l’espresso 23.9.18
Cultura Thomas Mann un secolo dopo
Il fuoco delle idee. Peggiori
Uno
scrittore sulle tracce di “Considerazioni di un impolitico” del grande
autore tedesco. E delle sue parole: identitarismo, nazionalismo,
sovranismo. Che oggi infiammano l’Europa
di Paolo Di Paolo
Ho
suonato a un campanello, civico 4 della Mengstrasse, Lubecca, Germania.
Nessuno mi ha aperto: avrebbe dovuto farlo il ginnasiale solitario che
disprezza la scuola e già ascolta Wagner.
Ho aspettato,
nel quartiere di Schwabing, a Monaco, che da un caffè affollato di
universitari sbucasse anche lui, nella luce arancio del tramonto, con la
borsa in cui sono stipati i libri di studio, i taccuini con gli abbozzi
dei primi racconti, il copione teatrale dell’Anatra selvatica di Ibsen
(lui interpreterà il ruolo di Gregor, lo pseudoidealista). A Roma ho
cercato il civico 34 in via di Torre Argentina, ho alzato gli occhi
verso il terzo piano, sperando di vederlo - ventiduenne - affacciarsi
alla finestra, staccandosi per qualche minuto dal romanzo a cui lavora e
che ha deciso di intitolare “I Buddenbrook”. L’ho cercato di nuovo per
le strade di Monaco, in un pomeriggio di primavera che pareva proprio
quello descritto nelle pagine di un suo racconto: «Monaco splendeva»,
scrive. Luccicava. «Sopra alle piazze festose e ai bianchi colonnati dei
templi, sui monumenti neoclassici e sulle chiese barocche, sulle
fontane zampillanti, sui palazzi e sui gradini della Residenza si
stendeva radioso un cielo di seta turchina». Cielo insolitamente
azzurro, in effetti. Su un treno per Dresda avrei potuto ritrovarlo
compagno di scompartimento, ma non era un diretto notturno, e forse
questo è stato l’errore. Alla grande casa bianca di Poschingerstrasse 1
mi sono avvicinato guardingo, intimidito: è la maestosa arca familiare
in cui nasce “La montagna incantata”; oggi quartiere residenziale upper
class, biciclette, Suv, jogging, e il rumore della città lontano. L’ho
cercato ancora a Zurigo - un pomeriggio d’inverno, verso le tre, molto
freddo, una folla di gabbiani invadeva una sponda urbana della Limmat.
Un ometto cupo e vagamente inquietante mi ha accolto nelle stanze
dell’Archivio - ed è là, fra i libri, le carte, le teche, quel senso di
vita raggelata, proprio davanti al calco della sua testa, che sono stato
raggiunto da una domanda feroce. Questa: come nascono le nostre idee
peggiori? Da quale “io” vengono fuori? Il ginnasiale di Lubecca e il
vecchio riparato a Zurigo - prima per mettersi al sicuro, poi per morire
- sono innocenti, rispetto al quarantenne che cent’anni fa esatti, fra
la primavera e l’estate del 1918, concludeva il suo saggio “mostruoso”,
il suo libro più inquietante? Appassionato agli scrittori, agli artisti,
alle loro vite, quasi a ogni viaggio trovo occasione per infilarmi in
qualche casa-museo, per fotografare targhe, ricostruire itinerari.
Feticismo? Bah. Mi guida, piuttosto, il sentimento esasperato di quello
strano impasto di tutto che è la vita - avere un corpo che cresce, che
invecchia, avere preoccupazioni, desideri, e una scrivania che trasloca
con te, scrivere libri, fumare, mangiare, dormire. Pensare. Partorire
idee. Come funziona? Geniali, scialbe, decisive, superflue, crudeli,
penose. Tempeste neuronali che si scatenano senza preavviso. Talvolta
lasciano tracce, talvolta si disperdono. Talvolta diventano libri. Se in
questi mesi ho così ossessivamente inseguito i diversi inquilini che
rispondono, decennio dopo decennio, casa per casa, al nome Thomas Mann, è
stato anche per fare i conti con il saggio mostruoso. Le cinquecento
pagine di “Considerazioni di un impolitico” arrivarono in libreria
all’inizio dell’autunno del 1918. In Italia furono tradotte per la prima
volta soltanto mezzo se
colo fa. Hanno l’aria, a leggerle oggi,
di un lunghissimo, interminabile, per tratti anche insopportabile,
sproloquio. Un monologo-fiume, contorto, esagitato che, sul finire della
Grande Guerra, dà a Mann la possibilità di chiarire, senza che riesca a
farlo fino in fondo, la posizione ideologica nei confronti del proprio
Paese. Ha già scritto la grande saga familiare dei “Buddenbrook”. Ha già
scritto quel malinconico e sensuale autoritratto dell’artista da
giovane che è “Tonio Kröger”; ha scritto la piccola, estenuata, torbida,
bellissima dichiarazione d’amore che è “Morte a Venezia”. Sta lavorando
alla “Montagna incantata” e si interrompe, come preso da un demone.
Parla di diritto al dominio, di militarismo come eroismo. Di
auto-affermazione in senso nazionale di un popolo - il popolo tedesco -
il cui carattere «è il congegno morale più esatto che sia mai esistito»,
un popolo «fatto per dominare, sagomato, duro, pregno del proprio io».
Scrive cose così. Cose come: «Via dunque lo slogan “democratico”,
straniero e ripugnante!». Scrive decine di migliaia di parole, fa lo
slalom fra centinaia di citazioni, impugna Dostoevskij, sida Tolstoj,
chiama in causa la trinità Wagner-Nietzsche-Schopenhauer, discute
Goethe, prende a spintoni il suo contemporaneo pacifista Romain Rolland.
Se ne esce con espressioni come «germanesimo superiore», evoca (o
invoca) «la volontà della Germania di imporsi al mondo». Sostiene che la
Francia è femmina la Germania è maschio. Mette in discussione i
princìpi della democrazia e il suffragio universale indiscriminato.
Aiuto! «Ascoltando», scrive ancora, «il suono di questa singolarmente
organica, spontanea e poetica congiunzione di parole, “popolo tedesco”,
vien fatto di sentire e immaginare qualcosa che è del tutto diverso, e
non solo sul piano nazionale, qualcosa di più buono, di più alto e di
più puro, di più sacro insomma, di quando si ascoltano le espressioni
“popolo inglese” o “popolo francese”. “Popolo”, “Volk”, è veramente un
suono sacrosanto; ma non è forse solo quando è accompagnato alla parola
“tedesco” che serba ancora vivo il valore?». Nell’ottobre del ’17 ferma
su carta l’entusiasmo per il fatto che «Gorizia è tornata in nostre
mani»: «Che balsamo, le notizie di questi giorni! Che senso di
liberazione, di riscatto, di conforto produce la “forza”, l’azione
limpida e maestosa delle armi». Trovo impressionante, affascinante - ed è
un fascino ambiguo e macabro - contemplare lo sviluppo di questo
ragionare storto, una somma di pensieri che la Storia pervertirà,
applicandone la parte più marcia, pericolosa, sanguinosa. A Mann stesso
toccherà ammettere - senza mai rinnegare del tutto le sue Considerazioni
- di essere stato “scippato” dai nazisti nell’idea romantica del “Terzo
Regno”. Quegli stessi nazisti che lo costringeranno a vagare fuori
dalla Germania per decenni (lascia la patria nel ’33, non rientrerà
più). Le sue posizioni, di lì a poco, si stempereranno in un perplesso
ma democratico europeismo. Le critiche al nazismo, da molti giudicate
comunque tardive, diventeranno esplicite nel 1936. Ma diciotto anni
prima, Mann non calcola i rischi, non vede nubi all’orizzonte, o non
vede quelle effettive, grida a pieni polmoni le sue considerazioni -
impolitiche, come le chiama lui, sommamente reazionarie, per certi versi
tossiche. Non è bastato suonare a quei campanelli per capire qualcosa
in più, per spiegarmi come gli umani sviluppano un pensiero, un
sentimento, una visione del mondo. Come la nutrono, la allevano, la
tengono viva anche contro se stessi, o contro l’evidenza. Come si
lasciano avvolgere, anche ottundere, dalle certezze che credono di avere
conquistato. Volevo - forse ingenuamente - sorprendere l’istante in cui
dal ginnasiale wagneriano diventato universitario e poeta, diventato
autore di un grande romanzo sul declino del secolo decimonono e della
borghesia mitteleuropea, da quell’essere umano rispondente al nome
Thomas Mann, spiccò a metà della sua vita la scintilla di un’intuizione
tutto fuorché innocente, e il desiderio, la smania di alimentarla sino a
farne un fuoco. È passato un secolo esatto. Il dibattito internazionale
si scalda intorno a parole come identitarismo, sovranismo,
nazionalismo. Non le avevamo archiviate? No. Passato il peggiore degli
incendi, c’è già al lavoro il piromane di domani.