martedì 25 settembre 2018

l’espresso 23.9.18
Cultura Mondo arabo A Beirut l’arte è donna
di Alessandra Mammì
Grandi mostre. Ricche collezioni. E giovani curatrici. La formula della città. Per rinascere dalla guerra


Una cosa abbiamo in comune, noi libanesi e voi italiani: il rapporto con il passato. Ma il vostro è uno sguardo lontano e contemplativo, il nostro punta su un passato molto più vicino e tormentato». È Zeina Arida che parla. Giovane e brillante direttrice del Sursock Museum: il luogo dove Beirut raccoglie e celebra l’arte del suo presente e del passato recente. Parla Zeina, riferendosi alla mostra che a pochi passi dal Sursock ha presentato opere dalle collezioni del MaXXI, partite da Roma e arrivate a Beirut per approdare in un luogo speciale abitato da una straordinaria collezione di mosaici romani. Si chiama Villa Audi, fu costruita da architetti italiani nei primi anni Venti dello scorso secolo, come abitazione di un ricco banchiere e mecenate. Ora è proprietà della banca e museo di charme, aperto al pubblico. Un esempio delle molte case con giardino che punteggiavano questa zona di Beirut prima che la lunga guerra civile (1975 -1990) e i successivi conflitti con Israele distruggessero una delle più belle città del Medio Oriente. Dalle ceneri sta risorgendo una nuova metropoli, affollata di cantieri, palazzoni, speculazioni che ingoiano gli spazi comuni, rendono sottili i marciapiedi, mangiano le strade, fanno impazzire il traffico e vibrar di rumori la città tutta. Ma non nelle placide sale di Villa Audi dove grazie alle fatiche del nostro Istituto di Cultura e del suo direttore Edoardo Crisafulli sono approdate opere che sotto la curatela di Bartolomeo Pietromarchi, appaiono perfette nel gestire in solitario e complice colloquio la calma eterna degli antichi mosaici: Enzo Cucchi, Remo Salvadori, Flavio Favelli, Bruna Esposito, Pietro Rufo, Luigi Ontani, De Dominicis, il giovane Salvatore Arancio, l’enigmatica Liliana Moro. Ed è lì che la direttrice del Sursock si apre a queste considerazioni sull’arte nostra e loro. Le riprenderà il giorno dopo, quando la incontriamo nelle sale del suo museo, di fronte a uno stupendo trittico di Laure Ghorayeb artista, giornalista, poeta nonché autrice di un intricato reticolo di segni e disegni che fondono calligrafia araba, fumetto occidentale, foto d’archivio, frammenti di giornale, pezzetti di carta trovati. «È la sua vita», ci dice parlando di questa intellettuale eclettica e generosa madre di Mazen Kerbaj, artista e fumettista altrettanto amato e come lei militante e impegnato ma anche madre di un ritratto del Libano, un modo visivo di raccontare, di conservare una memoria, di trattenere i ricordi privati insieme alla cronaca e alla storia. Laure non è l’unica. Questo bisogno di conservare quel che la guerra civile ha distrutto è un sentimento comune a molti artisti, e ha segnato la mia generazione che nel conflitto è cresciuta». Parole di Zeina, curatrice di formazione internazionale, nata a Beirut nel 1970 che ha affrontato il trauma anche professionalmente quando di ritorno da Parigi con laurea alla Sorbona, fonda dirige l’Arab Image Foundation: istituzione no proit nata nel 1997 per raccogliere fotografie e archivi sul Libano e su tutto il mondo arabo e la sua diaspora. Oggi la sede dell’Arab Image Foundation è al quarto piano di un anonimo condominio dal portone metallico a due passi da Gemmayzeh, strada e quartiere della Beirut giovane e intellettuale, piena di localini, gallerie, movida notturna. L’attuale direttore, Marc Mouarkech, racconta come l’archivio abbia ormai raggiunto i 600 mila pezzi dalla metà dell’ Ottocento ad oggi, come tutto questo sia on line in un data base accessibile ad artisti, registi, filmaker, mentre molte sono le collaborazioni con musei e gallerie di tutto il mondo (arabo soprattutto). Del resto basta visitare il sito (www.fai.org.lb/ home.aspx ) per rendersi conto della ricchezza di attività e di proposte di questa memoria pulsante e produttiva. È da lì che arrivano libri d’artista raffinatissimi come quelli di Akrmaam Zaatari e altri che partirono da questo collettivo coraggioso per raggiungere poi biennali, musei e fama internazionale. Primo fra tutti Walid Raad con il suo “Atlas Group Archive”, un progetto di archivio immaginario che ha conquistato il Moma e il Guggenheim e che mescola come nelle “chansons de geste” il vero e l’immaginato, il materiale di recupero e le storie narrate, il documentaristico e l’artistico. È la ricerca del tempo perduto di un’intera nazione che affida all’arte e alle sue menti più creative il compito di esorcizzare un incubo. «In una città distrutta il problema per i cittadini è la perdita degli oggetti e dei punti di riferimento», scrive Moroun el Daccache, architetto e storico nel bel catalogo “Home Beirut” pubblicato dal MaXXI in occasione della mostra dedicata alla capitale libanese. «Ma ricostruire l’esatta immagine della città prima della guerra significa cancellare un episodio di storia perché anche la distruzione può diventare un momento di riflessione e autocritica». È in questo spazio di domanda che s’inserisce il lavoro degli artisti e la continua sperimentazione di nuovi metodi. Molti affidati al video, ai film, al documento fotografico, ma anche al segno, al disegno alla scrittura. Negli immensi spazi ex industriali della galleria SfeirSemler, ad esempio, è in scena la mostra di Rayyaane Tabet. Anche il giovane Tabet punta a una ricostruzione della memoria personale intrecciata alla storia del suo paese. Ma la messa in scena è qui potente, spettacolare, eclettica e monumentale. Il passaggio di scala dai trucioli di giornale di Laure Ghorayeb alle grandi dimensioni dei ready made, sculture e installazioni di Tabet si riflette anche nella crescita e ristrutturazione dei nuovi spazi della città. A cominciare dal Sursock Museum che ha riaperto tre anni fa ampliato, rinnovato e provvisto di immenso auditorium, sala di lettura, biblioteca e servizi al pubblico, mentre è già annunciato il trasferimento in nuova e più ampia sede di un’altra fondamentale istituzione: il Beirut Art Center diretto da Marie Muracciole. Sotto la direzione di Marie il Bac è diventato il punto di confluenza di diverse discipline. Musica, danza, cinema, arti visive si alternano a incontri, dibattiti, conferenze dove sono ospitati sia giovani talenti locali che celebrati artisti internazionali: «Capisco quanto sia necessario elaborare il proprio lutto», ci dice: «Il nostro è un pubblico molto giovane che va dai 16 ai 30 anni e sono loro il futuro del Libano. Fare formazione è missione prioritaria». Quale sarà dunque lo scenario che si apre per gli artisti millennial, in un paese che lotta tra speculazione e ricostruzione e in una città che vede crescere gallerie oltre i mille metri quadri, musei privati, fiere e collezioni international style? Una per tutte: la Ashti Foundation. Ediicio tutto tegole di ceramica porpora intrecciate come un ricamo a bordo mare. Gloria di David Adjaye il famoso e visionario architetto anglo ghanese. È il polo del lusso beiruttino dove spa e ristoranti stellati si alternano a Balenciaga e Burberry’s. E dove, tra un corner Prada e l’altro Gucci, si apre l’accesso alla collezione: cinque piani e quattromila metri quadri di esposizione dei contemporanei tesori di Tony Salamè, tycoon del lusso libanese che ha qui il suo trionfo tra opere/artisti tra i più cari al mondo scelti e consigliati da Massimiliano Gioni. C’è Murillo e Cindy Sherman Carsten Holler e Armleder, e Matt Mullican e Goshka Macuga... Siamo nell’Olimpo globale, molto lontani dall’impegno dei ragazzi degli anni Novanta e anche dalle problematiche che attraversano i loro lavori. Non è neppure quel che intende la Muracciole o Christine Tohmè, fondatrice dell’Ashkal Aiwan, organizzazione no profit che dal 1994 sostiene e promuove la più radicale ricerca degli artisti libanesi in patria e all’estero. E poi la presidente Christiane J. Audi che ha ospitato le opere italiane nel suo piccolo tempio di vestigia romane o la militante Zeina Arida, direttrice del museo storico. E sono a loro modo militanti anche le galleriste più potenti e influenti: dalla volitiva Andree Sfeir-Semler che si divide tra Beirut e la casa madre ad Amburgo per esportare e importare opere e pensieri che uniscano Europa e mondo arabo o la decana Janine Rubeiz, ino alla più giovane Jumana Asseily che ha aperto la sua Marfa’ Projects nella zona del porto. Donne e ancora donne. Come spiega tutto questo potere in mani femminili? Sorridendo risponde la direttrice del Sursock: « Forse perché in questo caso si tratta di conservare ed educare. Il potere vero, quello politico, economico e militare, potete starne sicuri: è tutto nelle mani degli uomini».