzarono come giustificazione l’idea nazionale. In molte parti del mondo ancora oggi si fa politica in modo simile».
Cavour, Garibaldi e Mazzini diventano così un piccolo club di ambiziosi, e l’unificazione d’Italia una guerra di aggressione. Proseguono gli autori: «Il Piemonte nella seconda metà del XIX secolo si sviluppò in un moderno ed efficiente Stato-modello. Appoggiò l’idea di una divisione dell’Austria». Insomma, Cavour voleva dividere l’impero asburgico, anziché unificare l’Italia... «Con un’abile politica estera, il regno di Piemonte-Sardegna si guadagnò l’alleanza di Francia, Gran Bretagna e Prussia. L’Austria invece era isolata (…). Quando nonostante ciò rischiò e scese in guerra, le truppe alleate di Francia e Piemone-Sardegna sconfissero l’esercito austriaco, male organizzato, a Magenta e Solferino».
Un resoconto che fa a pugni con i fatti storici: a Magenta e Solferino si combattè perché l’Austria aveva imposto ai piemontesi, assai inferiori militarmente ma alleati alla Francia, di disarmarsi entro tre giorni. L‘ultimatum non venne rispettato e gli austriaci attaccarono. A Solferino gli eserciti contrapposti erano pressoché equivalenti, gli Austriaci anzi avevano un’artiglieria più consistente, ma la conduzione tattica dei francesi fu vittoriosa.
Alla pagina successiva di VG3 Neu c`è una carta d’Italia in bianco da colorare con tonalità diverse, corrispondenti ad altrettanti momenti dell‘unificazione: 1859, 1860, 1866 e 1870. Benissimo, ma accanto spunta una noticina: «A proposito, in cambio del suo appoggio la Francia ricevette dalla Sardegna i possedimenti di Nizza e Savoia. Insomma, ogni cosa aveva il suo prezzo…». Dietro a tutto, insomma, c’era solo un mercato delle vacche. Perfino se fosse vero, il libro scolastico dovrebbe argomentare, e non fare allusioni maligne. Soprattutto se è scritto dai perdenti…
Anche Geschichte schreiben («Scrivere la Storia», edizioni Dorner) suggerisce che «l’idea nazionale venne usata da alcuni politici per realizzare obiettivi di potere. Il nazionalismo servì loro come giustificazione per ingrandire i loro stati». Il tema torna però ancora più ampiamente nel testo di storia per le medie Bausteine («Pietre per costruire»), dove si raggiunge l’apice (o il fondo) dell‘inchiesta. E non solo per il contenuto, ma anche perché Bausteine è targato Öbv, la casa editrice di Stato. Il capitolo sul nostro Risorgimento è intitolato «Il nazionalismo» e inizia con una premessa filomonarchica: «Dopo il congresso di Vienna venne ristabilito il vecchio ordine. I prìncipi regnanti restarono ancorati ai loro diritti ereditari. I popoli erano in maggioranza solidali con i loro governanti». Poi però il presunto idillio si guasta: «Gradatamente in Europa si fece strada l’idea che in uno Stato potessero convivere solo persone con il medesimo passato storico, la medesima lingua e la stessa cultura. Coloro che non rientravano in questo disegno non avrebbero goduto di pari dignità». Insomma, gli austriaci dominatori in Italia sono descritti come una minoranza etnica. E ancora: «Questa idea si chiamava nazionalismo. In alcuni paesi, come l’Italia o la Germania di oggi, le genti che avevano quei fattori in comune vivevano in tanti piccoli stati divisi tra loro. In altre zone geografiche, come per esempio nell’impero asburgico, vivevano insieme popoli con culture e lingue differenti. Molti nazionalisti erano pronti ad usare anche la violenza per realizzare il desiderio di avere un loro Stato e una propria nazione».
Poco importa quindi che l’impero asburgico per primo usasse la violenza per tenere insieme, e spremere economicamente, tutti quei «popoli con culture differenti». Chi, come il grande scrittore austriaco Karl Kraus, osò denunciarlo («questa pretesa di affliggere il mondo con la nostra follia omicida nazionale») è tutt’oggi ben poco amato nella repubblica alpina.
Alla pagina seguente di Bausteine campeggia una foto. Una schiera di manifestanti, tutti giovani maschi vestiti di nero come i black blocks, regge uno striscione: Nazionalismo al posto della globalizzazione. Didascalia: «Il nazionalismo oggi in molti Paesi - Manifestazione di estrema destra in Germania, 1° maggio 2008». Poi la spiegazione: «I nazionalisti mettono in evidenza le particolari facoltà e i risultati raggiunti dalla loro nazione. Allo stesso tempo danno meno valore alla cultura, al modo di vivere e alla religione delle persone di altre nazioni. Nel loro paese le minoranze vengono disprezzate o perfino minacciate. Rappresentanti di partiti nazionali (sic) spesso hanno atteggiamenti molto aggressivi».
L’equazione è assurda ma chiarissima: voler unificare un popolo omogeneo è un atto facinoroso. Preferire la propria lingua e cultura è nazionalismo. Amare la patria è violenza. Gli italiani del Risorgimento sono estremisti di destra. Il Kaiser è buono e globalista.
«I funzionari del Kaiser rinsaldavano il suo dominio con una amministrazione corretta e unitaria (…). L’imperatore vedeva se stesso come il signore di tutti i suoi popoli. Voleva accrescere il prestigio dello Stato nella sua interezza. Per questo le pretese delle singole nazioni vennero represse». Così sentenzia il diffusissimo Bausteine, stampato con denaro pubblico e distribuito gratis (in Austria i libri scolastici non si pagano).
È dunque per «accrescere il prestigio dello Stato» che Francesco Giuseppe – lo ricorda Karl Kraus – consegnò alle nostre donne di Mantova, che lo imploravano di sospendere l’esecuzione dei loro mariti e figli, la nota spese del boia? Ah, indimenticabile Silvio Pellico! «Austriaci, enigma della razza umana…». Un capolavoro scolpito nell’eternità, Le mie prigioni, che il giovine Kurz dovrebbe (ri)leggere, e meditare gli anni da incubo passati da Pellico nella fortezza dello Spielberg. E poi far limare alla sua ÖBV quei libri di testo che puzzano del cuoio degli stivali di Radetzky. Altrimenti vincerà la battuta di Karl Kraus: l’unico articolo da export austriaco è la corda del boia.

Il Fatto 24.9.18
Multiculturalismo, la minaccia più subdola per l’integrazione
A sinistra in tanti sono convinti che sia dovere dello Stato tollerare le imposizioni culturali più retrograde delle sempre più vaste minoranze religiose. Ma soltanto la piena laicità può essere garanzia di convivenza civile
di Marco Marzano


Sono tempi durissimi per chi crede nell’importanza di un approccio laico alla vita sociale e politica. Il dibattito pubblico nel nostro continente sembra infatti dominato da due fazioni certo opposte, ma accomunate dalla scarsa laicità. La prima posizione è quella di chi considera il crocifisso l’emblema dell’Europa minacciata dall’orda islamica. Nella seconda posizione, quasi egemonica a sinistra, si collocano invece le nutrite schiere dei difensori del multiculturalismo, ovvero di tutti coloro che considerano a tal punto positiva la sopravvivenza, tra gli immigrati, e soprattutto tra i musulmani, di strutture comunitarie basate sull’appartenenza religiosa da ritenere che esse vadano incoraggiate, tutelate e finanziate dagli stati europei.
La prima posizione è talmente inaccettabile da non essere nemmeno degna di essere discussa. La seconda invece merita certamente un esame più attento da parte di chi ha a cuore il futuro della democrazia. È quello che ha fatto Cinzia Sciuto nel suo saggio Non c’è fede che tenga. Manifesto contro il multiculturalismo (Feltrinelli). Secondo l’autrice, quella multiculturale è una risposta sbagliata al problema dell’integrazione degli immigrati.
Per esempio, considerare “naturale” che una donna musulmana indossi il velo o rispetti certe leggi della tradizione islamica che ne impongono la sottomissione al maschio vuol dire rafforzare strutture di potere ingiuste e afflittive. Soprattutto è un grave errore analitico e politico considerare a priori quella che accetta volontariamente di indossarlo una donna davvero libera e autonoma. Sarebbe così solo se essa fosse in possesso di tutti gli strumenti culturali, politici ed economici per liberarsi, qualora lo volesse, del peso di quella tradizione, per comportarsi diversamente e andare in giro a capo scoperto o sottrarsi alla subordinazione al marito padrone.
Il dovere degli Stati non è quindi quello di preservare gli aspetti peggiori delle tradizioni culturali, ma di fornire alle persone, alla totalità dei cittadini nuovi e d vecchia data, tutti le risorse, culturali e legali, per compiere delle scelte davvero libere, autonome, personali, insomma per poter fare, citando Michel Foucault, della propria vita un’opera d’arte unica e singolare.
Sciuto identifica correttamente in un malinteso senso di colpa da ex colonialisti l’origine dell’approccio multiculturale. Esso suona più o meno così: dal momento che per secoli abbiamo, come occidentali, dominato e vessato altri popoli, ora dovremmo astenerci da ogni interferenza e considerare i nostri valori equivalenti a quelli dei popoli extraeuropei del terzo e quarto mondo. Si tratta di un ragionamento sbagliato. Come cittadino europeo, io mi vergogno profondamente di una parte rilevante della nostra storia: mi vergogno delle crociate, dei roghi degli eretici, dell’Inquisizione, dello schiavismo, dell’Olocausto, delle abominevoli teorie razziste e delle loro applicazioni pratiche. Non mi vergogno però dell’affermazione dei diritti civili, delle libertà politiche, della democrazia, della separazione dei poteri e di tante altre scoperte certo fatte in Europa, ma che hanno un valore universale, non in quanto “nostre” europee, ma in quanto espressione di una civilizzazione universale che, per una serie di mere contingenze storiche, si è espressa qui prima che altrove. Naturalmente, non è pensabile che questi valori siano (come vaneggiava qualche stupido presidente americano) esportati con la forza, ma nemmeno che siano pericolosamente considerati equivalenti a quelli premoderni della sottomissione e della mutilazione femminile, della legittimità della violenza domestica, della discriminazione degli omosessuali.
La laicità ovviamente, e Sciuto lo ricorda, non vale solo per i musulmani, ma anche per i religiosi di casa nostra. La vita delle chiese e delle sette cristiane, al pari di quella di altri gruppi religiosi, andrebbe attentamente monitorata per evitare che si verifichino, soprattutto a danni dei bambini, forme di manipolazione, plagio e violenza psicologica. In generale, chiese e sette andrebbero tenute lontane dallo spazio pubblico, andrebbe loro sottratta ogni possibilità di ottenere privilegi indebiti, come quello di catechizzare i giovani nella scuola pubblica o di ricevere montagne di denaro dallo stato per poter mantenere in vita i loro costosi apparati burocratici. Pensando all’Italia, la totale separazione dalla sfera pubblica, avrebbe tra l’altro un effetto benefico e rigenerante, se non per le casse almeno per lo spirito della Chiesa Cattolica, che potrebbe finalmente avvicinarsi alla forma delle origini, quella di un “piccolo resto”, di una chiesa povera e per i poveri impegnata soprattutto nell’annuncio del Vangelo.
Il denso libro di Sciuto esamina in profondità questi e molti altri temi. Vorrei chiudere con un’ultima precisazione: una laicità rigorosa che mette al centro gli individui e la loro libertà consapevole non può prescindere dalla distribuzione egalitaria di opportunità e diritti sociali. Per scongiurare l’attrazione fatale del fondamentalismo è necessario che i nuovi europei (soprattutto se di religione islamica) sentano di avere le stesse opportunità di condurre una vita dignitosa che hanno tutti gli altri. Solo così il progetto laico diventerà davvero la promessa mantenuta di un mondo migliore.

Il Fatto 24.9.18
“Rifaccio la sinistra unita: senza sfigati alle Europee”
Il sindaco si confessa: “Dobbiamo recuperare gli scontenti del Pd, chi ha votato M5S e si è ritrovato Salvini”
“Tra il ministro dell’insicurezza nazionale Salvini e il suo collega Toninelli che chiudono i porti, io scelgo le ong, uomini e donne che salvano la gente in mare”.
di Enrico Fierro


Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, ha passato una estate fatta di poco mare e tanti incontri, al Sud come al Nord e sul governo Conte ha le idee chiare: “Tra chi come Di Maio vuole restringere il campo dei diritti, io sto con chi il campo vuole allargarlo. Io sto con i feriti di Bari e non con un governo che, in violazione della Costituzione, fa vivere e sostiene organizzazioni nazifasciste. Io sto con chi non si rassegna allo stato attuale delle cose e vuole costruire un vero governo del cambiamento che faccia da argine al ritorno di Berlusconi e di una destra xenofoba, razzista e antidemocratica egemonizzata dal ministro e vicepremier Salvini”.
È iniziata la lunga marcia di DeMa, il suo movimento?
Il laboratorio Napoli viene visto come un punto di riferimento, per chi in un momento oscuro ha resistito e lavora dal basso per la piena applicazione della Costituzione. Il nostro movimento si mette a disposizione per unire le forze democratiche e popolari del nostro Paese: reti civiche, coalizioni popolari, movimenti, associazioni, militanti di partito che non hanno tradito, per arginare l’avanzata delle destre.
Quindi liste alle europee?
Siamo disponibili ad esserci, ma a determinate, insopprimibili condizioni. La prima che non deve essere la confederazione degli sfigati o della sinistra radicale o di tutti quelli che stanno a sinistra del Pd, un mosaico che già è stato sconfitto e che non ci appartiene. Altra condizione: l’unità delle forze in campo. È impensabile che di fronte ai tre poli che ci saranno, Salvini con Berlusconi, Di Maio e il Pd, noi andiamo divisi e ci facciamo etichettare come un polo di una sinistra vetusta e con idee novecentesche. A noi interessa costruire, mettere in campo movimenti, reti civiche, chi ha lottato da Sud a Nord per l’acqua pubblica e contro le discriminazioni razziali, tutto quello che si è visto in questi anni, tutti coloro che non si sono rassegnati. Sarà matura già per le europee questa alternativa alle destra? Non lo so, ci stiamo lavorando.
Come giudica l’esperienza di governo del M5s?
Il Movimento si è assunto una grave responsabilità politica, che rischia di diventare storica: aver fatto diventare maggioritario chi era minoranza, Salvini, alleato di Forza Italia. Berlusconi non è un oppositore di questo governo, è nel campo di questo governo. I Cinquestelle hanno preso il 32%, un voto per il cambiamento contro Renzi e Berlusconi. Al Sud hanno avuto consenso non certo per allearsi con un antimeridionale come Salvini. Come orientamento politico questo è il governo più a destra della Repubblica e Salvini appare esserne di fatto il capo politico. Impone temi, mostra i muscoli e ha ridotto l’Italia ad essere vista e giudicata nel mondo come un Paese razzista. Un abominio.
Di Maio sembra inseguire Salvini quando plaude alla eliminazione delle ong nel Mediterraneo e annuncia il reddito di cittadinanza solo per gli italiani.
Tutto ciò è vergognoso, la regola è prima le persone come dice la nostra Costituzione che sui diritti non fa distinzioni di confini. Sono i governi precedenti, compresi quelli che vedevano presente la Lega di Salvini, ad aver trasformato l’immigrazione in una bomba sociale.
Quindi lei è pronto a raccogliere l’implosione del M5s e del Pd, a dare una casa politica a delusi e scontenti?
Non sono così presuntuoso. Diciamo che mantengo un dialogo significativo con esponenti importanti del Movimento, riconosco che nel governo ci sono componenti che lavorano perché ci sia un cambiamento, sono consapevole che in molte aree del Movimento c’è un disagio forte per la deriva profondamente salviniana, estremista, di destra, eversiva, della politica governativa. Attualmente vedo l’asse Di Maio-Salvini blindato, almeno fino alle elezioni europee. Ma appena i nodi verranno al pettine e si renderanno conto che tutto quello che hanno promesso non riusciranno a realizzarlo, il nemico diventerà l’Europa. Propaganda. Invece dei segnali possono e devono essere dati subito.
I Cinquestelle puntano sul reddito di cittadinanza.
Di per sé è una misura necessaria per tamponare le tante povertà create dalle politiche liberiste. Detto questo, si tratta di una misura che non ha un valore strutturale, chi pensa che sia una panacea sbaglia. Non è un processo di emancipazione dalle povertà che fa esplodere diritti, a cominciare da quello al lavoro. Il governo cominci a dare un segnale togliendo vincoli normativi e finanziari che strozzano le autonomie locali. Il Paese riparte se si creano le condizioni affinché nei territori si possa investire, creare lavoro. Chi pensa di far svoltare l’economia con la flat tax e con un po’ di briciole per gli affamati sbaglia e pure di grosso.
A Napoli la camorra ricomincia a sparare. Molti chiedono cosa fa il sindaco?
La città va avanti, senza soldi abbiamo fatto una rivoluzione culturale. Napoli da anni è prima per crescita turistica, siamo tra i primi per imprenditoria giovanile da start up, abbiamo una migrazione di ritorno di giovani, 450 produzioni cinematografiche e televisive in tre anni, i luoghi abbandonati vengono rivitalizzati dalle comunità locali con esperienze di governo dal basso, ma io non sono lo sceriffo. Qui le forze dell’ordine danno il massimo. Potrei assumere 150 poliziotti locali, il concorso è già fatto, ma non me lo consentono. Le responsabilità sono del governo e del ministro dell’Interno Salvini, impegnato in modo ossessivo su un solo tema, l’immigrazione.

La Stampa 24.9.18
Pd, sondaggi choc e incubo dissoluzione
Treni e bus per riempire la piazza del 30
di Carlo Bertini


Pure se Maurizio Martina prova a esorcizzare il «rischio estinzione», la paura di diventare irrilevanti si materializza nei numeri impietosi dei sondaggi che scivolano verso il baratro. Basta scorrere la «Supermedia» quindicinale del sito Youtrend, che riporta un numero spaventoso per il Pd, mixando i dati di vari istituti demoscopici: 16,4%. Due punti sotto il risultato choc del 4 marzo. Il che significa che per alcuni sondaggisti come Antonio Noto, i Dem sono scesi fino al 15%. Una cifra che potrebbe segnalare una tendenza inarrestabile al ribasso.
Il baratro del 15%
Certo altri danno la perdita più limitata, Euromedia 16,5%, Piepoli 17%, Swg 16,9%. Ma siamo lì e il timore di aver perso la ragion d’essere fa venire i brividi ai dirigenti di ogni ordine e grado. Divisi tra chi vorrebbe una scossa drastica come il presidente Orfini - che chiede di sciogliersi per rigenerarsi aprendo porte e finestre per un nuovo Pd da Saviano a Calenda - a chi invece farebbe il congresso subito, tanto da scendere in sciopero della fame, come Roberto Giachetti. In mezzo c’è l’unico candidato in campo, che gira come una trottola da settimane, Nicola Zingaretti. Il quale, di fronte ai «colpi durissimi» delle ultime sconfitte e leggendo pure lui i sondaggi come tutti, sostiene che «per ripartire dobbiamo battere i due opposti estremismi: quello liquidazionista, che dice sciogliamo il Pd. E quello conservatore, che minimizza e dà la colpa alle polemiche interne e al fuoco amico». Lui non li cita, ma allude con evidenza ai due «Mattei», Orfini e Renzi.
“Ricostruire una speranza”
«La verità - dice Zingaretti a chi pone il problema del rischio irrilevanza - è che dobbiamo cambiare. Avere il coraggio di ammettere che malgrado le tante cose fatte, le persone ci hanno sentito distanti dalla loro condizione umana».
Certo, pure il candidato segretario sa bene che «è dura. Durissima. Ma questo è il momento di trovare la forza per costruire una nuovo programma economico e sociale che unisca il tema della crescita e quello dell’equità. E promuovere nuove energie e forze che provengono dai territori. Dobbiamo cambiare e ricostruire speranza per tornare a vincere», dice evocando un refrain di Veltroni sul sogno.
I renziani vogliono separarsi
E mentre tra i giovani renziani cresce la voglia di separarsi dai «compagni» e di tornare a fare due «cose» distinte, tipo Ds e Margherita, in vista delle temute europee, il più arrabbiato nel Pd è come sempre Roberto Giachetti. «Nessuno si rende conto che scherzano col fuoco. Orfini dice che con il congresso si litiga, ma rimandandolo peggiora tutto e invece facendolo magari si riparte, dando il segno di uno strappo. Se non lo fai ora, tra sei mesi non hai più gli elettori». E se rispetto a Zingaretti la distanza è tanta, «perché io sono contrario ad azzerare la classe dirigente e dico no all’alleanza coi 5stelle», i due concordano sul fare subito il congresso per evitare il peggio. Ma dietro le quinte sono in tanti a pensare che una rifondazione da zero proposta da Orfini sia una questione all’altezza del momento drammatico in cui versano i Dem. «Il tema “ci sciogliamo o no” - ammette Giachetti - è un tema enorme: Orfini, Calenda, la domanda se il Pd sia finito se la pongono molti. Per me il Pd resta l’unico baluardo, ma dobbiamo sbrigarci, perché di qui a gennaio rischiamo di fare il congresso di un partito che non c’è più».
Il 30 la “prova di esistenza”
Intanto, lo stato maggiore e quel che rimane dell’ossatura Dem nelle province, preparano con ansia la manifestazione del 30 settembre a Roma, «che sarà la vera prova dell’esistenza in vita», dicono al Nazareno. Per questo gli obiettivi di partecipazione dati alle federazioni e ai circoli sono ambiziosi: prenotati treni e pullman a iosa, con «l’incognita Roma», perché come sempre la risposta della capitale farà la differenza per riempire o no piazza del Popolo con 50 mila persone.

La Stampa 24.9.18
Andrea Orlando
“Non è scontato che il Pd sia l’ultima casa della sinistra”
di Andrea Carugati


«Questo governo è pericoloso. Ma non è affatto scontato che la reazione passi attraverso il Pd. Dipende anche da come andrà il nostro congresso, che deve partire subito». Andrea Orlando, ex ministro della Giustizia, ieri ha chiuso a Rimini la tre giorni della sua associazione Dems con Nicola Zingaretti.
Il Pd rischia l’estinzione?
Tutte le sinistre rischiano di essere sommerse dalla storia. Il Pd sarà utile se andrà oltre i centri storici e le parole d’ordine di Confindustria. Non credo ad una separazione consensuale. Ma non è scontato che il Pd sia l’ultima casa della sinistra italiana».
Il presidente Orfini ha proposto lo scioglimento del partito.
«Sarebbe come spegnere e riaccendere il computer. Bisogna invece riflettere su un ciclo di 25 anni che si è chiuso, il ciclo di una sinistra dominata dall’ideologia del mercato e orientata a edulcorare gli aspetti più aspri del capitalismo finanziario».
Renzi dice basta con l’autoanalisi, che la sconfitta è colpa del fuoco amico e della spersonalizzazione, cioè di Gentiloni.
«La sua tesi è che abbiamo fatto cose buone e la gente non ci ha capiti. Non è così, quando una cosa funziona le persone se ne accorgono. Abbiamo fatto indubbiamente molte cose buone, ma non invertito dei processi di fondo come le delocalizzazioni e la crescita delle diseguaglianze».
E il fuoco amico?
«Più che del fuoco amico, che non c’è stato, Matteo si preoccupi degli amichetti che gli hanno detto di andare avanti anche quando sbagliava».
Sogna un Pd de-renzizzato?
«Il Pd andrà avanti solo se vincerà una prospettiva radicalmente diversa da quella degli ultimi anni, non solo degli ultimi cinque. Spero che Matteo resti e dia il suo contributo, del resto mi pare che un suo eventuale nuovo partito non andrebbe oltre il 5%».
Vi accusano di voler fare patti col M5S.
«Non esiste. Ma la prima cosa che impari quando fai politica è che devi dividere il fronte avversario, non cementarlo. Non serve a nulla dire che loro e la Lega sono la stessa destra, cosa non vera come si è visto nel voto su Orban. E neppure insultarli perché sbagliano i congiuntivi. Se ci sono proposte sui temi sociali dobbiamo interloquire».
Alle europee il Pd deve promuovere un fronte europeista?
«Dobbiamo difendere un’idea europeista, ma scegliere bene i compagni di strada. Se ci alleiamo con Macron che chiude le frontiere a Ventimiglia facciamo solo un regalo ai sovranisti».

Corriere 24.9.18
Pd, il partito «doppio» che non riesce a discutere
di Paolo Franchi


Antonio Polito (Corriere, 19 settembre) ha sollevato sulle sorti del Pd questioni importanti, che meritano di essere approfondite e discusse. E ha messo a fuoco un punto politico che i protagonisti, impegnati in un tragicomico balletto di proposte di autoscioglimento avanzate e ritirate, nonché di cene convocate e sconvocate, non hanno il coraggio di enunciare.
C’è, nonostante tutto, un futuro per il Pd? Per tentare una risposta, occorre anzitutto prendere atto che l’ipotesi stessa su cui il Pd nacque, dieci e passa anni fa, è andata in fumo da un pezzo. Forse questo partito è nato troppo tardi, affrettando un fallimento (quello del governo dell’Unione e della maggioranza «da Mastella a Bertinotti», capeggiati da Romano Prodi) e non offrendo una speranza di vittoria, nonostante il tentativo di Walter Veltroni di fondarlo su una visione del mondo. Forse non è mai nato davvero come casa comune del centrosinistra, ma solo come frutto di una fusione a freddo tra i post comunisti dei Ds e i post democristiani (non solo di sinistra) della Margherita, destinata a produrre, parola di Massimo D’Alema, un «amalgama mal riuscito». Sicuramente, e su questo Polito ha del tutto ragione, è nato per così dire a tempo scaduto, tardo blairista e tardo clintoniano nell’immediata vigilia di una crisi finanziaria, economica e sociale destinata a togliere spazio, identità e voti a riformismi e a riformisti, o se si preferisce a neoliberalismi e a neoliberali, che ragionavano in termini di società affluente. In ogni caso, ha smesso di smuovere passioni, entusiasmi e consensi un minuto dopo le elezioni del 2008, perse, sì, ma con un 37 e mezzo per cento, più di 14 milioni di voti, che oggi sembra appartenere, e in effetti appartiene, a un altro tempo e a un altro mondo.
I tentativi di rianimarlo e di restituirgli un senso e una prospettiva, la «ditta» di Pierluigi Bersani come il partito personale di Matteo Renzi, sono falliti, il secondo più fragorosamente del primo. Così che il Pd si ritrova davanti, ma stavolta ridotto a un passo dalla marginalità politica, a qualcosa di non troppo dissimile dai contrasti che a inizio secolo ne rallentarono la nascita, e poi ne resero claudicante l’incedere. Caso più unico che raro nella storia dei partiti politici, non si è mai impegnato, dopo una sconfitta storica, in qualcosa di simile a un’analisi del voto, per mettere a fuoco dove, come e perché aveva perso. Al di là delle impuntature di Renzi e dei litigi nel (si fa per dire) gruppo dirigente, anche qui una ragione deve esserci. Perché è proprio sull’analisi del voto del 4 marzo, prima ancora che sul che fare in vista delle elezioni europee, che le posizioni si divaricano, o meglio, si divaricherebbero, se potessero esprimersi compiutamente.
Per dirla bruscamente. Il problema è cercare di recuperare almeno una parte di quei milioni di elettori che hanno voltato le spalle al Pd e a una sinistra nella quale non si riconoscono più, considerandola ormai non solo lontana, ma anche ostile? In questo caso, il campo di gioco, attualmente ai limiti dell’impraticabilità, è quello di una sinistra da ricostruire, da ridefinire, da cambiare: campagna lunga, e dall’esito incerto. Oppure si tratta di lasciarsi rapidamente alle spalle quel poco che resta di una vecchia storia per andare ben oltre la stessa figura politica del Pd renziano, perché in Italia e in Europa il cuore della lotta politica batte ormai altrove? E allora gli interlocutori (e soprattutto gli elettori) possibili stanno da un’altra parte, una volta si sarebbe detto al centro, tra i cosiddetti moderati, oggi diremmo tra quanti possono essere mobilitati per contrastare populismo e nazional-sovranismo: campagna lunga ed esito incerto anche qui. A chi propende per la prima ipotesi, spetterebbe l’onere di dimostrare come si fa a battere il populismo sul suo terreno senza assumerne le sembianze e diventarne la ruota di scorta. A chi coltiva la seconda, più vicina all’impianto originario del partito, toccherebbe spiegare come potrebbe mai fare il Pd a recuperare, procedendo per questa via, oltre a un eventuale plauso dell’Economist, anche i voti (di popolo, di giovani, di ceti medi) che ha perduto. Certo: la scelta dell’una o dell’altra prospettiva potrebbe comportare anche una separazione, quanto consensuale è tutto da stabilire. Già si è scritto: siamo di nuovo ai Ds e alla Margherita? Può darsi che aleggi nell’aria anche un certo qual odore di naftalina. Ma, se non su questo, su cosa mai dovrebbe discutere, dilaniarsi, e all’occorrenza spaccarsi in un congresso di cui non è dato ancora sapere nemmeno la data e che, peraltro, non esiste nemmeno nello statuto del partito? Ha detto al Fatto Peppe Provenzano, il giovane economista che ha fondato la rete «Sinistra anno zero» e gira l’Italia per riscoprire, e ove possibile rianimare, la sinistra medesima: «Bisogna capire se basta un partito o se si deve prendere atto che non si può tenere insieme chi vuol fare Corbyn e chi Macron». Fare Corbyn? Fare Macron? Torna alla mente un’antica leggenda del Corriere, quella dell’editorialista che chiedeva al direttore se avrebbe preferito un fondo alla Montanelli o un fondo alla Scalfari, e si sentiva rispondere: fai te stesso, se ci riesci. Ma il problema è che, per fare se stessi, occorre prima di tutto esserci. Il Pd non c’è, da molto prima del 4 marzo 2018. Per questo prova a esorcizzare la questione, o almeno a tenerla lontana, sullo sfondo, nella speranza (vana) che perda consistenza.

Corriere 24.9.18
La «leggenda nera» degli ex comunisti
di Pierluigi Battista


Conosco molti ex comunisti, o post comunisti, o comunque molto critici e severi nei confronti della tradizione politica comunista da cui provengono, che però si arrestano perplessi, spaventati, o addirittura paralizzati da un riflesso esistenzialmente autodifensivo, di fronte alla demolizione di un ultimo tabù: il giudizio sui risultati del 18 aprile 1948. Aldo Cazzullo, in un libro appunto dedicato alla gloriosa Ricostruzione dell’Italia piagata e devastata dalla guerra, «Giuro che non avrò più fame» (Mondadori), dedica al 18 aprile un capitolo che mette in discussione la «leggenda nera» costruita attorno alle elezioni «più importanti della nostra storia», una leggenda secondo cui la vittoria del blocco dominato dalla Dc, insieme ai repubblicani, ai liberali, ai socialdemocratici di Giuseppe Saragat sarebbe stata determinata «dalle Madonne pellegrine, dai Cristi piangenti, dalla paura del castigo divino». No, più determinante ancora fu un’altra paura: la paura del comunismo, la certezza che con la vittoria del Fronte popolare del Pci insieme all’alleato subalterno del partito di Nenni un destino cupo avrebbe fatto avvicinare l’Italia ai regimi soffocanti di Varsavia, di Budapest, di Sofia. O di Praga, dove un colpo di Stato dei comunisti aveva affossato definitivamente la democrazia, simbolicamente rappresentato dalla defenestrazione fisica, non solo metaforica, di Jan Masaryk. La «leggenda nera» di cui parla Cazzullo non è però senza padri: ad alimentarla sono proprio gli eredi critici della tradizione comunista che però non riescono ad accettare che quella vincente fu «la parte giusta» mentre il fronte social-comunista incarnava la «parte sbagliata». Non riescono a dire che quelle elezioni sono state una benedizione per l’Italia, che l’antitesi tra la democrazia e lo schieramento totalitario di cui il Pci faceva parte non era un’invenzione propagandistica, ma l’esposizione di una realtà. Alberto Ronchey, figura specchiata di laico, disse una volta di non aver provato imbarazzo in quel frangente per l’alleanza con il partito cattolico, perché «una messa al giorno era sempre meglio di una messa al muro». Difficile dare torto a Ronchey, e alla sua tagliente ironia politica. Il 18 aprile fu una vittoria della libertà, uno spartiacque decisivo per il destino italiano. Poi, ciascuno per la sua strada, come si conviene in tutte le democrazie pluraliste.

Repubblica 24.9.18
Rino Formica
"Quell’audio è una confessione di ignoranza al potere"
di Concetto Vecchio


ROMA Rino Formica, da ex ministro delle Finanze cosa ha pensato quando ha sentito l’audio di Rocco Casalino?
«Che una persona senza limiti lo è anche nel linguaggio, che è il dna di un uomo».
Nel merito?
«Villania pura, ma è inutile aspettarsi del galateo da chi lascia i migranti in mare per giorni. Mi ha stupito piuttosto il silenzio del sindacato dei dirigenti della pubblica amministrazione di fronte a un trattamento schiavistico».
Di Maio dice che però i burocrati remano contro. Non ha ragione?
«La sua è un’autoconfessione di ignoranza. Non sanno leggere i bilanci e dicono al tecnico "caccia i soldi", con un’espressione da rapina. Un governante degno di questo nome indica la via al dirigente refrattario».
Conte ha difeso sia Casalino che Tria.
«Conte è il sottosegretario di Giorgetti. È debole e fa bene ad affidarsi a padre Pio».
Di Maio invece?
«Uno scugnizzo all’arrembaggio».
Lei non trascura il consenso di cui questo governo gode, specie nel suo Mezzogiorno?
«Al Sud negli ultimi venticinque anni c’è stata una rottura tra cittadini e istituzioni, e in questo vuoto si sono inseriti gli stregoni che hanno promesso l’Eldorado: uno stipendio per tutti e niente tasse».
La sinistra però ha dimenticato gli ultimi. Non trova?
«Sì, perché, dopo la caduta del Muro, ha accettato l’idea che la società fosse regolata dalle virtù del mercato, finendo per sposare così la causa del liberismo».
Se la sta cavando Tria?
«È l’unico ministro che gode di appoggi sovranazionali istituzionali, Bce, Ue, Ocse, che gli riconoscono la capacità di affrontare in concreto i vincoli internazionali».
Ma fino a che punto potrà resistere?
L’inganno degli stregoni al potere è stato quello di dire: "Ce ne fregheremo dell’Europa!" Ora vedo che hanno cambiato registro, inventandosi un nuovo nemico».
I burocrati romani?
«Sì, anche perché è più facile calpestare il ragionier generale dello Stato, un capo di gabinetto, il capo di un ufficio studi, che i potenti d’Europa. Sono anche codardi. Dopo il richiamo durissimo di Visco non hanno detto una parola».
Come finirà?
«Si rimetteranno alle decisioni della Bce e dell’Europa e poi compreranno un francobollo da mettere su una cartolina di saluti agli elettori: "Carissimi, ci rivedremo l’anno prossimo, nella speranza che in primavera crescano nuovi cocomeri"».

Repubblica 24.9.18
Il progetto del ministro dell’Interno
Cittadinanza e revoca dell’asilo tutti i rischi del decreto Salvini
La stretta su profughi e sicurezza oggi in Consiglio dei ministri. Quirinale e Conte chiedono ritocchi, ma su tre capitoli l’incostituzionalità non è ancora scongiurata
di Fabio Tonacci


ROMA Il controverso "decreto Salvini" su immigrazione e sicurezza, che stamani alle 10 verrà discusso nel Consiglio dei ministri, contiene tre nodi politici ancora aperti. Su di essi si misurerà il grado di una eventuale forzatura delle garanzie costituzionali che il ministro dell’Interno intende far digerire ai colleghi di governo e quanto è disposto a rischiare una mancata promulgazione da parte del presidente della Repubblica.
La bocciatura non è interesse di nessuno e Matteo Salvini ieri sera in tv su La7 ha voluto precisare che «col Quirinale non ci sono problemi, perché ho ascoltato tutti». Qualche dubbio, però, rimane.
I dubbi del Quirinale e di Conte
Il corposo testo (una cinquantina di articoli) ha subito, soprattutto nella parte dedicata all’immigrazione, alcune "limature" e correzioni dell’ultimo minuto, suggerite ai funzionari del Viminale dai giuristi del Quirinale e dal Dipartimento affari giuridici della Presidenza del consiglio.
Anche il premier Giuseppe Conte ha voluto leggere di persona la bozza, indicando alcuni ritocchi.
Verbalmente, i tecnici del Colle sono stati rassicurati sul recepimento delle obiezioni avanzate, ma la parola finale spetta comunque a Salvini.
Il punto più delicato, secondo i giuristi del Capo dello Stato, è quello della revoca della cittadinanza concessa agli stranieri, quando essi si rendono colpevoli di reati gravi.
Nell’ordinamento attuale non è prevista, perché lascia spazio a possibili disparità di trattamento tra "cittadini di serie a e di serie b". Il Dl Salvini la introduce ma, a differenza di quanto trapelava all’inizio dei lavori (durati più di due mesi), in modo più circoscritto: è limitata a motivi di sicurezza nazionale, dunque colpisce chi viene condannato per atti di terrorismo o partecipazione ad associazioni terroristiche.
Domanda sospesa alla prima condanna
Andiamo al secondo nodo, la sospensione della domanda d’asilo, e l’espulsione preventiva, per i migranti che commettono certi reati in Italia. Terreno costituzionalmente scivolosissimo, tant’è che non a caso questa parte è stata scritta e riscritta più volte. Intanto la platea dei reati per cui scatterà la misura: oltre alla violenza sessuale, si aggiungono il furto aggravato in appartamento, le lesioni gravi e gravissime, la mutilazione di organi genitali, la violenza e l’oltraggio a pubblico ufficiale.
Non è stato ancora deciso se inserire nella lista pure la semplice resistenza a pubblico ufficiale, eventualità che, ovviamente, visto quel che di solito capita durante i controlli di polizia, allargherebbe moltissimo l’applicazione della norma. Per questi stessi reati, inoltre, il decreto prevede la revoca, o il diniego, dello status di rifugiato.
Il ministro Salvini pretendeva che l’interruzione dell’iter della domanda d’asilo partisse già al momento della denuncia, in palese violazione di un principio cardine del diritto: la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio. Nel testo che arriva stamani sul tavolo del governo il momento della sospensione, e dell’espulsione (con possibilità di ritornare e riaprire il procedimento in caso di assoluzione), è stato fissato nella prima sentenza di condanna, in primo o anche in secondo grado. Non è detto che ciò sia sufficiente a convincere Mattarella a firmare il decreto.
La protezione umanitaria
C’è poi un ultimo tema caldo, che potrebbe suscitare una reazione politica dei ministri 5 Stelle. La protezione umanitaria (che, in Italia, da residuale è diventata la via principale per i migranti per ottenere il permesso di soggiorno) viene del tutto abolita. È sostituita con il rilascio di permessi solo per gravi motivi sanitari o di sfruttamento lavorativo, per calamità naturali e per episodi di alto valore civico. Il Quirinale ha chiesto cautela, perché si potrebbero violare trattati internazionali sulla materia del diritto all’asilo.
L’articolo, però, non è stato toccato, è rimasto uguale.
E le preoccupazioni non arrivano solo da chi mastica, per professione, il diritto. «A me sembra strano che si parli di immigrati all’interno del decreto sicurezza — dice monsignor Nunzio Galantino, segretario della Cei — Inserirlo lì dentro significa giudicare già l’immigrato per una sua condizione e viene considerato già un pericolo pubblico per il suo essere immigrato e non per i comportamenti che può avere».

Il Fatto 24.9.18
Castelluccio di Norcia
Le Pietre e il Popolo
Il Deltaplano ferisce l’Umbria
di Tommaso Montanari


Chi ti dice “non c’è alternativa”, di solito ti sta fregando. Specialmente se a non avere alternativa è il consumo di suolo, il cemento, la speculazione. E specialmente se te lo dice la politica, che da gran tempo e da ogni parte ha rinunciato ad una qualunque pedagogia civile, o anche solo a non assecondare i peggiori sommovimenti della pancia dei sudditi.
È quel che succede a Castelluccio di Norcia, in Umbria: dove, lunedì scorso, la Regione Umbria e il Comune hanno inaugurato il “Deltaplano”.
Cos’è, il Deltaplano?
Il sindaco di Norcia, Nicola Alemanno, ha minacciato di querelare chi lo ha definito “centro commerciale”: così lo chiameremo, come fanno lui stesso e la presidente della Regione, Catiuscia Marini, una “struttura con attività ricettive e commerciali” a forma, appunto, di deltaplano.
Una struttura di 11.000 metri quadrati, di cui 6.500 al coperto progettata dall’architetto Francesco Cellini (definito sobriamente archistar dalle autorità locali), per ospitare venti esercizi commerciali, tutti dotati di “veduta panoramica”. Costo dichiarato: 1.263.318,52 euro, a carico di Regione Umbria e Protezione civile – mentre la Nestlé, sponsor annunciato, si è poi defilata.
Ebbene, qual è il problema? Almeno due sono i peccati mortali: d’opera e d’omissione.
L’opera. Siamo in un Parco naturale, quello dei Monti Sibillini. E siamo sui Piani di Castelluccio, un altopiano di bellezza sconvolgente, uno dei paesaggi più indimenticabili che io abbia mai visto. Un paesaggio che a giugno, con la superba fiorita, si veste di un manto cromatico senza eguali, che sembra gareggiare con i Monet, o meglio con i Pissarro, più visionari. Ora, in questo angolo di paradiso nulla si sarebbe mai potuto costruire senza il ruolo determinante del Grande Tentatore: il maledetto terremoto, che alle 7.40 del 30 ottobre 2016 ha raso al suolo Castelluccio. E che ora, in nome della gestione dell’emergenza, ha permesso di aggirare vincoli, leggi e procedure consentendo di sbancare suolo vergine e di tombarlo con una gettata di cemento che serve a sostenere la struttura sedicente ecologica.
L’ipocrisia formale che ha permesso tutto questo è lo statuto di “temporaneità” dell’opera. Ma è un’illusione ottica, o peggio un inganno. Il perché lo ha spiegato benissimo l’urbanista e territorialista Laura Colini sul portale berlinese Tesserae: “La clausola che permette la realizzabilità del progetto è la temporaneità. Nell’urbanistica italiana la ‘temporaneità’ ha tempi paurosamente elastici specie quando non c’è un piano e una volontà politica che ne determini la sua precisa durata. Nel caso del Deltaplano, la temporaneità andrebbe pianificata fissando esattamente la vita della costruzione a Castelluccio (non i generici 15-20 anni), e un definendo un piano per lo smaltimento da un punto di vista logistico, funzionale ed economico. Una volta costruito, il Deltaplano è lì e ci starà a lungo: è tecnicamente smontabile ma non temporaneo. Non ci saranno probabilmente fondi per smantellarlo, non si saprà dove metterlo, e si farà a gara per decidere cosa farne. Forse tra 50 anni quando le strutture portanti, tanto all’avanguardia oggi saranno obsolete, allora si penserà alla dismissione, ma intanto il Pian Grande sarà sempre più urbanizzato, pezzo dopo pezzo, dalle strade, dalle auto e dalla turistizzazione insostenibile che occuperà anche questo pezzo di paradiso”. Ecco il problema: non solo l’esistenza di questo brutto (si può dire?) edificio in un luogo che doveva il suo fascino anche all’assenza di simili ombre, ma soprattutto il modello di sviluppo insostenibile che il Deltaplano si porta dietro, e che innescherà una urbanizzazione e una commercializzazione del luogo, queste sì, sicuramente definitive.
Accanto all’opera, l’omissione. Mentre la presidente dell’Umbria, Catiuscia Marini, inaugura il non-centro-commerciale, solo il 7% dei cantieri per ricostruire le abitazioni è partito: negozi sì, case no. E non parliamo del patrimonio culturale diroccato, su cui ancora piove e nevica. I soldi spesi nel Deltaplano non sono stati utilizzati per ritirare su le case antiche di Castelluccio, magari usando le tecniche originarie. Né si è pensato (ecco l’alternativa possibile: che c’è sempre) di destinare agli esercizi commerciali oggi nel Deltaplano l’area orientale del paese, quella delle vecchie stalle mai recuperate: come nel luglio scorso esortava a fare, per esempio, l’architetto Carlo Brunelli, in un intervento coraggioso e lucido fin dal titolo: “Castelluccio merita qualcosa in più della solita, squallida speculazione”.
E gli abitanti di Castelluccio, che pensano? La maggioranza apprezza il Deltaplano, e applaude il sindaco e la presidente della Regione.
Come non capirli? Abbandonati da tutto e da tutti già ben prima del terremoto, anime morte di quelle aree interne di cui davvero nessuno, sulle coste e nelle grandi città, sembra conservare memoria. Quale politica ha detto loro che, sì, un’alternativa è possibile? Che non sono obbligati a scegliere tra lo stravolgimento del loro territorio e della loro storia e una lenta morte per fame e oblio collettivo? Quale pedagogia civile, ambientale, economica è stata esercitata da coloro che avevano e avrebbero i mezzi culturali e decisionali? Quale reale partecipazione è stata attuata?
Nulla di tutto questo è avvenuto, e una classe dirigente e politica drammaticamente non all’altezza ha colto l’“occasione” del terremoto per dare l’illusione di aver finalmente fatto qualcosa per città ed aree che aveva colpevolmente dimenticato.
È sempre così: come se l’ostacolo al governo del territorio fossero le regole, e non le spinte speculative e l’inadeguatezza di chi, incapace di gestire l’ordinario, si getta a corpo morto sul treno – anzi, sul deltaplano – dell’emergenza.

La Stampa 24.9.18
Brexit, Corbyn apre al voto bis
“Referendum se lo vuole il partito”
di Alfonso Bianchi


Jeremy Corbyn potrebbe presto essere costretto a sostenere apertamente un secondo referendum sulla Brexit.
Il leader laburista si è detto pronto ad appoggiare la richiesta di una consultazione sull’esito dei negoziati tra il governo di Theresa May e Bruxelles se questa sarà la volontà del Labour, da ieri riunito per la sua conferenza annuale che durerà fino a mercoledì. Alla Bbc Corbyn ha affermato di essere «obbligato dalla democrazia del nostro partito» a rispettare il risultato del voto della conferenza ma specificando che lui preferirebbe elezioni generali anticipate. Quando a novembre l’esito dei negoziati sul divorzio sarà portato in Parlamento «lo bocceremo se non sarà all’altezza dei nostri standard al fine di rimandare il governo - se sarà ancora in carica - direttamente al tavolo delle trattative». E se invece dovesse cadere, Corbyn si è detto «pronto» a sfidare nuovamente May per batterla, «e così al tavolo dei negoziati ci andremmo direttamente noi».
Mentre i Tory litigano
Il popolare leader laburista finora sul secondo referendum ha sempre evitato di prendere una posizione netta, come un po’ su tutta la questione Brexit, dove ha scelto una sorta di attendismo, lasciando dettare l’agenda delle discussioni ai conservatori e senza fare praticamente mai proposte alternative. Se da una parte questa tattica si sta rivelando vincente, visto che i Tory si stanno scannando da soli in una battaglia interna che sta logorando il partito, da un’altra sta facendo perdere a Corbyn un po’ della sua popolarità nella base laburista.
I militanti sono chiaramente favorevoli alla permanenza nell’Unione europea e secondo un sondaggio di YouGov tra i membri del partito, se il referendum sulla Brexit si svolgesse di nuovo oggi circa il 90% degli iscritti voterebbe per restare. Alla conferenza 100 constituency hanno presentato mozioni per sostenere una discussione sulla Brexit e la maggior parte di queste chiede di appoggiare un secondo referendum.
A sostenere la richiesta anche un pezzo da novanta del Labour, il sindaco di Londra Sadiq Khan, che non solo proprone un voto sull’esito finale dei negoziati, ma vuole anche dare ai britannici la possibilità di votare nuovamente sul Remain. «Il popolo ha deciso, seppur contro la mia volontà» per la Brexit e ora «riaprire la discussione sarebbe sbagliato», ha pero tagliato corto Len Mc Cluskey, il leader del sindacato Unite, uomo molto vicino a Corbyn.

Reoubblica 24.9.18
Brexit e i partiti inglesi
Nuovo referendum, Corbyn apre E punta alle elezioni anticipate
di Enrico Franceschini


Londra Se non è la grande svolta che molti gli chiedono, come minimo è una svoltina. «Io obbedisco al volere del partito», dice Jeremy Corbyn nel giorno d’apertura del congresso laburista. « Se la maggioranza vuole un secondo referendum, appoggerò tale decisione » . Da due anni il leader del Labour ripeteva che bisogna rispettare il referendum del giugno 2016 e realizzare la Brexit: sebbene tre quarti dei suoi elettori abbiano votato contro, non voleva perdere l’appoggio del 25 per cento che ha votato a favore. Ma ora, sotto la crescente pressione di sindacati, deputati e militanti, Corbyn sembra averci ripensato: se domani il congresso approverà una mozione favorevole a dare nuovamente voce al popolo, il leader la farà propria.
Non è ancora detto che ci sarà un secondo referendum. In primo luogo dipende da che mozione sarà approvata martedì dal congresso del Labour: è possibile che finirà per esprimere una preferenza per le elezioni anticipate, lasciando un nuovo referendum sulla Brexit soltanto come ultima chance. Intervistato dalla Bbc, mentre è cominciata ieri a Liverpool l’annuale assise del suo partito, Corbyn disegna infatti un altro scenario per i prossimi mesi. Annuncia che, quando a novembre verrà sottoposto al Parlamento britannico, il Labour voterà contro l’accordo sulla Brexit negoziato da Theresa May con l’Unione europea, se ci sarà un accordo, o contro il " no deal", l’uscita dalla Ue senza accordi, se la trattativa fallirà. Una volta bocciata l’iniziativa del governo, l’opposizione chiederà immediate dimissioni della premier ed elezioni anticipate. Se Corbyn le vincerà, come predicono i sondaggi, il suo governo proporrà a Bruxelles di prolungare i negoziati e presenterà nuovi piani "per la difesa dei lavoratori": eufemismo di una Brexit super soft, in cui la Gran Bretagna resta nell’unione doganale (come la Turchia) o addirittura nel mercato comune (come la Norvegia). Si vedrà se a quel punto sarà necessario un nuovo referendum. Ammoniscono gli stessi sindacati corbyniani che ora lo chiedono: la domanda da porre agli elettori non dovrebbe contemplare l’opzione di rimanere nella Ue. Insomma, è presto per pronosticare che Londra farà marcia indietro e tutto resterà come adesso. Ma il futuro della Brexit diventa sempre più incerto.
Oltretutto, non soltanto Corbyn pensa a elezioni anticipate: ci pensa anche Theresa May. Secondo il Times la leader conservatrice sarebbe pronta a chiamare il paese alle urne già fra due mesi come sorta di referendum su se stessa, modificando il suo piano per la Brexit in un modello "Canada plus", analogo ma migliore del trattato che la Ue ha con Ottawa. Ma prima deve superare il consiglio dei ministri di stamane, dove la attende una rivolta dopo l’umiliazione che ha subito al summit europeo di Salisburgo, e il congresso dei Tories della prossima settimana dove la aspettano nuove trappole. Altrimenti la premier potrebbe promettere di dimettersi l’estate prossima, dopo una Brexit né soft né hard, bensì " blind": cieca, ridotta a vaga dichiarazione d’intenti, lasciando che sia un successore a definirla nei successivi due anni di transizione.
« Siamo stremati » , ironizza un comico, « fate qualunque Brexit volete, basta che non se ne parli più» . Sembra invece che continueremo a parlarne per un pezzo.

Il Fatto 24.9.18
Tra le strade del Congo, grande fallimento Onu
Rappresentanti civili e militari dell’organizzazione internazionale non hanno evitato stragi e violenze che si sono susseguite in più di vent’anni
di Stefano Citati


Penetrando nel caldo-umido della foresta equatoriale e muovendosi lungo i sentieri fangosi o lavici ai pendii delle montagne e dei vulcani del Congo orientale, da ormai quasi quattro lustri ci si può imbattere nei drappelli dei caschi blu che dovrebbero difendere i congolesi dai loro signori della guerra che devastano i luoghi e le esistenze che tentano irrimediabilmente di spartirsi.
Indiani, pachistani, sudafricani, uruguaiani: migliaia di soldati di decine di Paesi percorrono a bordo dei blindati bianchi il reticolo di piste mal battute di una terra vasta centinaia di migliaia di chilometri quadrati. Un mare verde dove la più grande missione di peacekeeping delle Nazioni Unite si perde e affonda nell’inefficacia cronica di un pachiderma tra le liane.
“Dietro il fiume la foresta attutiva i massacri”
“Alla curva del fiume la foresta attutiva i massacri”, scriveva nel suo romanzo-resoconto del Congo il poi premio Nobel per la Letteratura sir Vidiadhar Surajprasad Naipaul, sintetizzando l’orrore silenzioso che a decenni è la costante delle terre selvagge dell’ex colonia belga. Coperte dalla vegetazione e dall’aria pesante che dal maestoso fiume Congo ricopre le province più distanti dalla capitale della Repubblica democratica del Congo (l’ex Zaire del cleptocrate post-coloniale Mobutu) le stragi sono avvenute e avvengono tutt’ora lontano dagli sguardi del mondo, seppur davanti agli occhi ormai velati e indifferenti dei rappresentanti della società planetaria che dovrebbe avere come mandato di pacificare la Terra.
E quale occasione migliore di riscatto per l’Occidente se non l’intervento, con la collaborazione del resto del mondo, nel Paese che anche letterariamente rappresenta il “fardello dell’uomo bianco”, ovvero l’eredità disgustosa della rapacità dei coloni, belgi in questo caso conre Leopoldo II padre-padrone delle terre ottenute nella spartizione con gli altri europei, che irrompendo nell’ultimo dei nuovi mondi intatti ne hanno succhiato le ricchezze accanendosi sulle popolazioni sfruttate per estrarre proprio quelle ricchezze.
Crimini continui e quasi indicibili
Qui negli ultimi vent’anni, solo intensificati dal genocidio del 1994 nel confinante Ruanda (altra debacle onusiana), crimini continui e quasi indicibili sono stati compiuti da decine di milizie di sbandati invasati dalle infinite ricchezze che giacciono nel suolo del Cuore di tenebra del continente africano. Come un Blade Runner del presente chi si è recato tra la foresta e i vulcani del Kivu, o nell’Ituri, ha potuto assistere o ricevere testimonianze di orrori ai quali sono stati sottoposti la popolazione civile e i tanti profughi giunti dai conflitti dei Paesi confinanti. I rari viaggiatori neutrali hanno potuto vedere gli effetti delle violenze su donne, bambini, animali: nessuno è risparmiato in un conflitto che dura ufficialmente dal 1999. Che è stato per anni conflitto internazionale per poi tornare a essere “solo” scontro regionale nel quale però i morti si sono sempre contati a decine di migliaia al mese (per un totale che si aggira attorno ai sei milioni: il maggior numero di vittime dopo la Seconda guerra mondiale).
Profughi affamati persi nei santuari dei gorilla dalla schiena d’argento che si cibano dei primati già in via d’estinzione; gli abitanti di interi villaggi schiavizzati per l’estrazione dei tesori del sottosuolo: dal coltan ai diamanti; le giovani brutalizzate dalle milizie (e talvolta anche dai membri della missione delle Nazioni Unite); continui episodi di pulizia etnica nell’intricata composizione razziale: l’intervento dei militari dell’Onu in questi casi si è spesso risolto con la morte e la cacciata degli stessi difensori, sempre più demotivati e attenti a non incappare in mezzo ai combattimenti. Tutto ciò compone un quadro del fallimento lungo due decenni, misurabile in decine di miliardi di dollari e milioni di morti. Chi si domanda a cosa possano servire ancora le Nazioni Unite al tempo del disincanto e del disimpegno umanitario, quasi mai volge lo sguardo verso il Congo, dove l’Onu ha dal 1999 la più complessa (e compromessa) missione di peacekeeping della sua storia.
L’operazione-agonia prolungata ancora
Nel palazzo di Vetro di New York in primavera s’è deciso comunque di prolungarla d’un anno ancora, fino all’aprile prossimo: faranno vent’anni esatti (prima sotto il nome di Monuc poi di Monurso) di questa mastodontica operazione multicontinentale (sul terreno africani, asiatici, americani ed europei) scossa da scandali d’ogni genere e dalla reputazione d’inefficacia e irrilevanza comprovata negli anni.
Dispiegati per controllare e sedare gli scontri che ciclicamente si accendono tra bande armate in lotta per interessi etnici, economici o territoriali, i caschi blu hanno raggiunto in alcune fasi le 20 mila unità, ridotti periodicamente di qualche migliaio per abbassare i costi annui della missione che si aggirano costantemente sopra il miliardo di dollari.
Luogo senza speranza dimenticato da tutti
La mega-missione stancamente arranca nell’inedia e nel disinteresse della comunità internazionale; la sua sopravvivenza è costellata di denunce più o meno grandi sulle esazioni dei suoi membri, la sua notorietà affidata ormai solo a episodici resoconti delle organizzazioni umanitarie religiose che ancora seguono le vicende del Congo come luogo senza speranza né carità. Il resto del mondo non sa nemmeno più che l’Onu è lì per dei motivi che la maggior parte dell’opinione pubblica non ha nemmeno mai conosciuto. Lentamente muore sbiadendo nell’indifferenza l’alto ideale delle Nazioni Unite, ridotto a testardo mantenimento di una crisi che nessuno non solo è capace di risolvere, ma addirittura di continuare a vedere.

La Stampa 24.9.18
Jet russo abbattuto, l’accusa di Mosca
“La responsabilità è tutta di Israele ”
di Giordano Stabile


Abbiamo esposto le nostre truppe al fuoco dell’Isis per recuperare i corpi dei soldati israeliani morti in Siria e ora Israele ci ringrazia così, con comunicazioni «fuorvianti» che hanno portato all’abbattimento di un nostro aereo. È questo il punto saliente della relazione del ministero della Difesa russo sull’incidente di una settimana fa nei cieli di fronte a Latakia. Un raid aereo dell’aviazione israeliana concluso con un missile della contraerea siriana che invece di colpire gli F-16 con la stella di David ha centrato un Ilyushin. Tutto per colpa, secondo Mosca, del mancato avvertimento da parte degli israeliani. La rivelazione del portavoce russo, colonnello Igor Konashenkov, cioè che una pattuglia di Spetsnaz si era spinta nel territorio controllato dallo Stato islamico vicino al Golan per individuare le sepolture e i resti di soldati caduti in battaglia nel 1973 e mai restituiti dallo Stato siriano, rivela la complessità della relazione fra lo Stato ebraico e la Russia.
Per tre anni, da quando Putin ha deciso di intervenire in sostegno di Assad, le due potenze hanno convissuto. Israele ha condotto centinaia di raid contro postazioni e convogli iraniani e Mosca ha lasciato fare, purché non venissero «messe a rischio vite dei militari russi», la linea rossa tracciata dallo Zar e concordata con Netanyahu.
«Informazioni fuorvianti»
Il Cremlino ora accusa Israele di «sconsideratezza» e ingratitudine. Konashenkov ha confermato che gli israeliani hanno avvertito del raid solo un «minuto prima» che gli F-16 si presentassero davanti a Latakia e le «informazioni fuorvianti riguardo la posizione dei raid hanno reso impossibile guidare l’Ilyushin verso un luogo sicuro». Ma il portavoce ha soprattutto enfatizzato la disponibilità dimostrata con Israele. Ha rivelato che la Russia ha convinto l’Iran a ritirare le milizie sciite, «1050 uomini, 24 sistemi missilistici anti-aerei e tattici, 145 altri pezzi di artiglieria» a «140 chilometri a Est del Golan», come chiesto da Israele.
Le tombe di Aleppo
C’è di più. La Russia ha «protetto tombe ebraiche ad Aleppo» oltre a inviare forze speciali alla ricerca dei resti dei soldati israeliani caduti. Un ufficiale, nota il portavoce, è rimasto ferito dall’Isis ma «la missione è andata avanti». Per Israele riportare a casa i soldati, vivi o morti, è priorità nazionale e il gesto russo è segno di grande amicizia. Anche per questo lo Stato ebraico ha usato toni contenuti e ieri ha ribadito che «gli aerei israeliani erano già rientrati nel proprio spazio aereo quando l’aereo russo è stato abbattuto»: la colpa è dei siriani. Il portavoce ha poi confermato la disponibilità di Israele a proseguire il coordinamento con la Russia in Siria. Ma lo spazio aereo siriano rimane chiuso, ufficialmente per «esercitazioni in corso». Secondo media vicini al governo di Damasco lo rimarrà anche dopo la fine delle manovre, il 26 settembre. È di fatto una no-fly-zone per i jet israeliani. Come nota l’analista militare Amos Harel, le argomentazioni russe sono «dubbie», ma destinate a creare «una nuova realtà». Molto meno favorevole a Israele.

Il Fatto 24.9.18
Quanti guai: Trump così lascia a secco gli aiuti a Ramallah
di Andrea Valdambrini


Tempi duri per gli aiuti alla Palestina, che passano in gran parte attraverso l’ Unrwa, agenzia Onu per i rifugiati della Striscia di Gaza, della Cisgiordania e quelli di Paesi vicini come Libano, Giordania e Siria. A gennaio l’amministrazione Trump aveva già deciso di ridurre a metà gli aiuti (65 milioni di dollari su 125 previsti) via Onu, poi è arrivato l’annuncio del taglio definitivo a partire dal prossimo anno. E verranno meno anche 200 milioni di dollari in aiuti diretti, che rischiano di mettere in ginocchio i progetti di molte ong, a cui si aggiunge anche il ritiro – rimasto in forse fino all’ultimo – di 25 milioni di dollari destinati agli ospedali di Gerusalemme Est.
Il taglio più doloroso riguarda proprio l’Unrwa, struttura delle Nazioni Unite, creata nel 1948 come gigantesco ammortizzatore sociale per i palestinesi espropriati delle loro terre dal nascente Stato di Israele. L’Unrwa assiste una parte importante della popolazione della Cisgiordania, se solo si pensa che sui quasi due milioni di residenti a Gaza il 70% vengono classificati come “rifugiati”, e che nella stessa situazione si trovano circa la metà dei 3 milioni di abitanti dei Territori occupati. Non solo fornisce cibo, cure mediche e istruzione, ma dà anche lavoro complessivamente a circa 30 mila palestinesi. Servizi e posti di lavoro che potrebbero venire meno dal 2019, secondo l’allarme lanciato dagli stessi funzionari Unrwa anche se altri Paesi dovessero contribuire maggiormente, coprendo così l’ammanco dei soldi americani. Perché sono gli Usa a essere stati finora il primo donatore, con più del doppio dei fondi rispetto al secondo finanziatore, l’Ue (364 milioni contro 142 nel 2017).
È in merito alla svolta di Washington che la discussione si fa più accesa, anche sullo sfondo di un rapporto rafforzato tra Usa, Israele e i suoi alleati nella regione. La rivista Foreign Policy ha rivelato come la decisioni della drastica sforbiciata ai fondi per la Palestina sia da attribuire a Jared Kushner, genero di Trump e consigliere della Casa Bianca per il Medio Oriente, convinto in questo modo di poter imporre un nuovo piano di pace per la regione, che tenga la Palestina sotto ricatto. D’altronde Unrwa ha tanti nemici, secondo i quali gli scopi umanitari dell’agenzia non sarebbero altro che il pretesto per coprire il “diritto al ritorno” dei palestinesi esuli dal 1948: appena 20 mila persone, e non invece tutti i loro discendenti, da contare oggi in milioni.
“Considerata l’eccezionalità di un conflitto in atto da 70 anni, l’aver tenuto quasi 5 milioni di persone sotto aiuti umanitari per tutto questo tempo è già uno scandalo – spiega da Gaza Meri Calvelli dell’Associazione cooperazione e solidarietà (Acs), ong italiana presente in Palestina – Se l’agenzia Onu dovesse chiudere, la questione del ritorno dei profughi alle loro terre sarebbe cancellata”. Con tanti saluti alla risoluzione 194 dell’Onu e al diritto internazionale.

Repubblica 24.9.18
Enigmi
Un’ossessione chiamata Dostoevskij
di Pietro Citati


Perché il grande autore russo continua ad affascinarci? Quale segreto nasconde il suo senso di colpa? Quale fu il ruolo delle sue malattie? Viaggio nella vita dell’uomo che osò dire: "Soltanto la bellezza pura salverà il mondo"
Non si finisce mai di leggere Dostoevskij.
Non solo i grandi romanzi e i racconti brevi, di cui esistono numerose edizioni. Ma, ecco qui, in italiano, francese ed inglese, una serie straordinaria di volumi: testi di Dostoevskij o che lo riguardano direttamente o indirettamente: Récits, chroniques et polémiques, a cura di Gustave Aucouturier (Gallimard, 1969), migliaia di pagine, che conducono dal Doppio agli articoli del Tempo: la corrispondenza, tre volumi sino al 1881 (Barillat, 2003) a cura di Jacques Catteau, studioso di qualità eccezionale: la corrispondenza tra Dostoevskij e la moglie (ed. Radouga, 1986); la grande biografia di Joseph Frank (Princeton University Press, 1979-2002); e infine i Carnets della moglie (ed. Radouga, 1986), e il vecchio Dostoevskij marito (Bompiani, 1939). Non c’è limite a Dostoevskij, il quale progetta continuamente nel futuro, come se la sua opera appartenesse esclusivamente a ciò che non esiste.
In primo luogo, ecco le fonti: il libro di Giobbe, il Don Chisciotte, testi di Poe, e di De Quincey:
Eugénie Grandet di Balzac, Madame Bovary: la musica ascoltata all’aperto, nei Grandi Giardini d’Estate: Mozart, Beethoven, Meyerbeer: la falsa fucilazione, la vita nella fortezza di Pietro e Paolo; la lettura di Gibbon, Prescott, Jane Eyre; sotto la protezione del pro-pro-pro zio di Vladimir Nabokov, che fingeva di detestare Dostoevskij.
Tutti, in primo luogo gli amici, come Katkov e Maikov, si chiedevano chi fosse Dostoevskij.
Certo, non assomigliava a se stesso: era, sempre e dovunque, un altro; da qualsiasi parte lo si guardasse. Era un uomo solo: distrutto e ossessionato dalla solitudine, e da una insaziabile chiacchiera. Conosceva benissimo la realtà: la conosceva perché era posseduto da un fortissimo senso di colpa.
Lavorava di notte: oppure non dormiva la notte, posseduto dalla scrittura. Non si sentiva mai compreso, sopratutto quando lo era. Ma, qualsiasi cosa scrivesse o dicesse, amava profondamente la vita — sino alla fine dei suoi ultimi giorni, anzi sino all’ultimo momento.
Qualche volta, Dostoevskij appariva in società tra gli uomini distratti, disattenti e falsi.
Camminava lentamente e pesantemente, strascicando i piedi, quasi portasse ancora i ferri che, per quattro anni, lo avevano stretto in Siberia. Pareva un soldato degradato, un malato fuggito dall’ospedale. Gli occhi piccoli e spenti erano ostilissimi, la voce era bassa e sorda, il colorito terreo; e una rete minuziosa di ombre gli solcava il volto. Talvolta arrivava più cupo della notte: non salutava nessuno; posava le mani come secchi pezzi di legno. Si sarebbe detto che preparava un piano d’attacco, con la testa bassa e il viso contorto da una smorfia. Ma sapeva parlare mirabilmente, come Tolstoj. Era un conversatore meraviglioso.
Cominciava a parlare con la voce bassa e rotta, quasi bisbigliando.
Quando si infiammava, una luce dolcissima e seducente gli accendeva il viso; e parlava con una esaltazione crescente, con occhi brillanti e ispirati. E all’improvviso diceva, come il principe Myškin nell’Idiota: «La Bellezza Pura salverà il mondo».
Forse non ci credeva: la Bellezza Pura non esiste — ma mentre pronunciava questa parole conosceva ogni aspetto ed ombra della realtà.
Non sapeva le cause e le origini del suo mal caduco. Ma certo, almeno due volte alla settimana, veniva posseduto da attacchi epilettici, che probabilmente erano cominciati in Siberia.
L’intelligenza impallidiva, la memoria si oscurava, non ricordava il volto delle persone.
Come Leopardi, forse più di Leopardi, conosceva la noia: la terribile noia; e sottolineava la parola terribile. A Ems, dove curava il suo enfisema, soffriva il volto più tremendo della noia: ciò che chiamava cafard. Sentiva di aver commesso una colpa: o, più probabilmente qualcuno l’aveva commessa in suo nome, per lui e contro di lui. Non sapeva mai — noi lo sappiamo — se i suoi romanzi erano riusciti, o un tremendo fallimento.
Aveva bisogno di denaro, che gli mancava sempre, a costo di farselo prestare dagli odiatissimi ebrei. Aveva bisogno di giocare: specie a Homburg, nel nord della Germania; a costo di lasciare la moglie Anna senza un kreutzer.
Vendeva l’orologio, i vestiti, gli orecchini e la pelliccia della moglie. Non c’era altra salvezza che il gioco: nient’altro di positivo. Aveva un solo desiderio: tornare in Russia, a Pietroburgo. Ma anche scrivere era un gioco: sopratutto se congetturava un «gigantesco romanzo» che sarebbe diventato L’adolescente o I fratelli Karamazov. Invidiava Tolstoj; e specialmente Anna Karenina.
Viaggiava: era dappertutto; Londra, Ginevra, Milano, la caldissima Firenze, soprattutto Dresda.
Verso la fine degli anni Settanta non tollerava più la Germania, la Svizzera e l’Italia; e nemmeno Dresda e le sue rarissime bellezze, care a Bellotto. Anche Ems — la più famosa stazione termale renana, gli sembrava intollerabile, sebbene pensasse che le quotidiane cure termali giovassero alle sue vie respiratorie. Ems era piena di russi, più russi dei tedeschi, che assomigliavano tutti all’imperatore Guglielmo. Si comprò un bastone e due cappelli di feltro. Tutto, in Germania, a Berlino, a Ginevra, a Ems, era letteralmente insopportabile.
L’isolamento lo rese ipocondriaco. All’improvviso il tedio — il tedio che era la sua vera vita — lo possedeva. Voleva ritornare a Pietroburgo, a cui aveva dedicato, fin dalla giovinezza, il suo cuore e il suo spirito. Voleva ascoltare quelle parole russe, leggere quei giornali russi. Gli attacchi epilettici lo assalirono ancora, nella notte e nelle prime ore del giorno, e non poteva difendersi.
Vide e rivide il Cristo al sepolcro di Hans Holbein il Giovane al Museo di Basilea. Rimase a lungo a contemplarlo. Il viso di Cristo era atrocemente sfigurato dai colpi, con occhi dilatati, pupille storte, il bianco degli occhi aperto e scoperto. Quel Cristo — almeno quel Cristo — era irreparabilmente morto, e lui non poteva tollerare la sua espressione di cadavere.
Accadde qualcosa di meraviglioso e terribile. Si liberò dalla paura del gioco: a casa non c’era più nulla, né tè né zucchero, né soldi per pagare il pranzo e l’affitto. Era il tempo di lasciare l’Europa, tornando nel cuore vivo e vibrante della Russia: l’immensa, umida, accecante, ancestrale Pietroburgo, la stessa adorata da Nabokov. Tornò nella città di Pushkin, dove tutti dicevano: «Che c’è di nuovo?» oppure «Che ne dite di questo giorno?». Molti anni prima Dostoevskij aveva sposato Anna Snitkina: «Amica mia, sono dieci anni che sono innamorato di te, e sempre crescendo». «Era il mio angelo custode». Fu, nell’insieme, un matrimonio felice, sebbene Dostoevskij potesse scatenarsi con furore. Le baciava le mani, le carezzava i piedi, con un erotismo ossessivo. «Dimmi, mia cara. Mia luce, mia piccola sorella, dimmi quello che devo fare per guadagnarmi il tuo cuore». La sognava di continuo; e voleva che lei lo sognasse. «Ti stringo tra le mie braccia. Ti abbraccio in immagine tutta intera (capisci?).
Abbraccio le tue mani, i tuoi piccoli piedi!». «Dopo ogni lunga separazione, mi sono innamorato di te, e ti ritrovo ogni volta innamorata». «Ti stringo tra le mie braccia e ti abbraccio, te e le tue care mani, i tuoi piccoli piedi (che tu non mi permetti di abbracciarti)». Anna sognava il marito, sempre più triste e angoscioso, come se avesse peccato anche lei senza saperlo.
Di solito Dostoevskij si svegliava molto tenero, nel cuore inoltrato del pomeriggio. Sullo sfondo stava Tolstoj, il quale pensava che Anna fosse la migliore delle mogli. La vita comune non durò a lungo.
Nella notte dal 25 al 26 gennaio 1881 del calendario giuliano Dostoevskij cadde a terra.
La mattina del 28 gennaio si accorse subito che sarebbe morto, sotto il segno di un versetto di Matteo (3, 15). Disse a Anna: «Sono tre ore che non dormo, e credo, e ora sono certo, che morirò oggi».
Morì alle 20.30 del 28 gennaio 1881.