martedì 25 settembre 2018

l’espresso 23.9.18
Vade retro, diritti
Separazioni più costose. Legge sulle unioni civili svuotata, come per l’aborto. Ecco la strategia gialloverde
di Susanna Turco


Adesso che, per puro caso, Matteo Salvini è diventato a Roma vicino di casa del leader del Popolo della Famiglia Mario Adinolfi, a voltarsi indietro salta fuori che molte cose erano state apparecchiate per tempo. La promessa elettorale c’era - attenzione, anche da parte dei Cinque Stelle. Il contratto di governo pure. I protagonisti erano preparati a scendere in campo, ognuno col suo ruolo: a partire dal senatore Simone Pillon, protagonista di Family day, amico del ministro Lorenzo Fontana, concrezione avvocatesca in cui l’ansia declaratoria di un Domenico Scilipoti si agglutina con la determinazione al cilicio di una Paola Binetti. C’erano le parole, i testi, l’iniziativa parlamentare. Mancava giusto la compagnia di giro - il coro, i figuranti, le prefiche - ma anche quella si sta rapidamente (ri)costituendo, dalle Eugenia Roccella ai Maurizio Gasparri e gli altri 148 sottoscrittori dell’entusiasta intergruppo parlamentare “Vita, Famiglia e Libertà” (c’è pure la Binetti, rieletta e militante in Noi con l’Italia), insieme con un clima che non si respirava così da almeno un decennio. Ed ecco così che con una coerenza assoluta alle premesse torna rinnovata, più agile e insieme più minacciosa, la saldatura tra un pezzo di politica e pezzi di mondo cattolico (il Family day, i teocon) - nel nome della difesa della cosiddetta «famiglia tradizionale». Non sono per forza e solo gli stessi nomi. Nemmeno le istanze sono identiche. Ma l’ambizione è persino più alta: nel 2007 era fermare l’ingresso in Italia di certi istituti, come Dico o Pacs. Adesso si tratta di smontare, riavvolgere il ilo. Il divorzio breve, le unioni civili, il biotestamento. Sopire, disapplicare. «Dobbiamo recuperare il terreno perso negli ultimi anni e spostare il confine un po’ indietro nel tempo, dopo una legislatura orribile», è il programma di Gaetano Quagliariello, il senatore di Forza Italia noto soprattutto per la frase che urlò al Senato nel 2009 («Eluana non è morta, è stata ammazzata»). Anche lui è parte del gruppone Vita e famiglia - dove fa capolino, da fuori, pure Massimo Gandolini, leader del Family Day. Una specie di utopia regressiva. Fin dove si potrà arrivare, in concreto? La legislatura è in realtà appena agli inizi, si è lavorato pochissimo, nessuno ha preso le misure di alleati e avversari. Però è chiaro che per difendere la famiglia tradizionale si può andare a gradi, seguendo come bricioline le parole di Salvini e degli altri del centrodestra. Vale a dire: ribadire che è «composta da uomo e donna», ossia distinguerla dalle coppie omosessuali anche dal punto di vista linguistico, grado uno; grado due, rendere più complicate separazione e divorzio; grado tre, incentivare la natalità - faccenda che va dal mitologico «quoziente familiare», fino «all’aiutare le donne a far nascere bambini» (Pillon), anche «con ingentissimi incentivi economici» (Pillon) per giungere al capolinea inquietante del «se vuole ancora abortire, glielo impediamo» (ancora Pillon, in una intervista alla Stampa); grado quattro, dire no alle adozioni da parte delle coppie gay - facendo leva anche sulla mancanza di una legge che regoli la stepchild adoption.
Via genitore 1 e 2
Ed ecco come, passo passo, il governo della maggioranza gialloverde, nello specifico il suo lato salviniano, conduce la faccenda. Il grado uno, per dire, sta un pezzo avanti: già in estate il ministro dell’Interno ha fatto saltare la dicitura «genitore 1» e «genitore 2» sulle carte di identità; ora sono semplicemente indicati come genitori, la volontà chiara è tornare a «padre» e «madre» rimettendo in un angolo le famiglie arcobaleno (cosa per cui la sinistra ha già dato, inutilmente, del «troglodita» al vicepremier leghista che se ne bea). Dietro la porta c’è la questione dei figli di coppie omosessuali, lasciata pilatescamente in mano ai giudici, e a varie altre discrezionalità, dalla legge Cirinnà. Sullo sfondo c’è un clima che si va facendo diverso: grandi preparativi perché a marzo toccherà proprio all’Italia, precisamente a Verona, la città di Fontana, ospitare il Congresso Mondiale della famiglia - Salvini e il ministro hanno già confermato la loro partecipazione; mentre in questi giorni, in Umbria, il protocollo di lotta all’omofobia si è arenato in Prefettura e la Garante regionale per l’infanzia che ne ha sollecitato lo sblocco, è bersagliata dalla richiesta (leghista) di dimettersi. Ma il paradigma perfetto a raccontare l’epoca sul fronte dei diritti è nella proposta di legge che vuol cambiare le norme sull’affido, firmata da Pillon, che ha appena mosso il primo passo in commissione Giustizia a Palazzo Madama (un passo piccolo: è stato deciso che si farà un ciclo di audizioni di esperti. Ma nello stesso tempo un passo grande: ha cominciato il lungo iter per diventare legge). Il testo che, in un sol colpo, si propone di capovolgere alcuni capisaldi di separazione e divorzio in coppie con minori, sostituendo le storture esistenti con altre peggiori: via l’assegno per il mantenimento del figlio, largo alla «bigenitorialità» perfetta fatta almeno 12 giorni al mese con un genitore, obbligo della mediazione familiare per decidere tutto (Pillon è mediatore familiare e ha uno studio che si occupa di mediazione familiare, come ha scritto online L’Espresso provocando le proteste del senatore che ritiene non trovarsi in conflitto di interessi). La proposta sembra nata come un fungo, perché di temi etici e diritti, al momento di stendere il contratto di governo, Lega e Cinque Stelle non vollero discutere. E invece ha origini ben precise.
Proposte M5S e ddl Cirinnà
Nel contratto di governo intanto, dove nella sottovalutazione generale già si enunciavano nero su bianco quelli che poi sarebbero divenuti i principi cardine del ddl Pillon («rivisitazione dell’istituto dell’affidamento condiviso», «tempi paritari tra genitori», «mantenimento in forma diretta», «norme volte al contrasto della alienazione parentale»). Ma, ancor prima, nei rispettivi programmi elettorali. In quello della Lega, certamente. Ma, cosa meno nota, anche in quello dei Cinque Stelle. Il che da solo dovrebbe dare una risposta a quanti confidino nella voglia della classe politica grillina di sfilarsi da una iniziativa del genere - magari dimenticando che, ai tempi del ddl Cirinnà, all’ultimo momento M5S si sfilò proprio per scelta di Di Maio, che oggi governa con Salvini. C’è scritto infatti chiaro e tondo, nel programma elettorale presentato da M5S. Nella sezione dedicata alla giustizia, un punto recita chiaro che serve un «aggiornamento dell’istituto dell’affido condiviso e potenziamento della bigenitorialità», specifica che il «mantenimento deve essere disposto in forma diretta» (cioè niente assegno di un genitore all’altro), mentre qualche pagina dopo si mette un paletto sull’obbligo della mediazione: «Per le questioni in cui sono coinvolti figli minorenni, si ritiene sia necessaria l’obbligatorietà della mediazione civile». Tutto ciò sta nella seconda versione del programma. Cioè non quella estesa e votata in tandem con la rete degli attivisti (dove il punto manca del tutto), bensì quella finale - diversa dalla prima, come a suo tempo scoprì il Foglio. Bene. Oggi, quelle parole, impegnano i parlamentari M5S persino a monte del programma di governo. Cambiale ai padri separati
Una maggioranza dunque c’è. E la volontà politica? Per quella, è sufficiente ripercorrere a ritroso le mosse di Salvini. Prima delle serate settembrine in cui si fa i selfie sul terrazzo del superattico che gli tocca come ministro dell’Interno a due passi da via del Plebiscito, Salvini ha messo in lista, per la prima volta nella storia della Lega, personaggi vicini al Family Day, come appunto Pillon, che proviene dal Forum delle associazioni familiari, ma anche il giurista Giancarlo Cerelli, dell’Unione Giuristi cattolici. Quando non era ancora vicepremier, si batteva a Milano per la causa dei padri separati. Gioiva per l’approvazione, nella Lombardia guidata da Maroni, della legge che dava un tot al mese a chi di loro avesse figli a carico. E spiegava: «Conosco l’Associazione dei padri separati e so bene che ci sono casi disperati. La norma sull’affido condiviso non è applicata e la giustizia italiana 9 volte su 10 avvantaggia le donne. Noi in Lombardia abbiamo fatto passi avanti, ma dovrebbe darsi una mossa il Parlamento». Di esponenti delle varie associazioni, già nel 2013, ne fece candidare quattro solo in Lombardia. E su Youtube si ritrovano interviste ancora più antiche a personaggi come Domenico Fumagalli, Associazione padri separati Lombardia, a personaggi come un Antonio Borromeo che aveva fatto a piedi duemila chilometri per perorare la causa. Parlava della Festa della paternità di Brugherio, Salvini, e prometteva già allora: «Ci batteremo per un nuovo condiviso e per un vero alternato, un vera mediazione familiare». In pratica, dice l’ex parlamentare e oggi responsabile diritti Pd Sergio Lo Giudice: «siamo alla congiunzione luciferina di due istanze: una è quella di Pillon e della sua ideologia, nella quale fa chiaramente capire il suo obiettivo, cioè rendere più difficile la separazione e magari evitarla del tutto. L’altra è la cambiale della Lega al Movimento dei padri separati, che in Italia è una lobby significativa e ha da anni in Salvini un punto di riferimento».
Figli al centro, ma è falso
Per paradosso, la parola d’ordine con cui si illustra il ddl Pillon, così come tutti gli altri eventuali step di difesa della famiglia tradizionale è sempre: mettiamo al centro il bambino. Ma questo, come spiega all’Espresso l’avvocata Manuela Ulivi, che da decenni si occupa di questi temi, è un falso. Insieme con l’argomento che si diminuisca la conflittualità. «È, al contrario, un progetto di legge che va contro i figli, perché li mette al centro del contrasto tra i genitori, di un conflitto allucinante, nella pretesa astratta che si possa dividere a metà». Falso pure che diminuisca la conflittualità: «Quel contrasto viene fomentato, si pretende di far trovare a una coppia che si separa un accordo minuto, dettagliato, proprio sui punti che di solito l’hanno fatta esplodere: la gestione dei figli, i soldi. Di solito giudici e avvocati mediano, semplificano: qui al contrario si crea un percorso a ostacoli che sembra non finire mai. Che parte con una mediazione, obbligatoria, a pagamento, che ha profili di incostituzionalità. E si arriva fino alla previsione per cui, se un bambino parla male di un genitore, viene spedito in comunità. Con questa premessa la conflittualità è destinata ad aumentare, sulla pelle dei bambini: altro che risparmi, avremo il doppio delle cause». Parola magica: disapplicare Ma appunto, nominalmente è al centro il bambino. Come lo è nelle parole che utilizza Pillon per spiegare la sua posizione sull’aborto: «Una donna la libertà di scelta ce l’ha prima di concepire una vita. Dopo c’è il diritto di un innocente a venire al mondo», ha detto di recente. Il bambino è anche l’argomento di Salvini per spiegare il suo no «finché campo» alle adozioni gay: «Le discriminazioni sono una roba folle, se vado dal medico non so se è etero o gay, con chi vive, e non mi interessa. Ma un bambino viene al mondo, o viene adottato, se ci sono una mamma e un papà». Ecco, è seguendo questo ragionamento che il leader leghista, all’epoca dell’approvazione delle unioni civili con il governo Renzi, disse citando don Milani: «Se una legge è sbagliata, si può disapplicare», invitando i sindaci a «disobbedire», a non rispettarla. Ad esempio non trascrivendo. Ecco, adesso che la Procura di Roma ha fatto ricorso contro le trascrizioni dei bambini nati all’estero con la maternità surrogata, si intuisce fino a che punto il clima possa ancora cambiare. Perché Salvini ha già chiarito il giorno del giuramento di avere «nessuna intenzione di rivedere leggi del passato, come l’aborto e le unioni civili». Ma le leggi non c’è bisogno di rivederle, a volte basta «non applicarle». L’ha detto il ministro dell’Interno.