lunedì 24 settembre 2018

Corriere della Sera 5.9.08
Civiltà La storia straordinaria della musica tzigana, dall'invenzione del flamenco alle danze ungheresi
Gitani, mille anni al suono del violino
Senza patria, ma con una tradizione che ha influenzato Debussy
di Michele Farina


«Il buon re persiano Bahrâm, commosso dai sudditi che reclamavano musica alla maniera dei ricchi, ottenne dal suocero che viveva nell'alta valle del Gange l'invio di 12.000 musici. Il re diede loro di che vivere coltivando la terra: un asino, un bue e mille carichi di grano ciascuno. Ma un anno dopo se li vide ricomparire ridotti alla fame, perché si erano accontentati di mangiare i buoi e il grano. Irritato, il sovrano consigliò loro di mettere corde di seta agli strumenti, saltare sugli asini e andarsene a vivere della loro musica». Questa leggenda iraniana del X secolo — spiega Alain Weber nel suo Viaggio musicale dei Gitani (Ricordi editore) — favolosamente narra le circostanze di quella che potrebbe essere stata la prima tappa dell'esodo Rom dall'India all'Occidente. Un esodo lento ed errabondo cominciato prima dell'anno Mille, che spingerà «la tribù profetica dalle pupille ardenti » (Baudelaire) a disseminarsi e a seminare tra il Mediterraneo e l'Europa le note «contaminate» della sua cultura meticcia.
Non hanno lasciato libri e filosofie ma un ibrido universo di suoni, danze, acrobazie, incantesimi buoni per addomesticare il cobra reale e a volte gli esseri umani, il mondo degli stanziali spesso diffidenti verso questa gente straniera girovaga e scura («Quando Dio creò lo Tzigano, lo mise su una tavola al sole e il sole brillò a lungo »). Una «scia di seduzioni»: Weber dipinge i Rom come «precursori dei fenomeni di fusione musicale, dal jazz alla world music». Da Debussy in estasi per il violinista zingaro del Caffè Ungheria alla chitarra di Django Reinhardt ai ritmi di Goran Bregovic. Dal jazz manouche
ai 400 gruppi che suonano ogni estate al festival serbo di Guca (300 mila spettatori) dedicato alla tromba e alle fanfare. Dai motivi Gondhali dell'India centrale all'Andalusia del gitano Tío Luis, classe 1715, il primo cantore conosciuto di flamenco.
Flamenco da «flama», fiamma. «Fusion» come combustione di tradizione e improvvisazione, locale ed esotico. I Rom popolo «glocal » ante litteram? Li chiamiamo gitani, tzigani, zingari, gipsy, bohémien: in mille anni i Rom hanno avuto tanti nomi e nessuna patria. Kowlî per i persiani (da kâbulî, originario di Kabul), nel Nord dell'India sono accomunati alle khanabadosh, le caste erranti. Rom deriverebbe da Dom (in origine «tamburo»), casta di Intoccabili dedita alla fucina («come il Diavolo »), alla musica e alla tessitura. Suonatori e fabbri in una babele di sottogruppi: Bansphor (fabbricanti di impalcature di bambù) e Hatyara (cacciatori di cani feroci), cordai, tamburinai e Bahuroopia (da bahu, molti), attori di strada che interpretavano più personaggi simultaneamente. Erano Dom i responsabili della cremazione dei defunti sul Gange, come pure la sottocasta dei boia Jallad.
Una ricchezza di radici per un mondo che oggi rischia di restare francobollato da una parte all'immagine negativa dei «campi Rom», dall'altra al «gitano» come etichetta di un certo «etnico» di massa. Insomma, marginalità sociale nelle periferie italiane e danza del ventre per turisti nei cabaret di Istanbul, cronaca nera e il flamenco di Joaquín Cortés. Sullo sfondo di desolanti cliché, il libro di Weber (promosso dalla seconda edizione del festival MiTo Settembre Musica, in corso a Milano e Torino) ridà colore e profondità all'epopea tragica e irridente di un popolo «il cui unico destino fu il viaggio».
Non esodo compatto e mirato, piuttosto una disseminazione (a piccoli gruppi) che in mille anni ha sparso tracce dal Gange all'Andalusia, da Luxor al Danubio. Ecco le danzatrici egiziane ghawâzí con il profondo décolleté e la cintura dorata che già incantarono il ventottenne Flaubert: «Il loro modo di girare su se stesse colpendo con il piede la superficie del bancone — spiega Weber — non può non richiamare le giravolte della danza kâlbeliá del Rajasthan, o lo schiocco di talloni del flamenco». Tre ballerine ai tre angoli del mondo, la stessa matrice. «La maggior parte degli artisti popolari tradizionali del mondo arabo, mediterraneo e balcanico sono Rom». Sono i gitani a comporre le orchestre militari turche che percorrono l'Europa dell'Est dal XVI secolo e che finiscono per propiziare l'emergere delle fanfare contadine. In Romania a inizio '900 si conoscevano 50 gruppi Rom: dai Kalderash (stagnini) agli Ursarii (ammaestratori di orsi riconvertiti all'intaglio di pettini in corno). Vi brillano i Lautari, virtuosi del liuto e del violino, affrancati dalla condizione di musici schiavi a partire dal '700. È alla fine di questo secolo che si sposta in Russia la «tziganomania». Ogni principe ha il suo complesso. Con la Rivoluzione d'Ottobre gli tzigani scappano in seguito alla proibizione bolscevica del nomadismo (e alla fine dell'aristocrazia), prima che in Germania le leggi coercitive della Repubblica di Weimar facciano da preludio alla follia nazista (oltre 200.000 Rom sterminati nei lager). In quegli anni il celebre violinista Jean Gulesco aveva già chiuso il suo straordinario vagabondare: dal palazzo dello zar Nicola II a Berlino, da Istanbul alla Parigi dei cento cabaret come il Montechristo e lo Shéhérazade.
Oggi quasi tutti i Rom sono ancorati in qualche luogo. Adesso sono loro gli stanziali, mentre noi giriamo low-cost. Al nostro mondo globale è riuscito quello che non riuscì a Maria Teresa d'Austria, quando nella seconda metà del '700 tentò di imporre agli tzigani fissa dimora in Ungheria: «Potranno far musica solo quando non avranno da fare nei campi». Figurarsi. Come per i 12.000 musici alla corte del re persiano Bahrâm, nel vecchio mondo vivere per i Rom era spostarsi, asini e musica, era la maledizione che un'antica maga lanciò a Tchen, figlio di un capotribù sulla riva del Gange: «Tu e la tua gente non berrete mai due volte dallo stesso pozzo».