l’espresso 16.9.18
Questi piccoli dipendenti
di Arianna Giunti
Le scuole medie, Riccardo, le ha viste solo da lontano. Quel giorno di settembre è arrivato davanti al cancello dell’istituto, l’ha fissato per alcuni secondi e poi se ne è andato. Per lui non ci sarebbero stati libri, compagni, compiti in classe. Aveva 12 anni e una sola necessità: farsi di coca e farlo in fretta. Oggi Riccardo, 16 anni appena compiuti, tossicodipendente da quattro, in fuga da tre diverse comunità terapeutiche, praticamente analfabeta, fa parte di quella generazione di ragazzi interrotti che aumenta giorno dopo giorno. Bambini che a 8 anni hanno già sperimentato le droghe più devastanti: colla e solventi. Tredicenni che si prostituiscono per una dose, rimangono incinte e sono costrette ad abortire. Adolescenti legati con le cinghie ai letti di contenzione, sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori negli ospedali psichiatrici per adulti. Eroina non più fumata ma sparata direttamente in vena, così che a 13 anni hanno già il corpo massacrato dai buchi delle siringhe, si ammalano di epatite e Aids, come i vecchi tossici negli anni Ottanta. Le loro storie, raccolte dall’Espresso, fanno rabbrividire. Sono contenute nei verbali delle forze dell’ordine che ogni giorno prestano servizio nelle piazze dello spaccio e nei boschi della droga. Sono scritte nero su bianco nelle relazioni dei Tribunali per i minorenni. Escono dalla bocca di quegli stessi ragazzi che a fatica accettano di parlare, dalle comunità dove stanno cercando lentamente di riemergere dagli abissi della tossicodipendenza. Un’emergenza alla quale il nostro Sistema sanitario nazionale non riesce più a stare dietro. Secondo i dati ottenuti dall’Espresso, da Nord a Sud la presa in carico da parte dei Servizi sanitari locali dei minori che fanno uso di droga negli ultimi 5 anni è quasi ovunque raddoppiata. Anche i Tribunali per i minorenni - sia civili che penali - registrano un’impennata di baby consumatori: quasi tutti italiani, iniziano ad assumere droga in media a 12 anni. Mentre le comunità terapeutiche per minori con problemi psichici causati dalle droghe - il vero fenomeno di questi ultimi anni - si contano sulle dita di una mano. E così i bambini tossicodipendenti con disagi mentali spesso sono trasferiti a centinaia di chilometri di distanza dalle loro famiglie in luoghi non idonei. O trattenuti in reparti neuropsichiatrici per adulti, dove non potrebbero stare.
L’impennata dei Serd
In tutta Italia - secondo i dati elaborati dal Dipartimento per la giustizia minorile del ministero della Giustizia - i minori e i giovani adulti (dai 18 ai 25 anni) attualmente in carico agli uffici di servizio sociale per i minorenni sono 20.466, di cui oltre 7 mila nuovi arrivi solo nell’ultimo anno. Negli ultimi 12 mesi, quelli collocati nelle comunità dell’area penale - fra cui i minori che hanno commesso reati in materia di stupefacenti - sono stati 1.837, con un aumento di quasi 300 unità rispetto al 2015. Poco più di cento, invece, quelli ricoverati in apposite strutture per disintossicarsi. Quando si tratta di minorenni infatti - i magistrati sono i primi ad ammetterlo - le comunità sono solo l’estremo rimedio. Nella maggior parte dei casi i ragazzi vengono indirizzati verso i Serd, i servizi pubblici per le dipendenze patologiche. Ed è anche qui che i numeri degli under 18 in cura negli ultimi anni hanno avuto un’impennata, al punto che alcune Regioni si sono dovute attrezzare con dipartimenti riservati solo agli adolescenti e con la nascita di strutture private, ormai sempre più diffuse. Ma si tratta ovviamente di una panoramica sottostimata: mancano all’appello tutti i ragazzi che non sono entrati nel circuito dei tribunali e che si sono rivolti direttamente a strutture terapeutiche private. O che sono totalmente sconosciuti ai servizi sociali. In Lombardia il fenomeno è in continua crescita. A Milano nonostante le ripetute operazioni di polizia resiste il bosco della droga di Rogoredo, una delle piazze di spaccio più grandi d’Europa. Le dosi di eroina vendute a prezzi stracciati - fino a 2 euro al grammo - richiamano ogni giorno adolescenti da ogni parte d’Italia. Quando non bastano i soldi, le dosi vengono pagate con la prostituzione. Non di rado, spiegano dal commissariato Scalo Romana, i fidanzatini arrivano in coppia, ma poi mandano avanti la ragazza, che ritorna dal bosco stravolta e in stato confusionale. Mentre all’ospedale Mangiagalli, racconta un’operatrice in forza agli uffici per la 194, sono sempre di più le ragazzine tossicodipendenti che si rivolgono alla clinica milanese per abortire dopo rapporti sessuali avvenuti sotto effetto della droga. I dati parlano chiaro: solo nell’ultimo anno i minorenni presi in carico dai servizi ambulatoriali della Lombardia per la cura delle dipendenze sono stati quasi novecento. Più che raddoppiati rispetto a cinque anni prima. Tanto che per correre ai ripari l’assessorato regionale al Welfare guidato da Giulio Gallera ha aumentato di 6 milioni di euro le rette destinate alle comunità. Strutture che, spiega l’assessore, devono essere ripensate per fronteggiare questa nuova emergenza sociale.
Il discorso cambia di poco in Lazio. Gli under 18 in cura per tossicodipendenza sono schizzati a quasi 300 nell’ultimo anno. Erano 78 cinque anni prima. La situazione è difficile anche in Emilia Romagna: i ragazzi che hanno avuto accesso ai Servizi per le dipendenze sono quasi raddoppiati, passando da 207 casi a 389. Qui attualmente esiste una sola comunità terapeutica pubblica riservata ai minori e accreditata dalla Regione, in provincia di Forlì-Cesena, che accoglie 12 ragazzi. Mentre la storica San Patrignano, sui colli del Riminese, fra i suoi 509 ospiti accoglie in tutto 177 giovani, fra cui minori di appena 13 anni. Ragazzi che provengono da tutta Italia, per i quali i servizi sociali dei Comuni di appartenenza rimborsano una retta di 100 euro al giorno. «Fra i 34 minorenni presenti da noi in questo momento, 30 di loro sono arrivati solo nel corso dell’ultimo anno», spiega il Presidente di San Patrignano Antonio Tinelli, «rispetto a 5 anni fa, per quanto riguarda i minori, c’è stato un aumento di ingressi del 70 per cento». In Veneto, invece, sono circa mille i ragazzini in cura nei 38 Serd della Regione. Alcuni di loro hanno appena 11 anni. Mentre a Trieste per far fronte al problema è nato il primo servizio per la cura delle dipendenze riservato esclusivamente ai più giovani, dove sono già in cura 170 ragazzi. Negli ultimi anni, poi, vista la difficoltà a trovare posti letto liberi nelle comunità pubbliche o del privato accreditato, stanno crescendo a vista d’occhio anche le costosissime cliniche “rehab” su modello anglosassone. Al momento se ne contano una cinquantina. Fra queste ci sono i 10 centri Narconon ispirati alla dottrina di Scientology, che chiedono alle famiglie dei pazienti rette da oltre duemila euro al mese.
Comunità assenti al centrosud
Ma il problema per i minorenni tossicodipendenti non è più solo la droga. Sono soprattutto le patologie psichiatriche, spesso scatenate dal policonsumo, l’utilizzo di più droghe, che provoca nella psiche giovane effetti devastanti. Una fetta di popolazione, questa, che sta raggiungendo numeri sempre più alti: secondo le stime del ministero della Giustizia, almeno il 15 per cento dei ragazzi che entra in comunità avrebbe bisogno di essere seguito per una “doppia diagnosi”: ovvero quando la tossicodipendenza si accompagna a un disturbo mentale. Però le Regioni italiane attrezzate per questa nuova emergenza sono ancora pochissime. Abruzzo, Basilicata, Calabria, Sicilia e Puglia, ad esempio, sono totalmente prive di strutture del genere. Richieste d’aiuto arrivano attraverso segnalazioni quasi quotidiane da parte dei Tribunali per i minorenni di mezza Italia, soprattutto al Centrosud. Per capire la portata del problema basta dare uno sguardo ai numeri del Dipartimento per la Giustizia minorile: nell’ultimo anno i ragazzi affidati a comunità autorizzate al trattamento della doppia diagnosi sono stati solo 6 in tutta Italia. Pochissimi e selezionati posti distribuiti in 3 strutture presenti soltanto in Liguria, Lombardia e Umbria. Più del 30 per cento dei ragazzi che dovrebbero essere ricoverati in una apposita comunità, rende noto la Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia, non trova posto da nessuna parte. «È una situazione che abbiamo denunciato più volte al ministero», spiega la presidente del Tribunale per minorenni dell’Aquila Cecilia Angrisano. «Riscontriamo almeno un caso a settimana di adolescenti con problematiche psichiche mediamente gravi e diversi casi all’anno di ragazzi con una psicopatologia strutturata spesso associata all’uso di droghe. Per questo abbiamo chiesto alla Regione di cercare di disporre almeno 3 posti letto per le emergenze di questo tipo. Anche se la soluzione», prosegue il magistrato, «dovrebbe essere quella di costruire una comunità di riferimento per il Centrosud»
In psichiatria con gli adulti
E così succede che Francesca, nome di fantasia di una ragazza che oggi ha 17 anni, consumatrice di crack da quando ne aveva 12, venga ricoverata per 50 giorni in un reparto psichiatrico per adulti, nel Lazio, a centinaia di chilometri da casa. Senza seguire un percorso terapeutico adatto alla sua età. E succede anche che Stefan, 18 anni, cresciuto nelle fogne di Bucarest dove ha iniziato a sniffare colla e a fumare crack all’età di 8 anni, negli ultimi 10 abbia vagato da una comunità del Centro Italia all’altra, in un crescendo di disperazione. È affetto da un lieve deficit cognitivo dalla nascita aggravato dall’uso massiccio di droga, e le strutture non abilitate a seguire i problemi psichici non sono state in grado di aiutarlo. Oggi, malato di epatite e sieropositivo, continua ad avere rapporti sessuali non protetti, prostituendosi nelle stazioni. E poi esiste il problema dei mancati controlli all’interno delle numerose comunità terapeutiche private presenti in tutta Italia, sottolineato anche nell’ultima relazione della Commissione parlamentare delle politiche antidroga. Alcune strutture si accreditano per ospitare ragazzi in cura con doppia diagnosi, ma non potrebbero farlo. Sarebbe successo per esempio nella provincia di Perugia, dove la cooperativa sociale Il Piccolo Carro è accusata - il processo è tuttora in corso - di aver truffato per anni lo Stato chiedendo rimborsi da 400 euro al giorno per ogni ospite pur senza averne titolo. Da qui, scapparono la 14enne Daniela Sanjuan e la 16enne Sara Bosco. I resti del cadavere di Daniela sono stati ritrovati, a 10 anni dalla scomparsa, a pochi metri dalla struttura. Sara è morta di overdose due anni fa, in uno dei padiglioni abbandonati dell’ex ospedale Forlanini a Roma.
Dalla colla alla coca
Per chi ha cominciato ad addentrarsi nel tunnel quando era appena un bambino, tornare indietro è difficilissimo. Lo sanno bene alla comunità terapeutica Draghi Randagi, nella campagna bergamasca, una delle strutture approvate dal circuito della giustizia minorile, costruita per volere dell’Aga, associazione nata negli anni Ottanta su iniziativa di un gruppo di genitori di tossicodipendenti. Qui da due settimane vive Kevin, che ha cominciato a sniffare colla a 9 anni in Brasile e poi, una volta in Italia, la cocaina. «Ho tentato di annegare nelle sostanze il dramma del distacco dalla mia famiglia di origine», racconta. «Ho vissuto 5 anni in cui non capivo più niente: sniffavo e mentivo». Paolo, invece, ha smesso di mentire 6 mesi fa. In 5 anni ha bruciato tutte le tappe: a 13 anni le pastiglie, a 16 la coca, a 19 l’eroina in vena. Quindi, in fumo, ha mandato tutto quello che di buono aveva al mondo: la sua famiglia, la sua ragazza, il suo lavoro. Matteo, 17 anni, un mese fa è stato fermato durante l’ennesima rapina. Quando lo hanno portato in Questura i suoi occhi erano annebbiati, continuava a ridere, come fosse impazzito. «La mia più grande fortuna», racconta oggi, «è essere stato arrestato adesso. Così sono stato costretto a curarmi. Perché io, a 20 anni, non ci sarei arrivato». Finisce di parlare, poi corre a sistemare la sala da pranzo. Seduto al tavolo c’è Carlo, il più piccolo ospite della comunità. Lui, però, non ha tempo di parlare: sta preparandosi per la terza media.
l’espresso 16.9.18
Quello che i bambini non dicono
Perché sono a disagio? Uno scrittore e un neuropsichiatra si interrogano sul silenzio degli adolescenti
colloquio con Stefano Benzoni di Giuseppe Genna
Pochi giorni fa, in una pizzeria milanese in cui si consumavano modeste cene per celebrare, tutti cuoiati, il rientro dalle vacanze, mi sono ritrovato accanto a un nucleo famigliare che concludeva il pasto, immolandosi a fette di pastiera napoletana. Il padre era inconsolabile, perché la figlia decenne non sfiorava la torta. Si sa, a tutti i bambini piacciono i dolci. Piacciono davvero ancora? Compitissima, la piccola rispondeva al padre: «Per noi le torte sono un problema: ce ne date in continuazione. I nonni, da piccoli, ne vedevano una ogni cinque anni, non si sognavano di avanzarne una briciola. Voi genitori avevate più dolci a disposizione, quindi eravate meno golosi dei nonni. Noi ne abbiamo quanti vogliamo, per questo siamo annoiati. Questa abbondanza ci rende tristi, credo». Eravamo stralunati tutti, di fronte all’incoercibile maturità con cui la bambina tuonava contro il regime dei consumi. La piccola si è poi immersa in una sessione di Candy Crush, silenziosa in quell’assentamento che tutti conosciamo bene. I bambini, questi enigmi luminosi, sono sempre più i santuari del pericolo imminente e dell’indecifrabilità, proiettati in una trasformazione accelerata di tecnologie e ritualità, rispetto a cui sono spiazzati i genitori e deve misurarsi con ovvie confusioni la scuola. Si assiste al paradosso di un eccesso di preoccupazione nei loro confronti e di una fuga dal dato del loro malessere. Stanno male? Sono normali? Pare che un neopuritanesimo stringa d’assedio il ragazzino contemporaneo, cancellando la possibilità stessa di provare dolore. «Un giro di orizzonte sul malessere di bambini e adolescenti non può ignorare le criticità del presente ed evitare di proporre soluzioni», afferma Stefano Benzoni, neuropsichiatra dell’infanzia e psicoterapeuta, consulente presso il Policlinico di Milano. I suoi saggi (il più recente, “Figli fragili”, è edito da Laterza) testimoniano uno sguardo articolato sulle alterazioni collettive e le pratiche mediche che concernono l’infanzia e la pubertà. I dati non spiegano, ma aiutano a fare chiarezza. I bambini oggi stanno male? «Le statistiche internazionali, a partire dall’Organizzazione mondiale della sanità, rilevano che i disturbi neuropsichiatrici infantili tendono attualmente dal 9 al 20 per cento dei minori di 18 anni. Un bambino su cinque. Sono inclusi i disturbi dell’umore, le sindromi da iperattività, le sofferenze cognitive, i deficit di apprendimento. Se discriminiamo all’interno di questa popolazione in sofferenza, risulta che il 2,5 per cento dei bambini italiani manifesta una gravità intermedia, e l’1 per cento si trova in situazioni estremamente difficoltose. Un altro dato rilevante registra negli ultimi anni un costante aumento di pazienti in carico alle neuropsichiatrie. In Lombardia, siamo passati, dal 2008 a oggi, da 65 mila minori a 114 mila, e l’aumento è stato particolarmente elevato per adolescenti e preadolescenti. Gli accessi degli adolescenti in pronto soccorso risultano aumentati del 21 registra nel biennio 2013-14. Sono ugualmente preoccupanti le statistiche sui collocamenti in comunità terapeutiche, che dati Lombardi suggeriscono che stiano incrementando del 10 per cento l’anno». Cosa motiva un disagio in crescita così esponenziale? «Molti sono i fattori, ma è probabile che l’ideologia che esprime il sistema di vita occidentale sia inscindibile dalle derive patologiche. La cultura sociale, interpretata dalle famiglie e dalle istituzioni, è determinante nella definizione della salute mentale e nel modo in cui le persone percepiscono di avere bisogno di cure. Il livello di infelicità risulta più intenso dove c’è una maggiore medicalizzazione e psichiatrizzazione. Nelle nazioni cosiddette avanzate, in cui è più forte la cultura della cura sanitaria, si registra una maggiore incidenza delle patologie e non perché le diagnostichiamo meglio: il disagio è oggettivo. Il fatto è che assistiamo a uno slittamento verso la sanitarizzazione dei discorsi sul benessere, che oggi è saturato di parole d’ordine prelevate dall’ambito medico. Parlare di benessere significa sempre di più citare radicali liberi e prevenzione sanitaria. È un dato culturale pervasivo. Interpretare i comportamenti reali alla luce di una possibile natura patologica degli stessi è una cifra tipica delle società avanzate, che determina una psichiatrizzazione della normalità. La grande enfasi dedicata al trauma, l’eccesso di pretesa di felicità o il controllo dei comportamenti sono modi in cui le discipline psicologiche e psichiatriche insediano il loro intervento nella vita generale delle persone». La reazione che può derivarne è un assalto alla scienza e alla psichiatria in particolare. «Quando si parla di psichiatrizzazione della normalità, non si può ridurre questa formula alla sua versione paranoica e complottista. La vulgata sulla lotta antipsichiatrica è ancora molto forte. Viene fatta prevalere la narrazione di una società saturata dagli psicofarmaci, per via dell’interesse delle società farmaceutiche. Ma non si tratta di una cospirazione, è la società nel suo complesso a cedere alla propria sanitarizzazione. Dagli anni Sessanta gli psicofarmaci sono un fenomeno di consumo di massa. Usciti dagli ospedali psichiatrici, sono diventati i farmaci di casalinghe avvilite, di tranvieri spossati, di manager dubitabondi. Questa cultura collettiva del lenimento, cioè dello psicofarmaco riparatore, introduce a una dialettica molto scivolosa tra cura e benessere. C’è poi da dire che le nostre classificazioni delle patologie sono pure finzioni simboliche consensuali. Ciò non significa negare la malattia, anzi. Questa finzione simbolica collettiva ci aiuta a governare il sistema delle cure, se la affrontiamo con grande spirito critico, riconoscendone i limiti, rifiutando di reificare le malattie come se fossero oggetti fisici del mondo. La depressione non è un oggetto che si trova nel mondo, è una narrazione continuamente rinegoziata con i valori culturalmente dominanti». Il processo di accelerazione tecnologica, che stiamo vivendo, è per i ragazzi un elemento esso stesso patogeno? «L’accelerazione delle trasformazioni tecnologiche e comunicative è diventata un sistema totalitario di valori, in cui sono immersi bambini e ragazzi, una sorta di nuova natura che comporta alienazioni finora inedite. Si crea un’alienazione rispetto alle azioni, perché grazie alla connessione si può agire sull’oggetto senza toccarlo. Si modifica il rapporto con il tempo, abituandosi all’uso di operatori temporali come “refresh” o “undo”. C’è anche la creazione di un nuovo tipo di alienazione rispetto agli spazi. Si è poi passati troppo velocemente dall’ethos della performatività, cioè essere abbastanza fighi, all’ethos del continuo ed esasperato cambiamento, perché essere fighi è oggi troppo effimero. E ciò incide anche sul rapporto con la morte e col ciclo di vita. L’accelerazione dei mutamenti sociali fa sì che oggi il divario non sia più intergenerazionale, ma intragenerazionale, tra fratelli che a distanza di pochi anni interpretano immaginari differenti. Questi nuovi tipi di alienazione implicano fragilità rispetto all’organizzazione del sé, alla costanza nel tempo, alla definizione della stabilità delle relazioni affettive. È una rivoluzione che non può non avere legami con le crescenti aspettative nei confronti dei figli, con nuovi tipi di malesseri e con la collettiva percezione di alcune patologie infantili, come i disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa: dislessia, disgrafia, discalculia) e la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (Adhd)». Si sta discutendo molto di contagio delle diagnosi della dislessia e degli altri disturbi dell’apprendimento, così come di pandemia farmacologica. «Le statistiche del ministero dell’Istruzione restituiscono una cifra del 2,1 per cento di disturbi specifici dell’apprendimento tra gli alunni. L’unico studio epidemiologico effettuato sulla popolazione italiana afetta da Dsa ci dice che la prevalenza attesa per la sola dislessia è dell’ordine del 3,2 per cento - quello è il picco. Tutti dati in linea con le statistiche internazionali. E nelle scuole si contano circa 235 mila bambini e ragazzi con disabilità. Non sono cifre differenti da quanto si rileva all’estero. Anzi, se si misura la percentuale delle scuole speciali tedesche, emerge che è più del doppio del numero dei diagnosticati in Italia. Quanto all’allarme sugli eccessi di psicofarmaci, va smontato. I dati dell’Istituto Mario Negri indicano che un bambino su mille consuma antidepressivi e in Olanda sono il doppio, mentre in Canada siamo al 15 per mille e negli Usa al 35». Negli Stati Uniti i pediatri iniziano a prescrivere il gioco. Una ricerca ha rilevato che il 49 per cento dei piccoli non gioca fuori da casa. Cos’è il gioco oggi? «C’è un’invasione di tecnologia in tutte le intercapedini della giornata, a maggior ragione nel gioco. Ciò tradisce una diffusa paura del vuoto, ovvero della noia. Questa ingiunzione a essere sempre occupati e divertiti è disfunzionale. È ingiusto colpevolizzare i genitori, che sono parte di un meccanismo sociale molto ampio, dentro al quale si trovano in grandissima difficoltà. Il gioco, insieme con l’educazione, è il braccio secolare dell’ideologia e quindi non possiamo stupirci se vi ritroviamo elementi della visione dominante. Oggi è difficile per qualunque genitore anche solo riappropriarsi di un set di valori personali, figurarsi riuscire a farci crescere dentro i figli. Le patologie infantili reagiscono anzitutto a questi mandati dominanti. Lo ha detto in modo straordinario Mark Fischer, nel suo “Realismo capitalista”: è più facile immaginare la fine del mondo, che del capitalismo. Proprio il gioco dovrebbe essere uno di quei momenti in cui lo spazio, lasciato vuoto dagli accudimenti, dalle imposizioni e dai dispositivi educativi, è riempito dalla libera iniziativa dei bambini. Quando però si vedono i bambini interagire con fogli di carta, cercando di allargare la foto su un giornale come se fosse un tablet, si comprende che questa tecnologia implica aspetti preoccupanti». Si parla di un’autentica epidemia dell’infelicità per i ragazzi di oggi. «A quel termine si appassionano molto gli allarmisti. Oggi sappiamo che non c’è un’epidemia di depressione tra i bambini, così come non c’è un’epidemia di autismo, men che meno causata dai vaccini. Però i dati segnalano un crescente disagio. Io invito a interrogarci se questa “epidemia di infelicità” non sia invece un’“epidemia di felicità”, cioè una sorta di ingiunzione morale collettiva rispetto al mantra della felicità. Bisogna essere sempre sorridenti, di successo, pieni di like. Noi trattiamo tredicenni, neanche più diciassettenni, in crisi perché il loro Instagram va male. Il problema qui non è la solitudine, ma l’opposto: l’eccesso di sovraesposizione sociale causa il disinvestimento dalle relazioni interpersonali e dai luoghi. C’è il celebre argomento del filosofo Robert Nozick, che ispirò il film “Matrix”: se venisse chiesto di legarsi a una macchina che rende eternamente felici, ma senza relazioni reali e in una pura finzione, la maggior parte delle persone risulterebbe indisponibile a quel tipo di felicità. Perché la felicità per noi c’entra con le relazioni, con l’autenticità degli scambi con l’altro. Se ciò viene meno, si creano problemi profondi». Patologie a parte, come sta mutando l’espressione emotiva nei bambini? «I bambini millennial sono molto più consapevoli dell’importanza della visibilità, il che sta radicalmente cambiando il loro rapporto con ciò che è intimo, privato e segreto. I bambini delle nuove generazioni sono molto più coscienti del fatto che l’immagine di sé, il proprio stato emotivo e il proprio corpo possono essere in ogni istante visti, registrati, condivisi. Una simile esposizione alla visibilità e all’abolizione del segreto scatena fenomeni opposti di repressione delle emozioni, ma anche una disacerbazione dell’espressività - si vedono bimbe che si fanno i selfie con la duck face o bambini che usano l’espressività corporea in senso enfatico, attingendo a registri espressivi che sono chiaramente legati allo strumento tecnologico». Che elaborazione richiede alla scuola questa emersione dei nuovi disagi? «Sarebbe bello che, insieme a una cultura degli insegnanti circa le patologie, si imponesse anche una cultura della salute, svincolata dai criteri della medicalizzazione. Sarebbe necessario enfatizzare i punti di forza e le risorse dei bambini, il che imporrebbe una rivoluzione culturale nell’insegnamento e nella valutazione dei singoli. Oggi, se si domanda agli insegnanti quali sono le linee guida sulla dislessia, le conoscono a memoria, ma, se si chiede cosa fare di un bimbo che legge meglio degli altri, nel migliore dei casi si ottengono tante risposte quanti sono i docenti. Medici e psicologi spesso non fanno di meglio. Viviamo in un sistema centrato sul problema piuttosto che sulla nobilitazione delle risorse. Riguardo all’influenza della scuola sulle patologie, ho l’impressione che talora ci si rifugi a invocare possibili disturbi dell’apprendimento, perché affrontare con i ragazzi e le famiglie l’esistenza di problemi affettivi o del comportamento è molto più difficile. Quando i ragazzi falliscono rispetto all’efficienza attesa, la scuola finisce così non di rado per esprimere giudizi di carattere sanitario. Stare bene di mente però non significa affatto non avere patologie, ma sapere anche cosa ce ne facciamo delle nostre buone qualità. La psichiatria insegna che spesso le situazioni complesse si risolvono non lavorando sui problemi, bensì intervenendo proprio sui punti di forza residuali. La sfida per il futuro è una psichiatria critica, che sappia rimettere al centro del lavoro scientificamente fondato i valori delle famiglie e una nuova cultura della promozione delle loro risorse e dei fattori di resilienza. È una prova alla nostra portata, purché ci sia la volontà politica».