l’espresso 23.9.18
Cultura Mondo arabo A Beirut l’arte è donna
di Alessandra Mammì
Grandi mostre. Ricche collezioni. E giovani curatrici. La formula della città. Per rinascere dalla guerra
Una
cosa abbiamo in comune, noi libanesi e voi italiani: il rapporto con il
passato. Ma il vostro è uno sguardo lontano e contemplativo, il nostro
punta su un passato molto più vicino e tormentato». È Zeina Arida che
parla. Giovane e brillante direttrice del Sursock Museum: il luogo dove
Beirut raccoglie e celebra l’arte del suo presente e del passato
recente. Parla Zeina, riferendosi alla mostra che a pochi passi dal
Sursock ha presentato opere dalle collezioni del MaXXI, partite da Roma e
arrivate a Beirut per approdare in un luogo speciale abitato da una
straordinaria collezione di mosaici romani. Si chiama Villa Audi, fu
costruita da architetti italiani nei primi anni Venti dello scorso
secolo, come abitazione di un ricco banchiere e mecenate. Ora è
proprietà della banca e museo di charme, aperto al pubblico. Un esempio
delle molte case con giardino che punteggiavano questa zona di Beirut
prima che la lunga guerra civile (1975 -1990) e i successivi conflitti
con Israele distruggessero una delle più belle città del Medio Oriente.
Dalle ceneri sta risorgendo una nuova metropoli, affollata di cantieri,
palazzoni, speculazioni che ingoiano gli spazi comuni, rendono sottili i
marciapiedi, mangiano le strade, fanno impazzire il traffico e vibrar
di rumori la città tutta. Ma non nelle placide sale di Villa Audi dove
grazie alle fatiche del nostro Istituto di Cultura e del suo direttore
Edoardo Crisafulli sono approdate opere che sotto la curatela di
Bartolomeo Pietromarchi, appaiono perfette nel gestire in solitario e
complice colloquio la calma eterna degli antichi mosaici: Enzo Cucchi,
Remo Salvadori, Flavio Favelli, Bruna Esposito, Pietro Rufo, Luigi
Ontani, De Dominicis, il giovane Salvatore Arancio, l’enigmatica Liliana
Moro. Ed è lì che la direttrice del Sursock si apre a queste
considerazioni sull’arte nostra e loro. Le riprenderà il giorno dopo,
quando la incontriamo nelle sale del suo museo, di fronte a uno stupendo
trittico di Laure Ghorayeb artista, giornalista, poeta nonché autrice
di un intricato reticolo di segni e disegni che fondono calligrafia
araba, fumetto occidentale, foto d’archivio, frammenti di giornale,
pezzetti di carta trovati. «È la sua vita», ci dice parlando di questa
intellettuale eclettica e generosa madre di Mazen Kerbaj, artista e
fumettista altrettanto amato e come lei militante e impegnato ma anche
madre di un ritratto del Libano, un modo visivo di raccontare, di
conservare una memoria, di trattenere i ricordi privati insieme alla
cronaca e alla storia. Laure non è l’unica. Questo bisogno di conservare
quel che la guerra civile ha distrutto è un sentimento comune a molti
artisti, e ha segnato la mia generazione che nel conflitto è cresciuta».
Parole di Zeina, curatrice di formazione internazionale, nata a Beirut
nel 1970 che ha affrontato il trauma anche professionalmente quando di
ritorno da Parigi con laurea alla Sorbona, fonda dirige l’Arab Image
Foundation: istituzione no proit nata nel 1997 per raccogliere
fotografie e archivi sul Libano e su tutto il mondo arabo e la sua
diaspora. Oggi la sede dell’Arab Image Foundation è al quarto piano di
un anonimo condominio dal portone metallico a due passi da Gemmayzeh,
strada e quartiere della Beirut giovane e intellettuale, piena di
localini, gallerie, movida notturna. L’attuale direttore, Marc
Mouarkech, racconta come l’archivio abbia ormai raggiunto i 600 mila
pezzi dalla metà dell’ Ottocento ad oggi, come tutto questo sia on line
in un data base accessibile ad artisti, registi, filmaker, mentre molte
sono le collaborazioni con musei e gallerie di tutto il mondo (arabo
soprattutto). Del resto basta visitare il sito (www.fai.org.lb/
home.aspx ) per rendersi conto della ricchezza di attività e di proposte
di questa memoria pulsante e produttiva. È da lì che arrivano libri
d’artista raffinatissimi come quelli di Akrmaam Zaatari e altri che
partirono da questo collettivo coraggioso per raggiungere poi biennali,
musei e fama internazionale. Primo fra tutti Walid Raad con il suo
“Atlas Group Archive”, un progetto di archivio immaginario che ha
conquistato il Moma e il Guggenheim e che mescola come nelle “chansons
de geste” il vero e l’immaginato, il materiale di recupero e le storie
narrate, il documentaristico e l’artistico. È la ricerca del tempo
perduto di un’intera nazione che affida all’arte e alle sue menti più
creative il compito di esorcizzare un incubo. «In una città distrutta il
problema per i cittadini è la perdita degli oggetti e dei punti di
riferimento», scrive Moroun el Daccache, architetto e storico nel bel
catalogo “Home Beirut” pubblicato dal MaXXI in occasione della mostra
dedicata alla capitale libanese. «Ma ricostruire l’esatta immagine della
città prima della guerra significa cancellare un episodio di storia
perché anche la distruzione può diventare un momento di riflessione e
autocritica». È in questo spazio di domanda che s’inserisce il lavoro
degli artisti e la continua sperimentazione di nuovi metodi. Molti
affidati al video, ai film, al documento fotografico, ma anche al segno,
al disegno alla scrittura. Negli immensi spazi ex industriali della
galleria SfeirSemler, ad esempio, è in scena la mostra di Rayyaane
Tabet. Anche il giovane Tabet punta a una ricostruzione della memoria
personale intrecciata alla storia del suo paese. Ma la messa in scena è
qui potente, spettacolare, eclettica e monumentale. Il passaggio di
scala dai trucioli di giornale di Laure Ghorayeb alle grandi dimensioni
dei ready made, sculture e installazioni di Tabet si riflette anche
nella crescita e ristrutturazione dei nuovi spazi della città. A
cominciare dal Sursock Museum che ha riaperto tre anni fa ampliato,
rinnovato e provvisto di immenso auditorium, sala di lettura, biblioteca
e servizi al pubblico, mentre è già annunciato il trasferimento in
nuova e più ampia sede di un’altra fondamentale istituzione: il Beirut
Art Center diretto da Marie Muracciole. Sotto la direzione di Marie il
Bac è diventato il punto di confluenza di diverse discipline. Musica,
danza, cinema, arti visive si alternano a incontri, dibattiti,
conferenze dove sono ospitati sia giovani talenti locali che celebrati
artisti internazionali: «Capisco quanto sia necessario elaborare il
proprio lutto», ci dice: «Il nostro è un pubblico molto giovane che va
dai 16 ai 30 anni e sono loro il futuro del Libano. Fare formazione è
missione prioritaria». Quale sarà dunque lo scenario che si apre per gli
artisti millennial, in un paese che lotta tra speculazione e
ricostruzione e in una città che vede crescere gallerie oltre i mille
metri quadri, musei privati, fiere e collezioni international style? Una
per tutte: la Ashti Foundation. Ediicio tutto tegole di ceramica
porpora intrecciate come un ricamo a bordo mare. Gloria di David Adjaye
il famoso e visionario architetto anglo ghanese. È il polo del lusso
beiruttino dove spa e ristoranti stellati si alternano a Balenciaga e
Burberry’s. E dove, tra un corner Prada e l’altro Gucci, si apre
l’accesso alla collezione: cinque piani e quattromila metri quadri di
esposizione dei contemporanei tesori di Tony Salamè, tycoon del lusso
libanese che ha qui il suo trionfo tra opere/artisti tra i più cari al
mondo scelti e consigliati da Massimiliano Gioni. C’è Murillo e Cindy
Sherman Carsten Holler e Armleder, e Matt Mullican e Goshka Macuga...
Siamo nell’Olimpo globale, molto lontani dall’impegno dei ragazzi degli
anni Novanta e anche dalle problematiche che attraversano i loro lavori.
Non è neppure quel che intende la Muracciole o Christine Tohmè,
fondatrice dell’Ashkal Aiwan, organizzazione no profit che dal 1994
sostiene e promuove la più radicale ricerca degli artisti libanesi in
patria e all’estero. E poi la presidente Christiane J. Audi che ha
ospitato le opere italiane nel suo piccolo tempio di vestigia romane o
la militante Zeina Arida, direttrice del museo storico. E sono a loro
modo militanti anche le galleriste più potenti e influenti: dalla
volitiva Andree Sfeir-Semler che si divide tra Beirut e la casa madre ad
Amburgo per esportare e importare opere e pensieri che uniscano Europa e
mondo arabo o la decana Janine Rubeiz, ino alla più giovane Jumana
Asseily che ha aperto la sua Marfa’ Projects nella zona del porto. Donne
e ancora donne. Come spiega tutto questo potere in mani femminili?
Sorridendo risponde la direttrice del Sursock: « Forse perché in questo
caso si tratta di conservare ed educare. Il potere vero, quello
politico, economico e militare, potete starne sicuri: è tutto nelle mani
degli uomini».