l’espresso 23.9.18
Non basta dire che si deve accoglierli
di Renzo Guolo
Per
troppi anni la sinistra è rimasta afona sulla scelta di modelli per
integrare i migranti. E in questo silenzio è cresciuta la xenofobia
Come
è maturata la sconfitta della sinistra sull’immigrazione? Determinante è
stata la sottovalutazione del bisogno di sicurezza ma non si tratta
solo di questo. Conta anche il formarsi di un immaginario collettivo
intriso di sfiducia riguardo all’integrazione culturale degli immigrati.
O almeno, di quelli appartenenti a gruppi ritenuti, a causa di taluni
marcatori etnici e religiosi, più “lontani” dagli italiani. Un senso
comune alimentato non solo da episodi di cronaca o da interessate
narrazioni di attivi imprenditori politici della xenofobia, ma anche da
microconflitti che coinvolgono autoctoni e immigrati nella vita
quotidiana. Quello sull’uso degli spazi collettivi, ad esempio, dove si
confrontano comportamenti e stili di vita ritenuti incompatibili.
Aspetto più o meno occultato a sinistra, perché presuppone
l’inconfessabile: la possibilità che tra gli italiani possa prendere
forma una deriva di stampo xenofobo o razzista. La sinistra ha
illuministicamente pensato che il tempo avrebbe comunque appianato gli
eccessi. Ottimismo della volontà che, poco gramscianamente, metteva da
parte la necessaria dose di pessimismo della ragione. Tanto da rimuovere
l’idea che le culture possano essere, senza politiche e pedagogie
pubbliche che aiutino a scongiurare quell’esito, motore di conflitti e
non solo di convivenza. Eppure bastava guardare a quanto avveniva nel
Nordest, granaio elettorale della Lega. Il capitalismo molecolare
nordestino, policentrico per natura, ha popolato di immigrati non solo i
centri urbani ma anche i piccoli paesi e le frazioni di campagne di
quell’area. Se quella disseminazione territoriale ha scongiurato la
nascita di grandi spazi di segregazione urbana e sociale, incubatori di
conflitti potenzialmente acuti, non di meno ha reso palese ai più che la
globalizzazione non faceva circolare solo capitali, merci e
forza-lavoro, ma anche persone con le proprie identità culturali. Una
constatazione che ha generato spaesamento e senso di spossessamento.
Sino a dilatare, tra gli autoctoni, i fantasmi della perdita della
propria cultura.
Una visione acritica della globalizzazione
Di
fronte a simili reazioni, spesso abnormi, sarebbe servito un discorso
chiaro sulle difficoltà - oggettive ma non insormontabili - di ogni
processo d’integrazione. Senza il timore di inseguire i competitori
politici su un terreno ritenuto di destra. La sinistra, invece, non ha
proferito verbo. Costretta al silenzio dal peso delle sue stesse culture
di riferimento, quella di ispirazione marxista e quella cattolica
progressista. La prima, in una sorta di “complesso di Kurtz”, il
conradiano protagonista di “Cuore di tenebra”, vede nei migranti i figli
dello sfruttamento coloniale e neocoloniale da risarcire per riparare
agli orrori e agli errori dell’Occidente. La seconda guarda ai migranti
come ai poveri e ai fratelli in Cristo. Richiami ideali che però non
riescono a placare i timori di quella parte di società sempre più
desiderosa di protezione che chiede efficaci pratiche di governo del
fenomeno “qui e ora” . Uno sguardo, quello della sinistra, gravato dalla
ricerca di un effetto “compensativo”. Alle prese dopo il 1989 con un
serio problema d’identità, ha surrogato la subalternità all’ideologia
liberista e a una visione acritica della globalizzazione, mediante un
meccanismo sostitutivo: la sua vocazione universalista e
umanista
troverà nei diritti umani, in particolare quelli dei nuovi dannati
della terra, un nuovo terreno di richiamo. Limitandosi per il resto a
proporsi di gestire le conseguenze prodotte dall’incessante lavorio
della talpa del capitale globale nelle viscere della società. Dando così
l’impressione di occuparsi solo degli ultimi di “fuori”. Il successo
dello slogan “prima gli italiani”, che ne fa un bersaglio senza che
possa nemmeno poter mobilitare elettoralmente quelli per cui si batte
(privi del diritto di voto), non è comprensibile senza questo fermo
immagine.
La sindrome di Lord Chandos
Per i suoi valori la
sinistra è, naturalmente, portata all’accoglienza. Ma “che fare” di
poveri ed ex-colonizzati una volta in Italia? Come governare non solo il
presente ma anche il futuro, oltretutto in un contesto destrutturato
dalla crisi del welfare e dall’aumento delle diseguaglianze?
Paradossalmente ma non troppo, nonostante le ispirazioni solidaristiche,
la sinistra è incappata, sul punto, nella sindrome di Lord Chandos: la
parola ha lasciato il posto al silenzio che introietta la consapevolezza
che dire diviene impossibile. Perché significherebbe mettere in
discussione molto, se non tutto. Un silenzio che la condurrà a una
passiva adesione a un “liberismo sociale” che affida i processi
d’integrazione culturale all’evolversi delle dinamiche societarie.
Rinunciando a governare le contraddizioni che nel frattempo esploderanno
“in seno al popolo”. Certo, le culture mutano interagendo tra loro, ma
cicli politici e cicli culturali hanno tempi diversi. I primi hanno come
orizzonte il breve periodo, i secondi il lungo. Tanto più in un paese
monoculturale come l’Italia, storicamente alieno dal misurarsi con la
differenza. L’evitare di affrontare la questione dell’integrazione
culturale favorirà sia le chiusure xenofobe sia quelle etnocomunitarie
di taluni gruppi di migranti.
Riconoscere le differenze
La
via della rinuncia ha avuto un momento topico tra la fine degli anni
Novanta e i primi anni del nuovo secolo, quando - senza un vero
confronto tra politica e saperi - verrà scartata l’ipotesi di adottare
un qualsiasi modello d’integrazione culturale destinato, come in altri
paesi europei, a definire regole del gioco e forme e limiti del
riconoscimento delle differenze. Prevarrà la tesi sull’inutile rigidità
dei modelli nelle loro varie versioni: assimilazionisti,
multiculturalisti o pluralisti. Preferendo procedere attraverso misure
legislative su singoli temi: scuola, politiche urbane, libertà
religiosa. Le dinamiche dell’alternanza politica vanificheranno la
scelta del passo dopo passo, svuotando quei provvedimenti a ogni cambio
di maggioranza. Finirà così tra parentesi anche il discorso pubblico che
sorregge ogni modello: quello che esplicita a cittadini e residenti
strumenti e finalità dell’integrazione culturale. Nel panorama italiano,
dunque, non vi sarà traccia di una discussione simile a quella
francese, britannica o tedesca che, negli ultimi decenni, ha cercato di
rispondere all’interrogativo sul come sia possibile far convivere
culture diverse all’interno del medesimo spazio sociale. Un vuoto che
farà diventare egemone un “assimilazionismo senza assimilazione”,
fondato sull’idea che gli stranieri devono accettare regole e valori
della società italiana e che la politica non deve fare nulla che
incoraggi il riconoscimento della differenza, ritenuta disgregante. Un
tipo di considerazione diffusa, oggi, in tutta Europa. Come dimostra il
recente risultato elettorale svedese: l’avanzata dei partiti xenofobi è
determinata anche dalla protesta di cittadini che stigmatizzano gli
stranieri non solo perché concorrenti sul terreno del welfare ma perché
ne usufruiscono senza condividere quella partecipazione civica ritenuta
costitutiva del patto di cittadinanza. Fatto che, nella culla della
socialdemocrazia scandinava, appare inaccettabile anche a elettori prima
orientati a sinistra. Uno smottamento che investe ovunque settori di
opinione pubblica liberale e progressista che convergono sulle posizioni
della destra xenofoba in nome di valori che sentono minacciati da
identità altrui ritenute regressive. Come quei pezzi di movimento
femminista o Lgbt che imputano a taluni gruppi di immigrati chiusure
sessiste. Insomma, il discorso della sinistra sull’immigrazione deve
tenere conto non solo della sicurezza ma anche dei crescenti timori per
la coesione culturale. La sfida si gioca su questo duplice piano.