mercoledì 19 settembre 2018

Corriere 19.9.18
L’incontro con i giovani
Bergoglio: «Il sesso è un dono di Dio»


«La sessualità, il sesso, è un dono di Dio. Niente tabù. È un dono di Dio, un dono che il Signore ci dà. Ha due scopi: amarsi e generare vita. È una passione, è l’amore appassionato. Il vero amore è appassionato. L’amore fra un uomo e una donna, quando è appassionato, ti porta a dare la vita per sempre. Sempre. E a darla con il corpo e l’anima». Raramente un Papa parla con tale apertura di amore e sesso. Francesco lo ha fatto con i giovani della diocesi francese di Grenoble-Vienne, ricevuti in udienza. «È vero che le nostre debolezze ci portano a usare la sessualità al di fuori di questa strada tanto bella, dell’amore tra l’uomo e la donna. Ma sono cadute, come tutti i peccati».

La Stampa 19.9.18
Vescovi cinesi scelti dal Papa
Intesa a un passo con Pechino
di Andrea Tornielli


I prossimi giorni saranno decisivi per l’accordo tra la Santa Sede e il governo di Pechino. Lo annuncia il Global Times, giornale in lingua inglese dove trovano ufficiosamente eco le posizioni del Partito comunista cinese. Dopo anni di trattative, incontri, negoziati estenuanti, crisi diplomatiche, ordinazioni episcopali illecite, allarmi motivati e immotivati, e tentativi di boicottare il risultato sia dall’interno degli apparati cinesi sia dall’interno della Chiesa cattolica, la situazione dei cattolici di quello che fu il celeste impero è ad una svolta. Salvo sorprese dell’ultima ora, entro settembre a Pechino la delegazione vaticana e quella cinese firmeranno un documento che mette fine alla diatriba sulla nomina dei vescovi.
«Non ci sono più dispute su questioni di principio - scrive il quotidiano - e poiché l’incontro precedente si è tenuto in Vaticano, la delegazione della Santa Sede verrà in Cina per un incontro a fine settembre, e se l’incontro va bene, l’accordo potrebbe essere firmato».
Al contrario di quanto si pensa, l’accordo non riguarda le relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Repubblica popolare cinese. Riguarda invece una questione che alla Chiesa sta a cuore molto più delle questioni diplomatiche, vale a dire la possibilità per tutti i vescovi della Cina di essere in comunione con il Papa e per milioni di fedeli cattolici di far parte di un’unica comunità. Non sono ancora noti i termini precisi dell’accordo ma è probabile che esso rispecchi situazioni simili, come ad esempio quella del Vietnam. La Santa Sede accetta che il processo di designazione dei candidati all’episcopato avvenga dal basso, con il coinvolgimento dell’Associazione patriottica; il governo cinese accetta che l’ultima parola sulla nomina spetti al Pontefice. La lettera di nomina «sarà rilasciata dal Papa», ha dichiarato al Global Times la professoressa Wang Meixiu, esperta di studi cristiani presso l’Accademia cinese di Scienze sociali.
In Cina esistono due comunità cattoliche: quella ufficiale e quella non ufficiale o clandestina. Questa seconda non vive nelle catacombe, ma ha i suoi vescovi non riconosciuti come tali dal governo. La stragrande maggioranza dei vescovi cinesi nominati senza il mandato del Papa, negli anni hanno chiesto e ottenuto il riconoscimento di Roma. Un accordo che permetta di sanare decenni di incomprensioni è stato auspicato pubblicamente anche da molti vescovi “clandestiniˮ, pur essendo fortemente osteggiato soprattutto da ambienti politico-ecclesiali fuori dalla Cina. Il dialogo con Pechino aveva ricevuto un impulso significativo con la pubblicazione, nel 2007, della “Lettera ai cattolici cinesiˮ di Benedetto XVI. Era seguita una fase di gelo. Poi Francesco e il suo Segretario di Stato Pietro Parolin hanno rimesso in modo la trattativa.

Corriere 19.9.18
Gli esorcisti alla riscossa
Rari nel medioevo, i riti contro i demoni sono tornati in voga da alcuni decenni
Un saggio di Francis Young (Carocci) sul tema delle possessioni diaboliche
Il fenomeno ha avuto alti e bassi nel tempo: ne hanno favorito la ripresa i pontificati di Wojtyla e Ratzinger
Papa Bergoglio si colloca sulla stessa linea
di Paolo Mieli


A dispetto di quello che tutti credono di sapere, nel Medioevo le pratiche esorcistiche furono ridotte ai minimi termini, mentre adesso, più precisamente dalla fine del secondo millennio, sono in piena e costante ripresa. Soprattutto a partire dai pontificati di Giovanni Paolo II (1978-2005) e di Benedetto XVI (2005-2013) che, a proposito del diavolo, «hanno promosso il risveglio di un pensiero teologico conservatore», creando «un contesto favorevole al fatto che esorcisti in attività condividessero le loro e le altrui esperienze». Questa l’interessante tesi di un libro di Francis Young, Possessione. Esorcismo ed esorcisti nella storia della Chiesa cattolica, che Carocci pubblica domani, a cura di Andrea Nicolotti, nell’eccellente traduzione di Marina Melato. Young premette che non è per nulla ovvio parlare della Chiesa cattolica come di un’organizzazione unica con «una storia ininterrotta dal IV secolo ai giorni nostri». La storia della «Chiesa cattolica», chiarisce Young, è in realtà una storia della «tradizione cattolica», tant’è che nella parte iniziale del libro l’autore usa il termine «Occidente latino» e si dice «consapevole del significato ambiguo che riveste il termine “cattolico” nei primi secoli del cristianesimo».
Ma torniamo all’esorcismo. I periodi in cui esso è fiorito includono la tarda antichità, l’Alto e il Basso Medioevo, il XVI e il XVII secolo, nonché, appunto, l’epoca attuale. La minaccia del paganesimo, però, nell’ultima stagione del mondo antico e nei primi secoli del Medioevo svanì creando tra l’XI e il XIII secolo una sorta di vuoto. L’autore nota come, ben lungi dall’essere l’età dell’oro per gli esorcismi, il Medioevo fu un epoca in cui questo modo di scacciare il maligno entrò profondamente in crisi (anche se «costituiva comunque motivo di interesse per i teologi che raramente erano a loro volta esorcisti praticanti»). La percezione di una «crisi dell’esorcismo nel Medioevo» l’aveva già avuta qualche decennio fa un altro storico, André Goddu, il quale constatò come dal XII secolo in poi si sia dovuto prendere atto di un «declino del numero degli esorcismi riportati nelle vite dei santi». Le agiografie confermano l’idea che fra il 1100 e il 1300 l’esorcismo abbia attraversato un periodo per così dire di transizione, durante il quale il suo «legame con i santi» si indebolì. Nel 1215 il IV Concilio lateranense produsse la prima definizione dogmatica sui demoni in risposta alla minaccia teologica rappresentata dai catari. Secondo Nancy Caciola la minaccia del catarismo e la necessità di replicare al millenarismo dell’abate cistercense Gioacchino da Fiore fecero sì che il pontificato di Innocenzo III (1198-1216) segnasse una svolta decisiva negli atteggiamenti verso il soprannaturale: «Il miracoloso doveva essere sottoposto a verifica, invece di essere accettato acriticamente come prodotto della grazia divina». Confermò poi queste intuizioni storiografiche Florence Chave-Mahir, la quale affermò aver il pontificato di Giovanni XXII (1316-1334) rappresentato un punto di svolta nell’atteggiamento dell’Europa occidentale verso la «magia intesa come opera di potenze demoniache». Secondo Caciola un altro fattore all’origine del ritorno dell’esorcismo liturgico nel XIV secolo sarebbe stato lo scisma papale del 1378-1417, che incrinò la fiducia nell’unità e nell’autorità della Chiesa. Ma Young, pur concordando sostanzialmente con loro, accusa Caciola e Chave-Mahir di aver prestato scarsa attenzione al caso inglese. Quell’Inghilterra medievale che, documenta Young, «sperimentò la crisi dell’esorcismo in modo particolarmente acuto». Perché? Il mancato radicamento dell’esorcismo liturgico in terra inglese, a suo avviso, «può essere attribuito, almeno in parte, all’assenza di una ragione politica coerente per combattere contro il diavolo». Mentre in altre parti d’Europa i demonologhi offrivano «soggetti adatti» agli esorcismi sotto forma di streghe, un simile sviluppo si ebbe in Inghilterra solo dopo la Riforma.
Più in generale a risvegliare la pratica dell’esorcismo furono — secondo Young — nel XVI secolo il Concilio di Trento (1545-63) e, nel XX, il Concilio Vaticano II (1962-65), momenti che hanno riproposto ai cattolici questioni di identità particolarmente acute. Tra i due Concili — in un’epoca in cui le relazioni tra Chiesa e governi secolari erano considerate di fondamentale importanza — l’esorcismo metteva a disagio le autorità ecclesiastiche. Le quali perciò, nel XVIII e nel XIX secolo, lo scoraggiarono. In altre parole «l’esorcismo declinò quando le minacce spirituali dell’eresia e della stregoneria vennero percepite come meno significative, almeno da parte delle élite». Ma allora a quando data il risveglio contemporaneo di queste pratiche? Secondo l’autore lo si può far risalire alla convinzione di Papa Leone XIII (1878-1903) che alla fine del XIX secolo una nuova minaccia spirituale incombesse sulla Chiesa: una cospirazione globale satanica diretta dalla massoneria. Cospirazione alla quale sarebbero state riconducibili sia la Rivoluzione francese (1789) che quella russa (1917).
Dopodiché l’esorcismo ufficialmente praticato nella Chiesa cattolica contemporanea è stato nient’altro che «l’adattamento di un rito settecentesco, liturgicamente radicato nella Chiesa primitiva, ma applicato secondo moderni criteri diagnostici e di legittimità canonica». Bisognerà attendere il Concilio Vaticano II perché la Chiesa possa iniziare ad allontanarsi dalle teorie cospirative del XIX secolo, secondo le quali ebrei, massoni e laicisti collaboravano per creare un «ordine satanico mondiale». Durante le sessioni conciliari, nota l’autore, l’esorcismo non venne mai citato; «quindi più che non i decreti del Concilio stesso, per la storia dell’esorcismo risultò soprattutto significativa la libertà concessa ai teologi all’indomani del Vaticano II». Sicché, secondo Nicolotti, il Vaticano II favorì una tendenza a «minimizzare la demonologia». Edward Gratsch scriveva (nel 1967) essere l’esorcismo «nient’altro che una preghiera a Dio (talvolta condotta pubblicamente in nome della Chiesa, talaltra recitata in privato) per limitare i poteri dei demoni su uomini e cose». La pratica esorcistica toccò il suo punto più basso negli anni Sessanta, quando i riti «divennero forse più rari di quanto non fossero mai stati dal XVIII secolo in poi». Un’indagine di Bernard Chaput nella regione orientale del Québec fece emergere che su 111 parroci intervistati neanche uno praticava l’esorcismo, dal che Chaput dedusse che «la credenza nella possessione demoniaca» era «sul punto di scomparire».
Ma, sostiene Young, alcuni cattolici tradizionalisti sospettosi o sprezzanti verso il Vaticano II continuarono — proprio come reazione al programma del Concilio — a porre un forte accento sulle presunte «congiure sataniche». A guidare la riscossa degli esorcisti fu il gesuita tedesco Adolf Rodewyk, che aveva iniziato ad operare a Treviri durante la Seconda guerra mondiale. Il suo libro del 1966 Possessione diabolica oggi (il Segno) — a cui avrebbe fatto seguito nel 1990 Un esorcista racconta (Dehoniane) di un altro autore, Gabriele Amorth — fu il «vangelo» del nuovo esorcismo. Ma ancor più fecero un altro libro, di William Peter Blatty uscito nel 1971, e un film di William Friedkin del 1973, tratto dal testo di Blatty: L’esorcista. Dopo il libro e soprattutto il film, la pratica esorcistica riprese a diffondersi. Nel 1973 la rivista «Time» riferì di Annette Hasler, una dodicenne di un piccolo villaggio svizzero, che era stata «picchiata a morte durante un esorcismo eseguito da un sacerdote e approvato dai genitori». Nel 1974 il settimanale tedesco «Der Spiegel» raccontò che a San Francisco il gesuita Karl Parzelt aveva «esorcizzato con successo una giovane coppia e il loro bambino di due anni». Il caso più clamoroso fu però, a metà anni Settanta, quello di Anneliese Michel, una giovane bavarese — ostile al Concilio e devota di padre Pio — morta dopo mesi in cui aveva subito pratiche esorcistiche.
All’epoca del processo che ne seguì i giornali tedeschi dipinsero l’episodio come «un rigurgito della cultura religiosa conservatrice propria della Baviera». Ma il caso era ben più complesso: i demoni che «possedevano» Anneliese si erano presentati come Giuda, Lucifero, Nerone, Caino e nei panni di un prete malvagio di nome Fleischmann. Soprattutto infine in quelli di Adolf Hitler. Perché Hitler? Dopo la Seconda guerra mondiale il benedettino Alois Mager aveva affermato che il dittatore era «lo strumento di Satana»; analogamente Léon Cristiani descrisse l’adesione entusiastica dei suoi connazionali al nazismo in Germania (unitamente a quella simile nei confronti del comunismo in Russia e in Cina) come una «possessione collettiva». Il caso Michel, scrive Young, fu «l’espressione di quell’esorcismo metaforico che la Germania del dopoguerra aveva operato su Hitler». La ragazza (che chiese di essere esorcizzata) «riceveva» regolarmente messaggi dalla Vergine Maria e si era poi trasformata in un’«indemoniata profetica» attraverso la quale i demoni «dichiaravano la loro approvazione per le innovazioni liturgiche del Vaticano II». Anneliese morì il 1° luglio 1976 probabilmente per denutrizione. I genitori e gli esorcisti furono accusati di averne provocato il decesso «per negligenza». La diocesi di Würburg non fornì alcun sostegno agli imputati, il vescovo Josef Stangl, che pure in un primo momento non aveva autorizzato la pratica, fu sospettato di complicità con gli esorcisti che avevano trattato il caso e fu a un passo da essere incriminato. Nell’intento di evitare casi analoghi, afferma Young, la Conferenza episcopale tedesca istituì nel 1979 una commissione di indagine sull’esorcismo che avrebbe dovuto riferire alla Sacra congregazione dei riti allo scopo di ispirare una futura riforma in questo campo.
Dopodiché? Non c’è ragione di ritenere — scrive Young — che il rilancio dell’esorcismo innescato alla fine del XX secolo da William Blatty nella cultura popolare e da Amorth nella Chiesa, si esaurisca a breve. Tanto più che, secondo lo stesso Young, Papa Francesco «nonostante venga identificato come un “liberale” da alcuni cattolici conservatori», si è dimostrato «un convinto sostenitore di questo rito». Il 13 giugno 2014, ricorda l’autore del libro, la Congregazione per il clero ha emesso un decreto che riconosce giuridicamente l’Associazione internazionale degli esorcisti, la quale conta circa 250 membri sparsi in trenta nazioni. All’interno della Chiesa, poi, qualcuno vede nell’esorcismo «un’opportunità missionaria» e la storia, scrive Young, mostra che «è sempre stato così».
In un mondo «postmoderno», tuttavia, «le pratiche antiche vengono spesso attrezzate per l’autenticità che in esse si coglie», tant’è che ad alcuni «la “realtà della possessione” pare una questione di secondaria importanza rispetto ai potenziali benefici psicologici del rituale». In ogni caso, sottolinea Young, in Europa e in America un considerevole gruppo di preti e di laici («senza contare la probabile maggioranza dei cattolici nel resto del globo») continua a ritenere decisamente reali il diavolo e la sua attività nel mondo; per costoro l’esorcismo resta a tutti gli effetti un valido rimedio. Un tempo ci furono «minacce alla pratica esorcistica» — mutamenti religiosi, riforma liturgica, pressioni da governi e medici — che oggi sembrano essere scomparse, man mano che il rito diventa «una tra le tante opzioni disponibili sul mercato religioso».
All’interno della Chiesa cattolica, a livello globale, è in crescita l’influenza di vescovi provenienti dall’Africa, dal Sudamerica e dall’Asia, mentre occorre anche competere con il pentecostalismo che realizza un agguerrito proselitismo: tutto ciò rende altamente improbabile che sull’esorcismo alla fine prevalga la posizione cautamente scettica delle conferenze episcopali europee; si direbbe, conclude Young, che gli esorcisti siano qui per restare. Quantomeno per tutto il corso del pontificato di Papa Francesco.

Repubblica 19.9.18
Pd, prove di scomparsa
di Guido Crainz


Sembra ormai senza freni la corsa del Pd alla autodistruzione in un maldestro susseguirsi di proposte, dal cambio di nome allo scioglimento ( con l’intermezzo grottesco della " battaglia delle cene"). Proposte che hanno in comune il tentativo di rimuovere ed esorcizzare le cause e i processi che hanno portato al 4 marzo.
Cause e processi di breve e di lungo periodo, che rinviano agli errori di una politica ma anche alle radicali trasformazioni che hanno stravolto l’orizzonte in cui sono cresciute le democrazie del Novecento. L’orizzonte in cui aveva preso corpo il processo stesso di costruzione dell’Europa.
Sono temi largamente assenti nel dibattito interno al Pd e in questo scenario ogni proposta appare quasi surreale. Mutare il nome di un partito o ipotizzarne lo scioglimento per rifondarlo sono vie che hanno un senso alto — drammaticamente alto — se sono connesse a un progetto riconoscibile, a una sfida per il futuro: appaiono prive di senso, invece, se sono un escamotage per non riflettere a fondo sulle proprie responsabilità. Se sono puro maquillage, una tardiva caricatura dei processi che erano stati avviati con lo scioglimento del Pci e poi, più tardi, con la difficile costruzione del Pd: eppure anche quei processi sono falliti, e anche su questo sarebbe necessario interrogarsi.
Si aggiunga che questo discorde balbettio si svolge in uno scenario che vede la nostra democrazia a rischio come nei peggiori anni berlusconiani. Come allora, magistratura e stampa sono sotto attacco in una escalation che mira alla natura stessa della democrazia costituzionale, dall’equilibrio dei poteri alle figure e agli organi di garanzia. Gli "eletti del popolo" contro la Costituzione e la stessa presidenza della Repubblica: e qui è stato Di Maio a lanciare il primo attacco. Con buona pace di chi insegue "l’anima di sinistra" dei grillini ignorando il loro progressivo convergere con Salvini su temi non secondari ( a partire dall’immigrazione, come ha segnalato Ilvo Diamanti). E anche oggi un autorevole monito contro le derive viene proprio dalla presidenza della Repubblica, espressione dei valori profondi che abbiamo saputo conquistare nella nostra storia e che sembriamo voler disperdere. Come nei peggiori anni berlusconiani, davvero: e allora, va aggiunto, lo scontro non si svolgeva all’interno di una devastante crisi europea.
Questo è lo scenario in cui si consuma la tendenziale scomparsa del Pd e non vi sono vie brevi per contrastarla. Ammesso che esistano, ammesso che sia possibile contrastare la dissoluzione definitiva avviando una inversione di tendenza e una riflessione radicale sul futuro che oggi è difficile immaginare.
Ammesso che sia possibile, almeno, un esito congressuale che permetta il tendenziale superamento dei conflitti interni e sappia riportare un soffio di vita nei sempre più deserti circoli del partito. Che sia capace di parlare anche a chi, pur dall’esterno del Pd, voglia contribuire alla faticosa ricostruzione di un progetto riformista. Difficile negarlo: nessuna delle ipotesi oggi presenti, nessuna delle candidature evocate più o meno apertamente sembra rispondere a queste esigenze.
Nessuna è estranea alle miopie, se non alle pulsioni distruttive, degli ultimi anni. Ed è forte la tentazione di sperare invece in figure che evochino l’ispirazione più nobile dell’Ulivo ( quella ricordata su queste pagine da Walter Veltroni) e abbiano la generosità, il coraggio e il consenso per scendere in campo.
Un’ipotesi che oggi non sembra reale: ma non sembra reale neppure un superamento della crisi che abbia come riferimento gli ultimi spezzoni di un gruppo politico diviso e perdente, ripiegato sul proprio fallimento.

Repubblica 19.9.18
In cella con i figli da venti giorni li lancia dalle scale, muore neonata
Roma, grave l’altro bimbo di due anni. Era rinchiusa in attesa di giudizio, aperte due inchieste
di Federica Angeli


Roma Ha scaraventato da una rampa di scale i due figli, 7 mesi e 2 anni, nel reparto nido del carcere di Rebibbia. La neonata, dopo un volo di tre metri, è morto sul colpo, il primogenito lotta per sopravvivere all’ospedale Bambino Gesù di Roma. La donna, una tedesca di 33 anni, che avrebbe dovuto allattare la piccola e dare la pappa al " grande", insieme alle altre dieci detenute che lì vivono con i loro 17 bimbi, è rimasta impietrita dopo la follia. Neanche le grida — «Assassina, assassina» — delle altre detenute che hanno assistito, alle 12 di ieri, alla scena e si sono precipitate a raccogliere i corpicini insanguinati, l’ha destata da quella calma apparente post omicidio.
Eppure Alice Sebesta, in prigione dallo scorso 27 agosto dopo un arresto in flagranza per spaccio internazionale di stupefacenti (lei e il compagno nigeriano sono stati sorpresi con 15 chili di stupefacente) secondo la Garante per i detenuti per Roma Capitale Gabriella Stramaccioni, non aveva dato nei 20 giorni trascorsi a Rebibbia « alcun segno evidente di squilibrio psichico». «Ho parlato con la direttrice, la vicedirettrice e la psichiatra che la seguiva, come tutte le mamme detenute — ha spiegato la Garante — e mi hanno assicurato che gli unici segni di insofferenza mostrati erano quelli di convivere con detenute di etnia rom».
Malgrado non fosse stata diagnosticata nessuna particolare patologia psichica alla Sebesta, ieri mattina sulla scrivania della direttrice di Rebibbia era arrivato un referto in cui risultava che la figlia di 7 mesi della donna aveva sbattuto la testa in un angolo " incidentalmente". L’ematoma, e dunque " l’incidente" era avvenuto due giorni fa. Ora gli inquirenti, che hanno già aperto un fascicolo per omicidio e tentato omicidio aggravato nei confronti di Alice Sebesta valuteranno quell’ematoma alla luce di quanto avvenuto.
Ma il paradosso di questa tragedia non annunciata — malgrado dalla polizia penitenziaria fanno trapelare che Alice invece avesse manifestato evidenti segni di squilibrio psichico — è che la donna non aveva ancora una condanna definitiva ma era in attesa di processo. Il paradosso della legge ( la 62 del 2011) è infatti che per donne condannate con figli minori è possibile scontare la pena in strutture differenti dal carcere insieme ai piccoli, chi invece attende una sentenza non ha questo diritto. Una presunta innocente è dunque penalizzata rispetto a chi è già stato giudicato. Ed è su questo che, ieri, subito dopo la tragedia, ha ruotato un coro unanime sull’abolizione della permanenza di minorenni in carcere assieme alle madri.
Lillo Di Mauro, responsabile della Casa Di Leda, struttura romana che ospita appunta mamme detenute in alternativa alla cella, sostiene a gran voce che «i bambini non devono stare in carcere» ma in strutture alternative insieme alle madri. Davide Bordoni (Fi) chiede invece far uscire i bambini dal carcere ma di separarli dalle madri « che hanno problemi psichici e sono dentro per droga».
Come ad ogni tragedia, del cancan di reazioni di destra e sinistra, a fine giornata resta una donna tedesca di 33 anni in una cella di isolamento che non ha versato una lacrima né detto una parola, un bimbo morto e uno in fin di vita, un’inchiesta della procura e una interna aperta dal ministro della Giustizia Bonafede.

La Stampa 19.9.18
Detenuta getta i figli dalle scale
Muore la neonata di sei mesi
Follia omicida a Rebibbia, grave il fratello di 1 anno e mezzo La donna in cella da agosto: “Volevo toglierli dall’inferno”
di Grazia Longo


La domanda che implora una risposta, al netto del dolore per la morte di una bimba di quasi 7 mesi e della lotta per sopravvivere del fratellino di 19 mesi, è se il dramma poteva essere evitato. Perché la mamma assassina, Alice Sebesta, 33 anni, tedesca, detenuta per spaccio a Rebibbia dal 26 agosto scorso - che già all’età di 13 anni aveva tentato il suicidio - era stata segnalata come soggetto a rischio. Ma nessuno del carcere è intervenuto. La pratica era al vaglio per stabilire se era necessaria una vigilanza riservata. E la procura potrebbe presto indagare i responsabili di questo ritardo, all’interno della struttura penitenziaria. Intanto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha aperto un’inchiesta interna.
L’unica indagata
Al momento l’unica indagata, per omicidio volontario e tentato omicidio è la mamma. Alice, ieri dopo mezzogiorno, ha gettato nella tromba delle scale, la piccola Faith, morta sul colpo, poi il fratellino, gravissimo al Bambin Gesù con fratture ed emorragie interne.
Ecco la sua spiegazione: «Volevo non farli soffrire più: toglierli da questo inferno e anticipare loro il paradiso». Parole sconnesse, alternate a un pianto a dirotto, durante l’interrogatorio del procuratore aggiunto Maria Monteleone. Assistita dall’avvocato d’ufficio Massaro, alla presenza di un’interprete tedesca, la giovane madre ha raccontato i suoi tormenti. «Non sono sposata, ma ho un compagno, il padre dei miei figli, che vive in Germania. Da ragazzina, quand’ero adolescente, sono stata in cura da uno psicoterapeuta. Non volevo che i miei figli continuassero a soffrire».
Lacrime e disperazione
Poi ancora lacrime e disperazione, mentre i medici del Bambin Gesù cercavano di strappare alla morte il primogenito. L’omicidio è avvenuto nella sezione nido di Rebibbia, dove si trovano le detenute con figli fino a 3 anni. La donna era rientrata dal cortile e stava salendo verso il refettorio. Al secondo piano ha lanciato i suoi due piccoli dalle scale. Alla scena hanno assistito, sconvolte, altre detenuta e un’agente di polizia penitenziaria. Tutte interrogate dalla magistrata responsabile delle fasce deboli, che coordina le indagini dei carabinieri del Comando provinciale di Roma. È probabile che siano a breve sentite la psichiatra e la direttrice del carcere, Ida Del Grosso.
L’indagine
Un sopralluogo a Rebibbia è stato effettuato anche da ministro Bonafede. «E una tragedia - ha detto -. Personalmente prego perché il bambino in ospedale possa essere salvato dai medici che stanno facendo di tutto. La magistratura sta già facendo gli accertamenti, posso soltanto dire, e non posso aggiungere altro, che il ministero ha aperto un’inchiesta interna per verificare le responsabilità». Donato Capece, segretario del sindacato polizia penitenziaria Sappe si domanda se «questa follia potesse essere evitata».

La Stampa 19.8.18
Sono 62 i bimbi dietro le sbarre
Il garante: “Mancano case-famiglia”
di Maria Rosa Tomasello


Di una cosa tutti sono certi: i bambini non dovrebbero vivere dietro le sbarre. «La legge ci dice che il carcere dovrebbe essere veramente la soluzione estrema - ricorda il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma -. Il bisogno e il diritto di un bambino devono essere prevalenti anche rispetto all’esigenza di punire il genitore». Eppure, nonostante gli interventi legislativi che si sono susseguiti negli ultimi 40 anni, le norme che dovrebbero salvare i bimbi dalla pena condivisa senza colpa con le loro mamme, non sono sufficienti o non sono attuate. Così, sullo sfondo della tragedia «imprevedibile» di Rebibbia, dove il nido è considerato un modello, ci sono i nomi e i volti di sessanta piccoli che vivono ancora negli istituti penitenziari e negli istituti a custodia attenuata (Icam). Il censimento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aggiornato al 31 agosto scorso, conta 62 bimbi «detenuti» con le madri, 52. Di queste, 27 sono italiane, con 33 bambini; 25 le straniere, con 29 figli. Tutti in tenera età. Per legge infatti i bambini possono restare con le mamme nelle carceri fino a tre anni. Fino ai sei anni invece negli Icam, istituiti con la legge 62 del 2011, che in Italia sono solo cinque: a Milano San Vittore, aperto in via sperimentale già nel 2006, Torino, Venezia, Cagliari e Lauro (Avellino).
Fino a oggi le normative hanno arrancato, spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, che si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale: «L’ordinamento penitenziario del 1975 aveva previsto che la mamma potesse tenere il bimbo con sé in carcere fino a tre anni. Una mediazione per non strappare la madre al piccolo. Nel tempo si è cercato di ridurre la portata del fenomeno. Prima con la legge Finocchiaro del 2001, che tra l’altro introduceva la detenzione domiciliare speciale per chi aveva figli fino a 10 anni, ma che non ha funzionato molto bene, quindi nel 2011, quando la legge 62 dispose la creazione di case famiglia protette, ma senza copertura finanziaria e dando mandato agli enti locali, che non l’hanno fatto se non in rarissimi casi (oggi esistono solo a Milano e Roma, ndr). Ecco perché non si è riusciti a ridurre il numero dei bimbi negli istituti o negli Icam, dove pure se il personale è in borghese e l’ambiente è accogliente, i bambini si trovano comunque in un regime ristretto». Quindi, conclude Marietti «bisogna pensare a strategie individuali». E «predisporre case famiglia protette», come chiede il Garante, che nella sua Relazione 2018 al Parlamento, definisce «un vulnus» la presenza di bimbi in carcere: «E se alcuni istituti si sono attrezzati», denuncia, esistono anche «sezioni che del nido non hanno davvero nulla: un reparto detentivo classico, talvolta anche in cattive condizioni materiali».
«Il problema - afferma Lia Sacerdote, presidente dell’associazione Bambini senza sbarre - è che il magistrato prescrive il carcere, mentre la Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, firmata dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, che speriamo sia rinnovata dal ministro Bonafede, invita i giudici a evitare il carcere ai genitori di minori».

Corriere 19.9.18
Detenuta a Rebibbia, getta i figli dalle scale Roma, lei muore a 6 mesi e il fratellino è gravissimo. Scoppia la polemica sui piccoli nelle carceri
di R. Fr. A. Ar.


ROMA Le mamme rom sono state le prime ad accorgersi di quello che stava facendo sulle scale. E sono accorse per fermarla, insieme con le educatrici e le agenti della Polizia Penitenziaria. Ma ormai era troppo tardi. A.S., 33 anni, aveva atteso che le dodici compagne di reparto andassero alla mensa con i loro bambini per uccidere i suoi nel nido all’interno del carcere di Rebibbia. La femminuccia, di appena sei mesi, è morta sul colpo, dopo essere stata lanciata dalla seconda rampa delle scale. Un volo di quattro metri che non le ha lasciato scampo. Il fratellino, di poco più di due anni, lotta per la vita al Bambino Gesù: la madre lo ha scaraventato sui gradini. È gravissimo, sarà sottoposto a intervento chirurgico. Nella storia delle mamme detenute in Italia con i loro bambini una cosa del genere non era mai successa. E adesso è bufera sui 62 piccoli sotto i tre anni oggi in carcere. «Sono tanti, troppi, i bimbi che crescono e vivono dietro le sbarre senza aver commesso alcun reato, da innocenti», spiega la vicepresidente della Camera Mara Carfagna (Forza Italia). Toni analoghi da Pd e Radicali. D’accordo i sindacati della Penitenziaria: «Tenerli dentro è una tortura». Ieri l’allarme è scattato poco dopo le 12.30. La trentenne, originaria della Georgia ma residente in Germania, era stata arrestata per spaccio con alcuni chili di droga il 26 agosto a Roma e condotta a Rebibbia femminile. Con lei i due bambini, che avevano portato a 16 il numero dei piccoli del nido intitolato alla sua fondatrice Leda Colombini. Una struttura che gli stessi volontari che prestano la loro opera nel carcere sulla via Tiburtina definiscono fra le migliori all’interno degli istituti di pena. Ma qualcosa a Rebibbia non ha funzionato. Ed è quello che dovranno accertare due inchieste, una della Procura e l’altra del ministero della Giustizia. I carabinieri del Nucleo investigativo hanno svolto un sopralluogo nel nido e acquisito le immagini della videosorveglianza. Sentiti i vertici del carcere e gli operatori che si trovavano in quel momento nella mensa. Ma sarebbero stati anche sequestrati i rapporti di alcune agenti della Penitenziaria che nei giorni scorsi avevano relazionato su strani comportamenti, un disagio psichico forse collegato all’astinenza dal consumo di stupefacenti, tenuti dalla trentenne, che avevano spinto la direzione del carcere a farla sottoporre a una visita dalla psicologo. E si cercano eventuali collegamenti anche fra il tragico gesto della donna e il colloquio con i genitori — i nonni dei bambini — che avrebbe avuto di lì a poco: forse ha perso la testa perché temeva che le sarebbero stati tolti i piccoli. Le indagini dovranno stabilire ora se, sulla base di quei rapporti del personale di vigilanza, c’era la possibilità di farlo prima.

Corriere 19.9.18
Quei 62 bambini dietro le sbarre «Poche strutture»
di Alessandra Arachi e Rinaldo Frignani


Sono sessantadue in Italia i bimbi costretti a vivere dietro le sbarre per stare vicino alle loro mamme detenute. Due di questi sono i fratellini coinvolti nella tragedia che si è consumata ieri a Rebibbia, il carcere alla periferia di Roma che vantava un primato con i 16 bambini ospiti nel nido.
Suona come un ossimoro parlare di bimbi e di sbarre delle carceri. Eppure attualmente ci sono almeno una trentina di piccolissimi — da zero a tre anni — che frequentano le carceri, quelle vere e dure, non come gli Icam, gli Istituti di custodia attenuata — dove non ci sono sbarre, l’atmosfera è soft e gli agenti di custodia non indossano la divisa.
È proprio negli Icam che vive l’altra metà dei bimbi censiti dal ministero della Giustizia, quindi un’altra trentina, e la legge prevede che in questi istituti possono rimanere con le loro mamme anche fino a sei anni.
«Gi Icam sono a Torino e a Milano, a Venezia Giudecca e a Lauro, in Campania, uno vicino a Cagliari», dice Mauro Palma, garante nazionale delle persone private della libertà e fa il punto sulla legge in vigore. Spiega, infatti: «Il problema dei bambini da zero a tre anni rimane troppo spesso senza soluzione. La legge attuale — la cosiddetta legge Finocchiaro — è una buona legge ma rimane molto inapplicata. La questione principale sono le case-famiglia protette che fanno vivere i bambini con le mamme in un ambiente familiare. Ma ce ne sono soltanto due in tutta Italia». Una, a Roma, si chiama la «Casa di Leda», ospita otto mamme e otto piccoli ed è un esempio di come potrebbe funzionare davvero la legge.
«Il punto però è che nessuno alla fine stanzia fondi per le case-famiglia», denuncia Susanna Marietti, che è la coordinatrice nazionale di Antigone e conosce da vicino la questione.
Aggiunge Marietti: «Se un dramma del genere è avvenuto in una struttura gestita in maniera magistrale come Rebibbia allora bisogna davvero preoccuparsi».
Il garante Mauro Palma non riesce a trovare una responsabilità per la tragedia in chi gestisce il carcere della Capitale. «È un istituto ben diretto — dice —, quello che è successo non mi fa pensare ad alcun tipo di responsabilità specifiche. E nella situazione paradossale dei nidi dentro le carceri, quello di Rebibbia è certamente un buon esempio».
I bimbi presenti nelle carceri sono figli di mamme per metà italiane e per metà straniere, più o meno: le prime sono 27, le seconde 25. Dopo quello che è successo un coro si leva in difesa dei più piccoli: «Sono troppi i bambini che continuano a vivere dietro le sbarre», denuncia Giovanni Paolo Ramonda, che è il presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII. Anche secondo lui la soluzione sono le case-famiglia: «Gli Icam sono certamente una soluzione intermedia, ma non rispondono al bisogno fondamentale di un bambino di crescere in un ambiente familiare, con le stesse opportunità degli altri suoi coetanei. Per questo servono le case-famiglia, tutti gli psicologi concordano che i primi tre anni di vita del bambino sono fondamentali per la sua crescita equilibrata». Sono strutture non vigilate, da dove è possibile fuggire. «Ma le madri non lo fanno mai».

il manifesto 19.9.18
Rebibbia, tragedia al nido. Detenuta uccide la figlia
Una donna tedesca butta giù dalle scale i suoi due figli. La piccola muore, l’altro è gravissimo. Il Garante Mauro Palma: «Prima della punizione viene il diritto dei bimbi di vivere con le madri fuori dal carcere»
di Eleonora Martini


Stavolta è successo in carcere. Una donna tedesca di 33 anni, detenuta all’interno del “nido” della sezione femminile di Rebibbia, in preda ad un raptus avrebbe gettato giù dalla rampa di scale i suoi due figli, uccidendo sul colpo la bambina più piccola, di soli sei mesi, e ferendo gravemente il bambino di circa due anni.
Era in carcere solo dal 2il manifesto 19.9.18
6 agosto scorso, A. S., nata in Germania ma di cittadinanza georgiana, «arrestata in flagranza di reato per concorso in detenzione di stupefacenti (articolo 73, ndr)», secondo quanto comunicato dal ministro di Giustizia Alfonso Bonafede che ieri si è recato nel carcere romano e poi in visita all’ospedale pediatrico Bambino Gesù dove è ricoverato in condizioni gravissime il piccolo. Il Guardasigilli «ha subito avviato un’inchiesta interna volta a ricostruire l’esatta dinamica dei fatti e ad accertare eventuali profili di responsabilità».
«Intorno all’ora di pranzo e nello spazio di pochi minuti – informa la nota ministeriale – si consumava il tragico gesto» della donna che proprio ieri mattina avrebbe dovuto avere un colloquio con i suoi parenti. Le condizioni del bambino di due anni sono particolarmente critiche, secondo il primo bollettino sanitario, «con danno cerebrale severo». «Il bambino è in prognosi riservata ed è sottoposto attualmente a supporto rianimatorio avanzato e in ventilazione meccanica. È in programma un intervento neurochirurgico».
Anche il procuratore aggiunto Maria Monteleone di Roma, coordinatrice del pool dei magistrati che si occupa dei reati sui minori, ha aperto un’inchiesta. E dalle prime indiscrezioni circolate, pare che la donna fosse stata già segnalata al servizio psichiatrico durante la visita psicologica che si svolge di routine all’ingresso in carcere, e avesse già manifestato alcuni disagi psichici (associati probabilmente ad una tossicodipendenza). Fonti della polizia penitenziaria fanno sapere alle agenzie di stampa che gli stessi agenti avrebbero depositato relazioni scritte per segnalare la donna all’area sanitaria.
In realtà, al Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà, Mauro Palma, non risulta ci sia mai stato nella posizione detentiva della donna alcun «evento precedente», come si dice in gergo. Non sarebbero cioè mai stati registrati, nella vita carceraria della 33enne georgiana, eventi di rilevanza tale da lasciare presagire una tale tragedia. O almeno non sarebbero mai stati trasmessi alle autorità preposte.
I dettagli della terribile notizia sono ancora sconosciuti, eppure si è già scatenata la speculazione politica di certi sindacati di polizia penitenziaria e delle destre più giustizialiste che chiedono ora di cambiare la legge. Non per decretare l’incompatibilità con la vita carceraria delle donne con figli minori di tre anni, ma al contrario per separare le detenute dai loro bambini.
Attualmente in tutta Italia 62 bambini sono reclusi insieme alle loro madri (52 donne). Di questi, la metà circa è ospitata negli Icam (Istituti a custodia attenuata, creati con la legge 62/2011) insieme alle madri detenute, gli altri in carcere. E di questi ultimi, la maggior parte si concentra proprio a Rebibbia, dove al 31 agosto erano reclusi 16 bimbi con 13 madri.
Esistono anche le case protette, ma l’unica funzionante in Italia è la «Casa di Leda» che attualmente ospita «solo 4 donne – riferisce il responsabile, Lillo Di Mauro – quando avremmo potuto ospitarne 6, mentre nel carcere c’è il sovraffollamento di mamme con bambini. E questa è la contraddizione di una legge che non raggiunge gli obiettivi per i quali è stata approvata».
«Nella parte della riforma dell’ordinamento penitenziario che era stata quasi portata a termine – ricorda Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale – e non è stata approvata né dal precedente né dall’attuale governo, si cercava di superare questo problema della detenzione dei bambini. Ma sono le leggi ad essere assassine».
In effetti, sia Di Mauro che Palma riconoscono la grande professionalità e sensibilità della direttrice di Rebibbia, Ida Del Grosso, degli agenti e degli operatori del “nido”. «Dobbiamo partire dall’idea – sottolinea invece il Garante – che il bisogno e il diritto di un bambino che deve evolvere e sviluppare la sua vita deve essere prevalente anche alle nostre esigenze di punizione rispetto al genitore. A partire da questo le amministrazioni locali devono predisporre le strutture che garantendo la sicurezza all’esterno offrano case famiglia protette e la possibilità di vivere in un ambiente non detentivo».

Il Fatto 19.9.18
Tedesca 33enne in carcere getta i figli giù dalle scale
Al nido - È accaduto a Rebibbia. La donna era in cella per droga: morto un neonato di 7 mesi, ferito gravemente il fratello di 2 anni
di Andrea Managò


Ha atteso che tutte le altre detenute sfilassero per le scale vicino ai locali della mensa, poi ha lanciato giù i suoi due figli, la più piccola di appena 6 mesi e il primogenito di 2 anni. Sono schegge di una violenza inaudita quelle che emergono dalle prime ricostruzioni della tragedia avvenuta ieri mattina nella sezione femminile del carcere romano di Rebibbia, dove una detenuta tedesca di 33 anni ha ucciso la figlia e ferito gravemente il figlio.
Quando le altre recluse, per la maggior parte rom, si sono accorte dell’accaduto, sono corse a fare da scudo con i loro corpi ai bambini, mentre le agenti della polizia penitenziaria bloccavano la donna. Per la bimba però non c’è stato scampo: è deceduta sul colpo. Il maschietto è ricoverato in codice rosso all’ospedale Bambino Gesù. La loro mamma ne avrebbe sbattuto ripetutamente i corpi in terra.
Che si sia trattato di un raptus di follia o di un gesto premeditato, quanto si è consumato ieri tra le mura della casa circondariale di Rebibbia, nella zona nord-est della Capitale, riapre la discussione sulla presenza dei bambini negli istituti di pena. Mai era accaduto in Italia che una detenuta uccidesse suo figlio dietro le sbarre.
In un sistema carcerario che vive quotidianamente i problemi legati al sovraffollamento (circa 8.500 mila detenuti più della capienza di 50.600 posti) e alle strutture spesso vecchie o fatiscenti, la normativa – datata 2011 – prevede possano entrare in carcere assieme ai figli le detenute con bambini di età tra 0 e 6 anni. Poi ci sono gli Icam, ovvero gli Istituti a Custodia Attenuata, ma si contano sulle dita di una mano, attualmente sono solo cinque: Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Torino Lorusso e Cutugno, Avellino Lauro e Cagliari. Quindi, salvo esigenze cautelari specifiche, legate a reati particolarmente gravi come terrorismo e mafia, per le madri con bambini fino a 10 anni è prevista la possibilità di scontare la pena in una casa famiglia sorvegliata. Al momento sono 62 i bambini che vivono in cella assieme alle madri, 16 solo a Rebibbia, una delle poche strutture in Italia dotate di un nido e di assistenza pediatrica continua.
La detenuta che ha ucciso sua figlia era stata estradata dalla Germania lo scorso 27 agosto, con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti, ipotesi di reato per cui è in attesa di giudizio. All’arrivo a Rebibbia, la donna era stata sottoposta ai controlli medici di routine e alla visita psicologica, dalla quale però sembra non fossero emerse criticità. Ora la donna si trova nell’infermeria del carcere, tenuta sotto stretta sorveglianza.
A Roma, dopo anni di attesa per problemi burocratici, dal luglio 2017 è attiva la Casa di Leda, una villetta confiscata alla banda della Magliana e riconvertita in casa famiglia dove da un anno vengono ospitate sei madri detenute con bambini. Ma l’estradizione non consente la collocazione in una struttura alternativa al carcere.
Sgomento il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che nel pomeriggio si è recato nel penitenziario e poi in visita al bambino ferito. “È una tragedia, la magistratura sta già facendo i suoi accertamenti, il ministero ha aperto una inchiesta interna per verificare le responsabilità”, ha detto il ministro appena uscito da Rebibbia. Mentre il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, ha commentato: “È stata una situazione imprevedibile, non c’erano elementi relativi a questa persona che lasciassero supporre un comportamento del genere”. Poi ha aggiunto: “Forse ci sono situazioni in cui il riesame del singolo caso andrebbe fatto in breve. Sicuramente servono più Icam, basti pensare che oggi la metà dei bambini figli di madri detenute vivono in strutture di questo tipo, un quarto è Roma, mentre il resto sono frammentati sul territorio nazionale”.

Repubblica 19.8.18
Le armi facili
L’uomo con un arsenale in casa in cura psichiatrica da anni
Sparava contro il soffitto. La polizia scopre che ha problemi di mente
Ma nessuno gli aveva revocato la licenza
di Marco Mensurati e Fabio Tonacci

ROMA La storia minima di Carlo che all’improvviso, una notte, si è messo a sparare ai muri di casa sua racconta di una macroscopica falla nella normativa sul porto d’armi. Una lacuna che continua a generare mostri e che non è stata colmata neanche col recente decreto legislativo di recepimento della direttiva europea sulla detenzione di pistole e fucili. Cosa succede quando i possessori della licenza sviluppano malattie mentali o cadono in depressioni molto forti? C’è qualcuno che può togliere l’arma a chi impazzisce?
Andiamo con ordine. Carlo (nome di fantasia) ha 41 anni, vive da solo in un appartamento lungo il trafficato Viale Don Minzoni, poco fuori dal centro storico di Firenze.
Sabato scorso, alle 4.30 del mattino, prende dal suo arsenale privato legalmente detenuto un fucile e comincia a sparare senza motivo contro le pareti e il soffitto. I vicini si spaventano e chiamano la polizia. Gli agenti trovano Mario in stato di confusione, balbetta giustificazioni senza senso.
Soprattutto, si accorgono che in un armadio ha otto tra fucili e carabine, più altre tre pistole e diverse armi da taglio. Lo portano all’ospedale di Santa Maria Nuova, dove viene subito ricoverato nel reparto di psichiatria e sottoposto a un Tso d’urgenza. Non ci sta con la testa, ha dei disturbi gravi.
Il punto, però, è che Carlo ha un porto d’armi per uso venatorio. È un cacciatore. Gliel’ha rilasciato la questura di Firenze nel settembre 2012 e, ancora per qualche giorno, sarà valido. Vuol dire che prima di quel settembre di sei anni fa il suo medico di base aveva firmato il certificato anamnestico che ne attestava l’assenza di specifici motivi sanitari che potevano impedirne l’idoneità. Carlo aveva poi superato la seconda visita medica presso una struttura pubblica accreditata e aveva avuto l’attestato di idoneità psico-fisica. Aveva infine partecipato, con successo, al corso per il maneggio delle armi: una mezza giornata al poligono per dimostrare che con un fucile in mano non si sarebbe sparato sui piedi. Sono i tre requisiti base richiesti dalla legge: 1) certificato anamnestico; 2) visita medica; 3) mini corso al poligono. Ai funzionari della questura non rimaneva che controllare l’assenza di precedenti penali: non li aveva, quindi "nulla ostava" il rilascio del porto d’armi.
È l’iter previsto dall’attuale normativa, secondo molti esperti in materia una delle meno permissive in Europa. Eppure ha un buco a cui nessuno, inspiegabilmente, ha mai pensato di mettere una toppa. E la storia di Carlo ne è l’esempio perfetto.
Perché il 41enne fiorentino, tre anni fa, è entrato in cura da uno psichiatra per un disturbo mentale. Lo ha spiegato sua madre, costernata, agli investigatori. La Questura, che se l’avesse saputo avrebbe potuto revocargli la licenza, non è stata avvertita né dal medico di base, né dallo psichiatra.
Per fortuna Carlo, sabato notte, era solo in casa e nessuno si è fatto male. Ora è ricoverato e indagato dalla procura di Firenze per "accensioni ed esplosioni pericolose", articolo 703 del codice penale. Un trafiletto nelle cronache locali. La Squadra mobile sentirà presto i suoi medici curanti, per capire se, date le condizioni psichiatriche di Carlo, non avrebbero potuto segnalare il problema alle autorità.
La legge non prevede l’obbligo di comunicazione di "intervenute malattie mentali" da parte di medici di base e specialisti.
L’unico momento di "revisione" dell’idoneità psico-fisica di chi ha il porto d’armi è quando ne viene chiesto il rinnovo. Fino al recepimento della nuova direttiva europea (14 settembre), il termine era di sei anni per le licenze per uso sportivo e venatorio, di un anno per quelle per difesa personale. Ora, per le prime due categorie, è stato abbassato a cinque anni. E però non è stato previsto niente sul tema dei controlli durante il periodo di validità della licenza.
È successo anche con Luca Traini, il fascista del raid di Macerata del 3 febbraio scorso finito con sette migranti feriti: ottenne il porto d’armi nel 2015 e da allora non è stato più controllato. E quello di Macerata è stato solo l’ultimo di una lunga serie di episodi: nel 2003 in via Carcano, a Milano, il 31enne Andrea Calderini uccise moglie e vicina con la sua pistola Kimber calibro 45, che non avrebbe mai potuto avere senza medici compiacenti che ne hanno coperto lo squilibrio mentale. E, più di recente, a Viareggio nel 2010 Luca Ceragioli e Ian Hillerm vennero uccisi a colpi di pistola da Paolo Iacconi, loro dipendente, mentalmente disturbato eppure legale detentore di armi.
«Tutte stragi evitabili con un semplice accorgimento», dice la moglie di Ceragioli, Gabriella Neri, fondatrice dell’associazione "Ogni Volta". Da anni chiede di collegare il database del sistema sanitario nazionale a quello del Dipartimento di pubblica sicurezza. Il governo — che pure nel recepire la direttiva europea 853 ha istituito un nuovo sistema informatico per il tracciamento delle armi e delle munizioni — non ha colto l’occasione.

Il Fatto 19.9.18
L’Europa accusa; “Migranti torturati in Ungheria”


“È al di là di ogni ragionevole dubbio che i migranti irregolari catturati dalla polizia ungherese corrano il serio rischio di essere soggetti a maltrattamenti fisici”, come dimostrato dalle numerose denunce ricevute dal comitato anti tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa dalle persone rinviate in Serbia, e corroborate da prove. Lo afferma l’organo di Strasburgo nel rapporto sulla visita condotta in Ungheria quasi un anno fa osservando che le criticità rilevate e le preoccupazioni sollevate “sono valide anche oggi”. Nel rapporto il Cpt espone “come esempi che illustrano la situazione” 7 casi di migranti irregolari vittime di maltrattamenti da parte della polizia ungherese durante la cattura e l’accompagnamento alla frontiera. La maggior parte denuncia di essere stata presa a pugni e calci, alcuni di essere stati morsi dai cani poliziotto, altri di essere stati colpiti con manganelli anche quando erano già inermi e sotto controllo. Il Cpt sottolinea che tutti sono stati visitati da un medico della delegazione, che ha riscontrato ferite che combaciano con quanto descritto. Il Cpt critica duramente anche le procedure per il rinvio dei migranti verso la Serbia, che evidenzia, l’Unhcr non considera “un paese terzo sicuro”.

Corriere 19.9.18
Trieste, dibattito negato
Che autogol il no ai liceali sul razzismo
di Claudio Magris


Il Comune di Trieste, governato da una giunta di destra, come è noto ha negato, tra ripensamenti oscillazioni e precisazioni, la sala comunale a una discussione proposta, con un manifesto moderato e ineccepibile, dagli studenti del Liceo Petrarca sulle leggi razziali proclamate da Mussolini a Trieste il 18 settembre 1938. Un autogol della destra che è un vero, ancorché involontario, regalo fatto ai suoi avversari e smaschera i propositi di sicurezza e di ordine sbandierati dalla destra al potere.
U na decisione che non si comprende. È curioso che la destra si preoccupi del ricordo delle leggi razziali. È comprensibile, anche se ripugnante, cercare consensi e destare paure — che, come tutte le paure, si traducono facilmente in rifiuto anche aggressivo e violento — parlando di plebi senza nome e di altro colore, che attraversano mari e inferni d’ogni genere e che vengono fatte apparire pericolose non solo per la loro diversità ma anche per la loro miseria e la loro fame che possono indurre a reati. Ovviamente, se vengono perpetrati dei reati questi devono essere puniti senza riguardi di nessun genere. Quella giudice che in Germania ha assolto un turco colpevole di stupro non solo ha commesso una grave ingiustizia, disonorando la sua toga, ma ha danneggiato gravemente la causa degli emigrati, destando ira e sospetti. Inoltre, assolvendo il delinquente in quanto secondo lei il suo reato rientrava nella sua cultura, ha offeso tutti i musulmani considerati in blocco degli stupratori e ha dimenticato che ognuno ha la sua cultura. Pure il nazismo e il criminale antisemitismo nazista avevano la loro cultura e non per questo l’abominio di Auschwitz appare più scusabile.
Il falso politically correct di molte anime benintenzionate dà un grande aiuto alla retorica totalitaria e razzista. Chi è animato, come dovrebbe essere ognuno, da autentico spirito di solidarietà e fraternità umana non ignora certo ad esempio che un eventuale numero spropositato di migranti, oggi disonestamente enfatizzato, costituirebbe un problema assai grave, oggi lontano. Se milioni di contadini cinesi morti di fame nella disastrosa campagna maoista del «grande balzo» fossero arrivati in Italia, sarebbe stato arduo o impossibile accoglierli tutti. Ciò non autorizza a seminare odio verso altri sventurati, vittime di altri poteri e di altre ingiustizie e dipinti indiscriminatamente come possibili ladri e rapinatori. È vero che chi non ha da mangiare può avere la tentazione di rubare e rapinare, mentre il proprietario di una banca non ha bisogno di rapinarla con la pistola, terrorizzando i clienti agli sportelli.
Ma perché l’ovvia condanna delle turpi leggi razziali — in particolare antisemite, antiebraiche — dovrebbe mettere in imbarazzo qualcuno? Gli ebrei italiani non erano certo temuti come possibili malviventi; è difficile immaginare che il rapinatore con la pistola descritto dal ministro degli Interni sia un ebreo italiano e lo era altrettanto improbabile nella Trieste di quegli anni. A Trieste, in particolare, gli ebrei si erano distinti per il patriottismo italiano, sin dai tempi dell’irredentismo; molti di essi avevano accettato di buon grado lo stesso fascismo. Uno dei più famosi e apprezzati sindaci di Trieste rimane il podestà fascista Salem, esponente della comunità ebraica e per molti anni al governo della città. Il fascismo stesso, persecutore degli avversari politici e degli sloveni, non era originariamente antisemita. Le leggi razziali provocarono pure tragedie e drammi individuali fra gli ebrei fascisti — ad esempio Enrico Rocca, ebreo goriziano e grande studioso di letteratura tedesca, sansepolcrista ovvero fascista della prima ora e morto suicida, sconvolto dal razzismo fascista. Piero Iacchia, uno dei fondatori dei fasci triestini, morì più tardi in Spagna combattendo contro Franco.
Probabilmente neppure Mussolini, prima dell’asservimento al nazismo, era antisemita, quando parlava con ammirazione di Michelstaedter o quando definiva Hitler «orribile degenerato sessuale» e disprezzava il popolo tedesco come un popolo che viveva nelle selve e ignorava la scrittura quando Roma aveva Augusto, Orazio e Virgilio. Non molti anni dopo, in occasione della visita trionfale del Führer a Roma, dove il Duce aveva fatto ricoprire i lavori in corso dei Fori Imperiali per offrire una migliore immagine della Città eterna, una delle ultime anonime pasquinate diceva: «Roma de travertino/rifatta de cartone/saluta l’Imbianchino/suo prossimo padrone». A Trieste molti ebrei sarebbero stati uccisi, insieme ad altri antifascisti durante l’occupazione nazista nell’ultimo periodo di guerra, nella Risiera, nell’unico forno crematorio esistente in Italia.
Non è male, dopo molti stupidi capitomboli della sinistra, che ci sia una vistosa autorete della destra. La sbandata sinistra ringrazia; se son rose, fioriranno.

Il Fatto 19.9.18
Suicidio web, il blackout pericoloso del buon senso
Giochi pericolosi - Non ci sono certezze sulla morte del 14enne Igor, ma i media hanno già stabilito cause e responsabilità, senza elementi
di Selvaggia Lucarelli


Qualche giorno fa mi è arrivato il messaggio via Facebook di un ragazzo che mi suggeriva di leggere un post in una pagina che si chiama pareti.it e che raduna gli appassionati di arrampicate.
Ho letto così questa storia assurda di un ragazzo di 14 anni, Igor, che si sarebbe suicidato per fare il gioco del “blackout”, una sorta di soffocamento controllato (che non è una novità assoluta). La tragedia la racconta il padre Ramon, un arrampicatore professionista noto nell’ambiente, affermando che lui aveva messo in guardia Igor da tanti pericoli ma questo lo ignorava. Aggiunge poi altrove che andrà nelle scuole a parlare di questo gioco così pericoloso per gli adolescenti.
Il triste caso di Igor, quando l’ho appreso, era stato riportato solo da un sito minore. Ho riflettuto un po’ e ho risposto al tizio che me lo segnalava che mi pareva ci fossero pochi elementi per trarre delle conclusioni e che comunque, quando sento parlare di fenomeni che sembrano limitati a uno/due casi e che dunque non sono fenomeni, temo il rischio emulazione. Il giorno dopo tutti i siti e giornali riportavano la notizia con titoli che parlavano della morte del povero Igor e del terribile nuovo gioco del blackout così in voga tra gli adolescenti. Qualcuno, va detto, ha usato il condizionale, pur dedicando pagine intere all’episodio.
Quindi ho cercato di capire qualcosa di più sulla vicenda, che elementi ci siano a supporto di questa storia e quali siano i precedenti recenti, ovvero quelli che possono fare ritenere questa del blackout una pericolosa pratica di moda tra i giovani. Dopo la faccenda del Blue Whale, altra epidemia di morti social denunciata dalle Iene ma inesistente, è bene essere prudenti. Igor viene trovato impiccato nella sua stanza il 6 settembre. Per appendersi al soffitto ha usato le corde da roccia. I carabinieri trasmettono alla Procura per i minorenni notizia e primi accertamenti sul suicidio. Non ci sono particolari sospetti.
Passano cinque giorni, soltanto cinque, non c’è ancora stato neppure il funerale e il padre Ramon comincia a sostenere che Igor sia morto per il blackout. A testimonianza di ciò ci sarebbero alcuni video su questo gioco pericoloso visitati dal figlio sul computer, come testimoniato dalla cronologia. Ora, per carità, io ci credo, ma prima di parlare di certezze assolute avrei atteso la conclusione delle indagini. Io stessa ho un figlio (spesso rimproverato da me) che guarda un sacco di video sul tema “le morti più stupide” e così via, Youtube è impestato di questa roba. Roba che ha milioni di visualizzazioni.
Il padre del povero ragazzino comunica a varie pagine facebook di climbing che il figlio è morto per il gioco del blackout. Il messaggio è questo: “Igor era un bravo arrampicatore, non un fenomeno ma appassionato e soprattutto coraggioso, una qualità che è diventata merce rara tra i ragazzi e i ragazzini. Purtroppo non ha avuto paura a lasciarsi coinvolgere da un gioco che con la scalata non c’entra nulla e che sta diventando incomprensibilmente popolare tra gli adolescenti che hanno accesso a Internet, il cosiddetto blackout, o gioco del soffocamento (…) Tra le tante cose a cui dobbiamo badare nella crescita dei nostri ragazzi s’è aggiunto anche questo maledetto blackout, parlatene e verificate che tutto sia a posto!”.
Quindi, per il padre, il caso è già chiuso. Le certezze sono così granitiche da trarre già conclusioni, parlare di “gioco popolare tra i giovani”, mettere in guardia e addirittura, come ho letto altrove, già pensare di andare a parlarne nelle scuole. Ora. Io rispetto il dolore di questo padre, ma un po’ di prudenza sarebbe importante.
Addirittura, ieri, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, parlando all’Isola d’Elba in occasione della cerimonia inaugurale dell’anno scolastico, ha detto di essere vicino ai genitori di Igor, perché “le connessioni digitali sono grandi finestre aperte sul mondo, ma esiste anche un lato oscuro della Rete. Non è accettabile che un ragazzo di 14 anni muoia in conseguenza di un’emulazione in un gioco perverso in chat”.
Insomma, ora un video su YouTube è diventato una chat, quindi perfino un gioco condiviso con qualcuno. Ma chi? Da cosa sarebbe supportata questa affermazione?
E le indagini? Quelle naturalmente sono appena iniziate visto che i computer e il cellulare di Igor sono stati sequestrati pochissimi giorni fa. Le dichiarazioni di chi sta indagando sono un po’ confuse: si dice che il ragazzo non abbia cercato tutorial sul soffocamento, che però su un computer siano state trovate nella cronologia visite a un video che parla del blackout ma questo video, nei lanci delle agenzie, ha sempre nomi diversi. Da “Le 10 cose più pericolose del mondo” a “I modi per sballarsi senza droga”, “5 sfide pericolose”, “5 sfide pericolosissime” (che avrebbe milioni di views) e così via.
Il pm (che ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio dopo le notizie della stampa sul caso) aggiunge poi che “di questa pratica assurda si era iniziato a parlare lo scorso mese di febbraio quando un altro 14enne fu trovato in fin di vita a Tivoli, strangolato dal cavo della playstation, poi morto giorni dopo al Gemelli”. Già, peccato che in quel caso non sia mai stato trovato nulla sul computer del ragazzino e che l’ipotesi blackout (mai confermata) fu frutto di una dichiarazione del padre, il quale sostenne che il figlio giorni prima gli mostrò un video sul blackout (mai trovato nella cronologia)
Insomma. Io trovo questa vicenda molto strana. E trovo molto pericolosi titoloni, comunicati e allarmismo, visto che forse (e ribadisco forse) c’è qualche caso isolato di ragazzi che provano a emulare gesti pericolosi visti in un video, ma per fortuna non c’è alcuna moda. Mi spiace moltissimo per il dolore dei genitori di Igor, ma suggerisco, sommessamente, prudenza perché per ora l’unica certezza sul caso è la morte incomprensibile di un ragazzino di 14 anni.
Una volta che le indagini saranno concluse e i loro sospetti eventualmente confermati, ci sarà il tempo per le valutazioni. Che però devono sempre tener conto della vecchia domanda: e se un titolone sul giornale a proposito di un caso isolato causasse, anziché una morte in meno, una morte in più per emulazione?

La Stampa 19.9.18
Doppia cittadinanza
L’Austria appicca un incendio
di Vladimiro Zagrebelsky


Del comunicato con cui il ministro degli Esteri Moavero Milanesi annuncia che non parteciperà al previsto incontro con il ministro austriaco colpisce subito la secca intitolazione: Austria. Manca, perché non necessaria, la firma: Italia. Non può restare tranquillo chi da bambino in famiglia ha sentito dire: Austria, il nemico di sempre! Ma erano gli Anni 40 del secolo scorso e molte cose sono certo cambiate da allora. Eppure è difficile non condividere quanto il ministro scrive.
La saggezza di De Gasperi e di Gruber nel 1946 portò a un accordo tra i due governi e all’autonomia della Provincia di Bolzano. Anche per le favorevoli condizioni economiche, fu possibile la convivenza di popolazioni di lingua e storia diversa, in quei territori divenuti italiani cent’anni orsono con la vittoria nella Grande Guerra. E ora i legami a cavallo della frontiera degli Stati sono forti, favoriti dall’euro-regione di Trento, Bolzano e Innsbruck e anche dall’importante collaborazione tra le Università di quelle città. Ma adesso la destra al governo in Austria pensa di dare la cittadinanza austriaca ai cittadini italiani germanofoni o ladini. Il progetto si è trascinato per qualche tempo con il governo austriaco che affermava di voler agire d’intesa con quello italiano. Ora però, dopo le dichiarazioni del cancelliere Kurz, sembra che il governo austriaco abbia deciso di procedere comunque. Il nodo viene al pettine e la reazione del ministro degli Esteri è divenuta inevitabile. Inevitabile perché c’è una logica nelle provocazioni, che spingono alla reazione. In questo caso l’iniziativa austriaca è ora giustamente definita dal governo italiano «revanchismo anacronistico». È facile prevedere che da parte austriaca si richiamerà il carattere delle popolazioni tirolesi da una parte e dall’altra del confine e il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Il conflitto lega le mani ai contendenti, costretti a duellare. Fin dove? Non è un’esagerazione di europeisti cosmopoliti e senza patria quella che, di fronte all’accendersi dei nazionalismi in Europa, ricorda che il nazionalismo porta ineluttabilmente al conflitto e, per il processo di unificazione europea, rivendica il merito storico di avere assicurato settant’anni di pace dopo secoli di guerre.
Di per sé doppie o triple cittadinanze, tanto più all’interno dell’Unione europea, non dovrebbero porre problemi. In fondo tutti hanno anche la cittadinanza dell’Unione, di ridotto contenuto, ma simbolicamente importante. E basta conoscere un poco le montagne del Tirolo verso Nord e verso Sud per sentire anacronistica non tanto la questione della cittadinanza, ma proprio l’esistenza di una frontiera. A lungo ci si è riferiti alle Alpi come frontiera naturale. Ma le montagne uniscono, non separano. Di qua e di là per forza di cose si vive allo stesso modo. Se poi si parla la stessa lingua ogni divisione è difficile da accettare. Ma affrontare il problema alla vecchia maniera è rischioso. Si rischia infatti di lanciare un segnale di rivendicazione territoriale, come è avvenuto, in altro contesto politico, con la protesta di Croazia e Slovenia quando l’Italia nel 1992 ha ammesso alla cittadinanza gli istriani di origine italiana che avevano acquisito quella dei Paesi cui l’Italia aveva dovuto cedere territorio con il trattato di pace alla fine della Seconda guerra mondiale. Nel caso dell’Austria però c’è di più. Il cancelliere austriaco è venuto a fare campagna elettorale a favore di un partito italiano, la Südtiroler Volkspartei, in vista delle imminenti elezioni della Provincia di Bolzano. Di che segnale si tratta? Nessun problema, finché le frontiere esistono? I ministri turchi a cui recentemente hanno impedito di andare in Germania e Olanda a far campagna elettorale, almeno si riferivano a un referendum turco e al voto di cittadini (anche) turchi. La pressione austriaca è dunque forte e riflette un disegno e un metodo, che hanno alle spalle una rivendicazione fuori del tempo. Si sperava che fosse fuori del tempo; purtroppo è invece parte di un tempo che risuscita, per mano di apprendisti stregoni che non saranno in grado di fermare gli incendi che appiccano.

Corriere 19.9.18
Dietro la crisi del Pd
La sinistra che ignora i deboli
di Antonio Polito


C’è forse un nesso tra il crac della Lehman Brothers, la banca d’affari che diede il via alla grande recessione, e il fallimento elettorale del Pd. Nel 2008, quattro mesi prima che a New York iniziasse la fine del turbo capitalismo finanziario, il Partito democratico di Veltroni otteneva in Italia alle elezioni politiche dodici milioni e passa di voti; cinque anni dopo con Bersani, nel pieno della crisi del debito in Europa, otto milioni e mezzo; altri cinque anni e, nel 2018, a recessione finita, i voti di Renzi sono scesi a sei milioni e rotti. Un elettorato dimezzato in una decade. E secondo i sondaggi in continuo restringimento.
Forse il destino del Pd era già scritto in quella data di nascita. La sinistra italiana, di origine marxista, approdò con troppo ritardo al tentativo di trasformarsi in una sinistra liberale, più protesa alla creazione di ricchezza che alla sua distribuzione, sulla scia del successo di Clinton negli Usa e di Blair in Europa. Costruì così un telaio, il Pd, che era fatto per la Formula Uno, per far correre l’economia il più velocemente possibile senza fermarsi ad aspettare i perdenti, nella convinzione che sarebbero stati prima o poi recuperati da una crescita ormai senza più cicli e limiti. Il programma del Lingotto ne fu la summa: anche simbolicamente, in casa Fiat. Poi la storia è andata diversamente. L’economia italiana ha dovuto arrancare su un terreno sconnesso e minato, e di caduti lungo la strada ce ne sono stati tanti.
M a il Pd non era più attrezzato per ascoltare i deboli. La retorica delle opportunità in cambio di sacrifici è così proseguita anche oltre il ragionevole, tentando di mettere insieme la Coop con Amazon, come dice Aldo Bonomi, il sindacato con Marchionne, i risparmiatori coi banchieri, l’artigiano con la Fornero. E dura ancora: il segretario Martina propone per il 30 settembre una manifestazione dell’«Italia che non ha paura», mentre è così evidente che il suo problema sta proprio nell’Italia che ha paura, perché non vive nella Ztl delle grandi città e non può mandare il figlio a Londra per un master. Cosi l’intera scommessa su cui si basava il nuovo partito è naufragata, prima nella lunga recessione italiana e poi, ancor di più, nella troppo debole ripresa.
Una tale catastrofe politica può indurre sentimenti di sconforto, o accendere desideri di vendetta. L’uno e l’altro stato d’animo sono abbondantemente presenti nel dibattito interno a quel partito; specialmente in chi, non essendo riuscito a guidarlo, ora vorrebbe scioglierlo, naturalmente restandone al comando; oppure propone di rifondarlo in una cena privata o sul lettino di uno psichiatra. Tutto ciò è offensivo per migliaia di militanti e milioni di elettori. Il Pd non va buttato. È ancora uno dei più grandi partiti della sinistra europea, e ha reso più di un servizio alla Repubblica negli anni peggiori di questa decade. Chi ha a cuore la democrazia e il pluralismo politico non può davvero augurarsi la scomparsa di un partito di massa, per quanto acciaccato e pesto sia.
Ma per essere salvato da un gruppo di dirigenti che sembra aver perso la testa, il Pd deve fare una scelta. Una possibilità è auto-annettersi al populismo, come ha fatto Corbyn in Gran Bretagna, nazione in cui però non ci sono già, come da noi, due grandi partiti che occupano quell’area. Ma attenzione: anche solo scimmiottarne lo stile, come è accaduto quando il Pd ha addirittura occupato l’aula di Montecitorio per impedire un voto di fiducia su un decreto qualsiasi, può portare acqua al mulino del populismo: non si può ricostruire la credibilità di un’opposizione sul sabotaggio e sulla ripicca. Soprattutto quando, al governo, il voto di fiducia lo si è messo perfino sulla legge elettorale.
Oppure il Pd può decidere che non vale la pena di buttare questi dieci anni e che intende restare nella sinistra liberale. Ma allora deve fare i conti con la sconfitta che questo pensiero politico ha conosciuto in tutto l’Occidente. E non deve aver paura di trarne conseguenze radicali.
È ciò che invita a fare il manifesto dell’ Economist per «un nuovo liberalismo», che non può più apparire, come è stato in questi anni, dalla parte della rendita, dei magnati, dei monopolisti privati che si sostituiscono a quelli pubblici, e dei furbi. Il settimanale inglese ricorda di essere nato, 175 anni fa, per battersi contro le Corn Laws, in difesa cioè dei poveri che dovevano comprarsi il pane e contro i grandi proprietari terrieri che avrebbero guadagnato dal protezionismo sul grano.
Questa carica delle origini si è persa. Un po’ ovunque, da Hillary Clinton a Matteo Renzi, i leader della sinistra liberale sono invece diventati agli occhi della gente una élite compiaciuta di se stessa e compiacente con i più forti. E non per carattere o per antipatia, come si dice oggi; ma proprio perché, convinti che la modernità fosse un pranzo di gala, non hanno avuto il coraggio del radicalismo politico cui la chiama il manifesto dell’ Economist .
Perciò oggi non hanno le carte in regola per proporre un futuro migliore a opinioni pubbliche che sembrano invece sprofondare nella nostalgia del passato, pericolosa quando si rivolta anche contro la democrazia e la tolleranza. Errori ne abbiamo commessi anche noi, osservatori, commentatori, intellettuali schierati dalla parte delle libertà economiche e politiche, incapaci di lanciare per tempo o con la necessaria forza l’allarme per la deriva lungo la quale le nostre società stavano scivolando. L’Italia, come tutto il mondo, ha tratto progresso e prosperità dalla libertà, e non deve invertire la rotta.
Ma se il Pd vuol fare parte di questa battaglia deve rapidamente rimettersi in piedi. Deve capire, smettendo ogni sciovinismo e liberandosi da qualsiasi ipoteca, che oggi è parte del problema italiano, e non della soluzione. È una questione di idee: ne devono venire di nuove, e di migliori. Ed è una questione di leader, che tanto più credibili saranno quanto meno hanno condiviso gli errori di questi anni.
Soprattutto, è una scelta che spetta alla gente del Pd, a chi ancora ci crede e che ancora lo vota. Solo loro sono i proprietari del marchio, e devono riprendersi il destino nelle proprie mani .

Corriere 19.9.18
Franco Rotelli è stato uno dei protagonisti della riforma psichiatrica in Italia e uno dei principali collaboratori di Franco Basaglia.
«La terapia? Una settimana di autocritica»
di Claudio Bozza


«Un partito schizofrenico? Non direi: io ho sempre lottato contro gli schemi psichiatrici. È evidente che il Pd soffra di una profonda crisi di identità, ma anche in questo caso, come nella scienza di cui mi occupo da decenni, bisogna lavorare sull’emancipazione delle persone». Franco Rotelli, già consigliere regionale del Pd in Friuli Venezia Giulia, è stato uno dei protagonisti della riforma psichiatrica in Italia e uno dei principali collaboratori di Franco Basaglia.
Dottor Rotelli, allora di cosa soffre il Pd?
«Soffre dello stato di confusione generale. Un caos che ha favorito fenomeni come Erdogan, Trump e il populismo in Italia».
Al Nazareno c’è uno scontro continuo. Come lo definirebbe a livello psichiatrico?
«Non sono iscritto al Pd, però direi che è un segno di democrazia e di salute mentale».
Qual è la cura?
«Una settimana di discussione pubblica per fare un’analisi degli errori: 7 giorni di pura autocritica, che nessuno finora ha fatto. Il profilo giusto dovrebbe emergere da questa settimana».
Un grande errore fatto dal partito?
«La demolizione dei corpi intermedi, in nome del decisionismo. Ma alla fine abbiamo pagato un prezzo altissimo».

Il Fatto 19.9.18
Il Messaggero, che fu progressista e combatteva pure i “palazzinari”
Nell’altro secolo era un quotidiano liberale. Fece la battaglia per conservare Villa Borghese, ma anche per la statua di Giordano Bruno
di Vittorio Emiliani


Un nuovo quotidiano esce a Roma a otto anni dalla storica “breccia”, prima come numero unico di prova e si chiama Il Messaggiero. Diventerà Il Messaggero col gennaio 1879.
Il suo fondatore, il milanese Luigi Cesana, proviene da Firenze, ha respirato in casa giornalismo e garibaldinismo.
Il padre Giuseppe Augusto, torinese, ha partecipato alle Cinque giornate di Milano (1848), ha conosciuto presto Cavour e Garibaldi e, da direttore della Gazzetta di Torino, ha caldeggiato più di tutti la partenza dei Mille. A Firenze crea Il Fanfulla, dove si fa le ossa il figlio Luigi. I quotidiani di quel periodo sono molto “militanti”, spesso veri giornali-partito. Il Messaggero no. All’inizio molto elitario, sorta di “giornale dei giornali” e poi, invece, quotidiano di grande cronaca specie a partire dal processo Fadda che lo fa decollare in copie prevalendo fra i 22 quotidiani del 1880.
Il suo “collante”? Laicismo che spesso diventa anticlericalismo, quindi radicale, talora accusato persino di socialismo. Vi scrive spesso il primo deputato socialista, Andrea Costa, allievo di Carducci. Sostiene l’epica impresa dei cooperatori ravennati nella bonifica del malarico litorale romano: 300 morti nei primi anni. Il giornale è anche anti-colonialista e anti-militarista. Quei 250 milioni all’anno li destinerebbe alla scuola, alla drammatica “questione sociale”. Non è “parlamentarista”, critica bizantinsmi e trasformismi. Con molta apertura però al dibattito, anche interno (attualissimo) sull’indennità ai deputati: senza una remunerazione andranno alla Camera “gli improvvisati” e “gli sfaccendati”.I primi deputati socialisti, poveri in canna, sovente per dormire approfittano del treno (che è gratis).
Il Messaggero nasce da gente integerrima, senza interessi economici privati, che lo gestirà e pubblicherà fino al 1912, per 35 anni.
Sopravvive, quasi solo, allo scandalo della Banca Romana perché da essa non ha preso un centesimo. Oltre all’onestà, il “collante” è per decenni l’anticlericalismo. Così i disordini durante la traslazione serale della salma di Pio IX a San Lorenzo fuori le Mura, il giornale li attribuisce essenzialmente alla rumorosa e organizzata “gazzarra” dei clericali e non alle grida “Al Tevere! Al Tevere!” degli anticlero.
Vanta orgogliosamente l’appoggio pieno al corteo di massa per l’inaugurazione del monumento a Giordano Bruno in Campo de’ Fiori dove nel 1600 il filosofo domenicano è stato arso vivo dai confratelli dell’Inquisizione: 20 mila partecipanti, tutti i vertici dell’Università e della scienza, accusati dai Gesuiti e dall’Osservatore Romano di “debaccare” (cioè di darsi a danze bacchiche, orgiastiche) per strada. Gesuiti che vorrebbero ribattezzare la piazza “Campo maledetto” e che reclamano ancora, nel 1929, per il Concordato, la rimozione della statua.
Straordinarie le inchieste del giornale per una nuova rete ospedaliera, per la difesa delle Ville storiche dagli appetiti dei “palazzinari”, in specie di Villa Borghese, con una martellante campagna dall’84 in poi, e il Messaggero vince: una sentenza pretorile gli dà ragione, lo Stato nel 1901 compra il Parco e la Galleria Borghese per 3,6 milioni destinando il polmone verde al “godimento dei cittadini romani”.
Nel 1907, l’appoggio forte, generoso alla Lista di Ernesto Nathan, al Blocco del Popolo, radicali, repubblicani e socialisti riformisti e, dopo il suo trionfo, alla sua rigorosa e scomoda politica urbanistica, alla creazione di interi quartieri-modello, di villini e case economiche, di municipalizzate moderne, di una fitta rete di asili, scuole, istituti, di Musei e auditori come l’Augusteo, ecc. Sei-sette anni luminosi, coi “palazzinari” italo-vaticani messi in un angolo per anni.
Poi il fascismo con un gruppo di giornalisti antifascisti (Vittorio Gorresio, Gino De Sanctis, Sandro De Feo e altri) e di tipografi che stampano il foglio clandestino La Voce Operaia di Ossicini e Rodano. Ma la vera svolta, il ricongiungimento con la grande tradizione laica e democratica, nel 1974, quando redattori e tipografi si oppongono alla vendita a Edilio Rusconi editore di fiducia della Dc e capeggiano la battaglia vittoriosa per il No alla cancellazione referendaria del divorzio. Ripetuta contro l’abrogazione dell’aborto nel 1982.
Penna giuridica di punta, Giuseppe Branca. Anche qui una grande ripresa della politica urbanistica per l’interesse generale e contro le speculazioni immobiliari voraci in corso da decenni, con articoli di Italo Insolera, Vezio De Lucia, Franco Ferrarotti, Alfonso Testa e miei. I “cedernisti”, come ci chiama l’attuale Messaggero. E articoli di storia firmati da Alberto Caracciolo, Giorgio Spini, Mario Sanfilippo. Un gran bel periodo il 1974-1986.
Qualcosa da spartire con l’oggi? “È la stampa bellezza! E tu non ci puoi fare niente!” grida Humphrey Bogart nel fragore delle rotative che stampano una grande inchiesta giornalistica contro potenti interessi. I giornalisti di allora lo tenevano bene a mente. Così si dice.

Il Fatto 19.9.18
Partinico, caccia al nero che è in noi
C’è un’emergenza razzismo in Sicilia?
di Enrico Fierro


“Marocchini di merda, ve ne dovete andare a casa vostra”. È un venerdì di odio a Partinico. Davanti al bar “Yogo Loco”, quasi alla fine di Corso dei Mille e ultima tappa del mesto “struscio” serale, si riunisce una piccola folla urlante. Le voci si sovrappongono, la lingua sicula smarrisce la sua dolce musicalità per assumere i toni sordi della rabbia contro due ragazzi dalla pelle nera. Quale “colpa” hanno? Un furto? Uno sguardo di troppo a una ragazza? Una parola sbagliata? “Perché mi hai cacciato dal bar, non ho fatto nulla”, chiede inutilmente uno di loro. Il traffico è bloccato. Il fuoco della rabbia si mescola al sudore di una sera densa di umidità. Arriva la polizia, i due ragazzi vengono portati in commissariato: trattenuti fino all’una di notte. Nessun reato. Nessuna accusa. L’odio, almeno questa volta, non è esploso in atti di brutale violenza regalando alle cronache il racconto del terzo raid razzista in poche settimane, in questo paese di 30 mila abitanti, a 35 km da Palermo.
“Chi fa guerra di solito è un nevrotico. Quando si fanno guerre vuol dire che non si conosce la situazione da affrontare”
Partinico. Qui Danilo Dolci immaginò e diede corpo alle sue idee di pace, lavoro e solidarietà. Qui il Gandhi italiano impegnò tutto il suo tempo per il bene comune. Ma qui tutto è cambiato, Danilo Dolci oggi è solo il nome di qualche scuola. Partinico è Italia, e anche in queste terre il seme dell’intolleranza fa nascere alberi gravidi di frutti avvelenati. Due aggressioni ispirate da odio razziale sulle sei registrate in tutta la Sicilia da luglio a settembre. Per capire in quale terreno affondano le radici dell’odio bisogna girare, parlare con la gente, rileggere la cronaca anche minuta, e riconnetterli a un qualcosa di più generale. Tentare di comprendere dove, come, quando e perché anche la verità muore. È la storia del bambino “strangolato”. Agosto volge al termine, sui siti locali circola la notizia di un bambino aggredito. I niuri hanno tentato di strozzarlo perché voleva rubare una bicicletta. Il paese ne parla. La notizia si arricchisce di particolari falsi e terrificanti. I neri, dicono, avrebbero picchiato una donna incinta e, dominati da furia selvaggia, anche distrutto una casa. Alcuni politici si fanno inquadrare dalle telecamere mostrando una faccia severa. Il consigliere comunale ed ex candidato sindaco, Pietro Rao, si chiede “di che colore saranno le magliette in questo frangente?”. Sono inutili chiarimenti e spiegazioni. Neppure la mamma del bambino viene creduta. Eppure la donna è chiarissima in un post su Facebook. “Ragazzi calmatevi, tutto ciò che è stato scritto non è vero… il bambino in questione è mio figlio… conosce il ragazzo di colore, ha preso la bici per farsi un giro… il ragazzo di colore non si è permesso ad alzare un dito su mio figlio, naso rotto e pugni sono solo cavolate…”. Nessuno la ascolta.
“Anche noi cerchiamo di capire le ragioni di questa esplosione di intolleranza e violenza”, mi dice Cesare Casarino, animatore di Partinico solidale. “Dire ‘siamo diventati razzisti’ è troppo facile e scontato. Cullarsi nell’illusione della Sicilia come terra di antica accoglienza sarebbe un ingannare noi stessi. Oggi dirsi razzisti non è più una vergogna, aggredire un nero è quasi legittimo. Troverai sempre chi ti dice che hai fatto bene. C’è una ampia copertura politica, culturale, giornalistica, televisiva e social che avvolge, protegge e giustifica questi comportamenti”. L’albero dell’odio ha bisogno di poca acqua per crescere. Basta un giovane nero della Nigeria che un pomeriggio di luglio se ne va in giro per strada nudo, “con le vergogne” all’aria, come dicono qui, a far esplodere la rabbia. “Cos’altro dobbiamo vedere a Partinico? È arrivato il momento di chiudere tutti questi centri sociali dove si continua a fare business”, dice indignato il consigliere Giorgio Rao di “Salviamo Partinico”. Non sa nulla, ma versa litri di benzina sul fuoco. Perché anche in questo caso, la realtà racconta un’altra storia. Quella di un giovane arrivato in Sicilia con un barcone e diventato carne da sfruttamento. Lavora e cade da una scala: si porta addosso per giorni un trauma cranico e una emorragia cerebrale. È denutrito, disidratato, i valori sballati, è disorientato, non in grado di intendere né di volere. Perde il controllo di sé, si spoglia e corre nudo. Chi lo vede si scandalizza, ma prima filma col cellulare. La politica fa la faccia feroce. Nessuno prova pietà. La verità viene spazzata via dal vento di un razzismo bulimico di notizie false e gonfiate. E la macchina del tempo ci riporta indietro di 119 anni, a 9.044 chilometri di distanza da Partinico, nello sperduto villaggio di Tallulah.
Una tragedia raccontata, quella, da Enrico Deaglio nel bellissimo Storia vera e terribile tra Sicilia e America (Sellerio). Cinque siciliani di Corfù, contadini e fruttivendoli, vengono linciati e impiccati a ganci di macellaio. La loro colpa? Aver aggredito il medico del villaggio dopo un litigio. Il medico è morto, dice la voce di popolo, ma la notizia è falsa. È solo ferito, ma per nessuno fa differenza. I cinque vengono massacrati. Davanti a “una folla ordinata e calma, ma molto determinata”. La stessa folla, forse con identica determinazione, che il 26 luglio ha assistito al linciaggio di Dieng Khalifa, senegalese di anni 19. La sua colpa? Non avere colpe. Essere un nero, un underdog, un perdente, proprio come i siciliani di Corfù massacrati a “L’America”. Sta parcheggiando la sua bicicletta quando un uomo bianco, col tatuaggio che spicca sul braccio “Solo Dio può giudicarmi”, lo prende a pugni in faccia. “Negro di merda, figlio di puttana, che minchia vuoi? Venite qui a rubare il pane”. E giù botte, col ragazzo che non alza le mani perché così gli è stato insegnato nella comunità che lo ospita. E la folla. C’è chi guarda e non muove un dito, e c’è chi lo colpisce alle spalle. Nessuno interviene, nessuno collabora con i carabinieri. Il pubblico ministero prende atto dell’esistenza di “una diffusa e desolante coltre di omertà”. La stessa che ha tentato di coprire gli aggressori della notte di Ferragosto. Quella del raid contro gli africani della comunità “Mediterraneo”. Otto ragazzi che decidono di andare in spiaggia a Trappeto a festeggiare. Anche loro, come i “bianchi”. Ridono, scherzano, parlano. Non bevono, “la nostra religione vieta l’alcool”, ma sono le risate a non essere gradite a un gruppo di ragazzi del luogo. Volano schiaffoni. “Negri di merda, cosa ridete?”. I ragazzi chiamano la loro assistente in comunità, le chiedono di venire a recuperarli. Il furgone arriva subito, ma gli aggressori non mollano. Parte l’inseguimento di quattro macchine piene di uomini e donne. Giovani e anziani. Il furgone viene tamponato, bloccato, i ragazzi di colore aggrediti con mazze di ferro. Qualcuno tira fuori una pistola. Qualcun altro chiama Roberto, che porta con orgoglio la ’nciuria, il soprannome, di “Spavento”. Una ragazza cerca di impedire il linciaggio. La spingono via: “Addifenneri a nuautri”. Prima gli italiani. Per i “negri” solo mazzate.
Si tratta – scrivono i magistrati che arrestano sette persone, tutti bianchi e tutti gravidi di precedenti penali – di una “prolungata e selvaggia aggressione dettata da abiette finalità di discriminazione razziale e posta in essere con modalità brutali e ripugnanti”. “È quel sottoproletariato sempre sul confine tra legalità e illegalità, che sfoga rabbia e frustrazione sui più deboli, oggi i neri. Il dramma è che questi sceriffi rischiano di avere consenso tra la popolazione”.
Strade e vicoli pieni di “munnizza”, comune in pre-dissesto ma il problema sono i” niuri”
Giardini dell’arena Lo Baido. Qui si incontra “Partinico solidale”. “Vogliamo ribaltare lo slogan prima gli italiani e dire prima gli abitanti di questa comunità. Tutti, i bianchi e i neri. Abbiamo organizzato incontri in piazza dopo l’aggressione di luglio a Dieng, ora ripuliremo i giardini, tutti assieme, e ad arricchirli con una giostra per bambini”. Basterà? Si spera.
Partinico è una polveriera. Il paese, conquistato dalla destra, è in pre-dissesto finanziario. Per le strade cumuli di munnizza. In consiglio comunale è nato il gruppo della Lega di Salvini. Su 32 mila abitanti lavorano in 8.300 (il 73% nei servizi, pubblico impiego, soprattutto). I pensionati sono 8.603: 300 in più. Rosi Pennino è assessore ai servizi sociali. Viene dallo Zen di Palermo ed è una dirigente della Cgil in aspettativa. “Non si meravigli – mi dice – la sinistra siciliana dei Crocetta & company non mi diceva più nulla. Ho scelto di dare una mano qui, ma resto una sindacalista. Il razzismo è da condannare, ma l’accoglienza va fatta bene, altrimenti… Abbiamo 15 comunità e 300 ospiti. Il Comune dispone di una miseria: 5 mila euro come fondo per aiuti e sostegno alle persone bisognose. Le domande per il reddito di inclusione, per avere un’idea, sono 1.300. Siamo bloccati e io vorrei sapere cosa fanno le comunità, come spendono i soldi per integrare chi viene da fuori, per inserirli, per formarli al lavoro e al rispetto delle nostre leggi. Vorrei uscire dall’estremismo nefasto di Salvini e da un buonismo senza prospettiva”.
Sicilia, terra di accoglienza o desolata landa di razzisti? “E chi può dirlo? Siamo una pentola a pressione, quello che c’è dentro lo scopriamo solo quando scoppia”, ci dice Roberto Alajmo, autore del bel libro L’estate del ’78. “Si è data una patente morale a chi attacca il colorato. In Sicilia, il razzismo c’è ed esiste, la logica è quella del resto d’Italia, chi ha poco attacca chi ha meno. C’è un detto che spiega tutto: “Ora ca sugnu appujatu a sta cantunera, dimmi cu sugnu, nun mi diri cu era”: ora che finalmente mi affaccio a un balcone, dimmi chi sono, non mi dire chi ero. Non mi ricordare la mia povertà…”. Il nero ricorda ai siciliani miserie antiche, fame e discriminazione. Quella patita dai contadini massacrati a Tellulah nel 1899 e raccontata da Deaglio. Anche allora, scrive Deaglio, “nacquero brutte idee e presero a soffiare, a organizzarsi, a diventare potenti e paurose”. Tanti anni fa, ma sembra oggi. Sembra Italia, qui da noi.

Il Fatto 19.9.18
Yemen, conflitto per procura: tre anni di carneficina invisibile
Sciiti contro sunniti - Dal 2015 lo scontro fra i ribelli Houthi e le forze governative è proiezione della sfida per il Golfo di Aden fra l’Iran e la Coalizione araba
di Roberta Zunini


Dal 2015 in uno dei Paesi più poveri del mondo, lo Yemen, nella penisola arabica, è in corso una guerra civile devastante che, come in Siria, si è quasi subito trasformata in una guerra per procura. Ovvero un conflitto alimentato dalle mire geopolitiche di potenze straniere, in questo caso Arabia Saudita e Iran.
Gli Stati Uniti, stretti alleati di Ryad, così come molte nazioni europee, tra cui l’Italia, hanno venduto la maggior parte delle armi usate dai sauditi per distruggere assieme alle forze governative del presidente sunnita Abd Mansur Hadi i ribelli di religione sciita – foraggiati dall’Iran e da Hezbollah – Houthi che controllano la capitale Sana’a e il nord-ovest del Paese.
Confinante con l’Oman e l’Arabia Saudita, lo Yemen è una piattaforma naturale strategica perché controlla mezzo stretto di Bab el Mandeb, che collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden, una delle rotte cruciali per il commercio, soprattutto per il transito delle petroliere. Lo Yemen, abitato all’inizio del conflitto da circa 23 milioni di persone, è da decenni uno “Stato fallito” e pertanto è diventato con il tempo un terreno fragile esposto alle mire dei due paesi più potenti del Medio Oriente. Secondo gli analisti questa è una delle guerre più complesse nell’attuale caos mediorentale.
Il conflitto ha le sue radici nel fallimento della transizione politica seguita alla rivolta del 2011 (inserita nel quadro della cosiddetta Primavera araba) che costrinse l’allora autoritario presidente Ali Abdullah Saleh a consegnare il potere al suo vice Abd Mansour Hadi, anche oggi riconosciuto dalla comunità internazionale come capo dello Stato legittimo e residente ad Aden, nel sud, dopo il colpo di Stato del 2015. Saleh è stato il primo presidente dello Yemen, dal 1990 al 2012, dopo essere stato presidente dello Yemen del Nord tra il 1978 e il 1990, quando questa area si unì allo Yemen del Sud. Dopo essere stato ferito gravemente all’inizio della rivolta, Saleh rientrò nella Capitale, Sana’a, dove ricominciò a destabilizzare il clima politico fino ad allearsi con gli Houthi sciiti che un anno e mezzo fa lo assassinarono a causa del suo ennesimo voltafaccia. Il presidente Hadi, nel frattempo, da Aden ha dovuto affrontare gli attacchi di al Qaeda nel sud, la lealtà di molti ufficiali militari a Saleh, così come la corruzione, la disoccupazione e l’insicurezza alimentare. Ma non è riuscito a convincere la maggior parte degli yemeniti – tra cui numerosi sunniti – che a un certo punto hanno preferito mettersi dalla parte degli Houthi. Anche per questo sostegno popolare, tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015, i ribelli sciiti sono riusciti a conquistare la capitale. Da allora il presidente riconosciuto Hadi è stato costretto a riparare nella città portuale meridionale di Aden.
Allarmati dall’allargamento del sostegno agli Houthi, l’Arabia Saudita e altri otto stati arabi sunniti entrarono a quel punto nel teatro di guerra con una campagna di bombardamenti aerei allo scopo di riportare Hadi a Sana’a. La coalizione ha ricevuto supporto logistico e di intelligence da Stati Uniti, Regno Unito e Francia. In questi tre anni di feroci bombardamenti contro infrastrutture e civili che hanno provocato anche epidemie di colera e una gravissima carestia, la situazione è in stallo. L’Onu ha tentato per ben tre volte di portare al tavolo dei negoziati i contendenti, ma tutti gli sforzi sono finora risultati vani. Le forze filogovernative – composte da soldati fedeli al presidente Hadi e prevalentemente da tribù e separatisti meridionali sunniti – sono riuscite a fermare i ribelli prima che raggiungessero Aden solo dopo una battaglia durata quattro mesi. Il problema è che gli alleati di Hadi non sono compatti: pochi mesi fa, gli Emirati Arabi hanno sostenuto con più forza i separatisti del Sud creando divisioni all’interno del distretto di Aden e nella città meridionale ci sono stati scontri, durati alcuni giorni, tra le forze alleate. I separatisti in cerca di una nuova indipendenza per lo Yemen del Sud, non sono affidabili nonostante l’alleanza formale con le truppe fedeli al governo di Hadi, e sono un ulteriore motivo di preoccupazione per il presidente riconosciuto.
Nonostante un lungo assedio, gli Houthi continuano a controllare Sana’a e, a loro volta, assediano la città meridionale di Taiz, riuscendo anche a lanciare missili oltre il confine. I jihadisti di al Qaeda nella penisola arabica (AQAP) e gli affiliati rivali del gruppo di Stato islamico hanno approfittato del caos conquistando territori nel sud e compiendo attacchi mortali, in particolare ad Aden. Il lancio di un missile balistico da parte degli Houthi contro Ryad nel novembre 2017 ha spinto la coalizione guidata dai sauditi a intensificare i bombardamenti. La coalizione ha detto di voler fermare il contrabbando di armi ai ribelli da parte dell’Iran – un’accusa che Teheran ha negato – ma le Nazioni Unite hanno avvertito che le restrizioni potrebbero innescare “la più grande carestia che il mondo abbia visto da molti decenni”. Negli ultimi giorni il porto di Houdaida, in mano ai ribelli sciiti, è sotto bombardamenti che non risparmiano scuole e ospedali, come già accaduto l’anno scorso. Le bombe su Houdaida, dove arrivano gli aiuti delle agenzie umanitarie internazionali, hanno provocato un forte aumento dei prezzi delle materie prime fra cui il cibo e il crollo dei servizi di base.

Il Fatto 19.9.18
Yom Kippur, quando finì l’infallibilità di Israele
6.10. 1973 - Il Mossad avverte dell’attacco a sorpresa, i militari lo snobbano. Così lo Stato ebraico rischiò di perdere il terzo conflitto contro gli arabi
di F.S.


In occasione dello Yom Kippur sono stati declassificati in Israele molti documenti relativi all’attacco di Egitto e Siria. Lo Stato ebraico fu sorpreso da quell’attacco nonostante i molti segnali che venivano dal Cairo e Damasco, gli avvertimenti dell’intelligence, le manovre delle forze armate egiziane lungo il Canale di Suez. Il 6 ottobre 1973 Israele fu colpito nella data più intima delle sue festività, il Kippur, il giorno dell’espiazione (dei peccati). Unica giornata dell’anno in cui Israele rimane immobile, è tutto chiuso, non ci sono notiziari tv né radio, chiusi ristoranti e caffè. Persino porti, aeroporti e le frontiere restano, per 24 ore, sbarrati.
La notte del 5 ottobre 1973, mentre i generali dello Stato maggiore si salutavano con il rituale augurio per il Kippur – “Hatima Tova” – dandosi appuntamento 48 ore dopo, convinti che non ci sarebbe stato nessun attacco contro lo Stato ebraico, il capo del Mossad Zvi Zamir mandava da Londra un messaggio destinato al primo ministro Golda Meir che avvertiva di imminente attacco: “L’esercito egiziano e l’esercito siriano sono pronti a lanciare un attacco sabato 6.10.’73 al crepuscolo”, recita la prima riga del documento, reso pubblico dagli Archivi di Stato. Nella sua missiva di 5 pagine, completa di note manoscritte a margine, il capo del Mossad scriveva che la guerra poteva potenzialmente essere evitata se Israele avesse reso pubblico il piano di attacco.
Anche se nessuno aveva mai visto l’originale, il documento scritto da Zamir era noto, così come lo era l’identità della sua fonte, Ashraf Marwan, un confidente dell’allora presidente egiziano Anwar Sadat, genero in disgrazia dell’ex presidente Nasser. Il documento include però dettagli sulle informazioni che Marwan aveva passato a Zamir mai rese note, come il suo suggerimento su come scongiurare la guerra.
La pubblicazione di un comunicato del Mossad è un evento davvero raro, i documenti dell’Istituto rimangono in genere classificati per diversi decenni. Meno rara è stata invece la decisione degli Archivi del ministero della Difesa di rilasciare le trascrizioni della riunione dei generali dell’Idf il giorno prima della guerra. Le trascrizioni indicano che gli alti ufficiali avevano notato la mobilitazione di egiziani e siriani ma riportano come il capo dell’Intelligence militare, Eli Zeira, ritenesse le probabilità d’un attacco “molto basse, quasi inesistenti”.
Il Mossad era però certo della sua fonte. Marwan era una “importante risorsa” fin dagli anni Sessanta, il suo nome in codice era “Angelo”. Due giorni prima aveva contattato il suo gestore nel Mossad e chiesto un incontro con Zamir proprio per avvertirlo dell’imminente attacco e come sarebbe stato condotto.
Marwan disse al Mossad che l’Egitto avrebbe probabilmente limitato l’azione alla penisola del Sinai, che Israele aveva conquistato nella Guerra dei Sei giorni nel 1967.
Il mattino dello Yom Kippur del 1973 la guerra trovò l’esercito israeliano impreparato, nonostante la lettera di avvertimento di Zamir e le altre pericolose avvisaglie. Oltre 2.500 soldati israeliani morirono nei combattimenti, insieme a migliaia di militari egiziani, siriani e iracheni.
La pubblicazione del documento, 45 anni dopo getta nuova luce su una vecchia polemica, sulla responsabilità del mancato allarme degli attacchi imminenti. La guerra del Kippur e i fallimenti dell’intelligence che hanno impedito ai militari di vedere ciò che era così ovvio in retrospettiva, rimangono argomenti scottanti in Israele. Dopo la guerra, la commissione investigativa Agranat riconobbe Eli Zeira colpevole di “gravi errori” di giudizio. Ancora oggi, il 90enne ex capo dei servizi segreti militari si considera non responsabile, ammette errori di valutazione ma su Marwan rimane sempre della stessa idea: era un agente doppio e inaffidabile. Anche Zamir, 93 anni, non ha perso la verve e incolpa Zeira e l’Idf dei fallimenti dei servizi segreti militari che hanno fatto sì che Israele venisse colto di sorpresa. Nel 2004, cercando di promuovere la sua teoria su Marwan, Zeira rese noto il nome dell’agente che aveva avvertito il Mossad. Tre anni dopo Marwan, nel frattempo stabilitosi a Londra, cadde da un balcone della casa di Chelsea. Zamir ha chiesto che Zeira fosse processato per aver rivelato il nome di Marwan, e sebbene l’ex procuratore generale Yehuda Weinstein nel 2012 lo abbia condannato, decise di non processarlo, citando il contributo alla sicurezza nazionale, l’età avanzata e i molti anni trascorsi dagli eventi.

Miss Italia, concorrente disabile insultata: “Ti votano perché fai pena”. Però col Pd non ha funzionato www.spinoza.it

La Stampa 19.9.18
Con “Santiago, Italia”
Nanni Moretti torna al Torino Film Festival
di Fulvia Caprara


I mesi successivi al colpo di Stato che l’11 settembre del 1973 pose fine al governo democratico di Salvador Allende, spianando la strada alla presa di potere del generale Augusto Pinochet. È dedicato a quel periodo cruciale della storia del Cile e della Guerra fredda il documentario Santiago, Italia realizzato da Nanni Moretti. Lo presenterà al Torino Film Festival, di cui è fan di vecchia data e di cui è stato venerato direttore.
In programma nell’ultimo giorno della rassegna diretta da Emanuela Martini, il 1° dicembre, e poi, cinque giorni dopo, nelle sale, distribuito da Academy Two, Santiago, Italia ricostruisce la vicenda attraverso le parole dei protagonisti e i materiali d’epoca, concentrando l’attenzione sul ruolo svolto dall’Ambasciata italiana a Santiago che, in quelle difficilissime ore, offrì rifugio a centinaia di oppositori del regime di Pinochet, consentendo loro di raggiungere l’Italia.
Testimone diretto degli eventi, il diplomatico e scrittore Roberto Toscano, ricorda con chiarezza i fatti e il clima del periodo: «Sapevo, in modo generico, che Moretti stesse lavorando a questo film - spiega al telefono da Madrid -, naturalmente mi interessa molto vederlo». Le memorie di Toscano sono vivide e toccanti: «Abbiamo cominciato a vedere la gente che saltava il muro dell’Ambasciata per entrare. Non sapevamo bene che fare. Non esiste l’istituto dell’asilo diplomatico, nel Diritto internazionale. A un certo punto, siamo stati equiparati a un Paese latino-americano, come se fossimo il Messico o l’Argentina, una cosa piuttosto nuova. Così ci è stata riconosciuta la facoltà di concedere legittimamente l’asilo diplomatico».
Il flusso della gente in fuga continuava ad aumentare: «Avevo il compito di fare le interviste. Dovevano spiegare chi erano e perchè chiedevano di essere rifugiati. C’erano persone comuni, non tutti erano grandi personalità della politica. Tra loro c’erano anche guardie del corpo di Allende e dirigenti del partito. Alcuni sono rimasti da noi in Ambasciata anche per un anno».
Intorno alla roccaforte italiana l’atmosfera diventava sempre più tesa: «Ne abbiamo accolti molti, circa 600. Sono andato tante volte ad accompagnare all’aeroporto chi partiva perchè aveva ottenuto il permesso». Man mano che passavano i giorni, rievoca Toscano, «il materiale umano è molto cambiato. I primi arrivati erano come lei e me in questo momento, intatti. Dopo iniziammo a vedere persone che erano passate attraverso la macchina repressiva». Un giorno, aggiunge Toscano, «venne abbandonato davanti all’Ambasciata il corpo di una ragazza morta sotto tortura. Un segno di sfregio, una provocazione».
Il documentario di Moretti sottolinea il rapporto che si era instaurato tra il Cile e il nostro Paese: «L’Italia è stato uno dei Paesi che hanno messo in pratica un metodo di protezione delle persone a rischio». Una procedura anomala. «Però, se si è protetti dalle leggi e dalle consuetudini, lo si fa, per salvare, senza eroismi, persone in pericolo. In quei giorni mi era sembrato normale fare quello che stavamo facendo».
Con Allende, dice ancora Toscano, «c’era stata una stretta di mano, forse durante una mostra, non di più. In Cile sono rimasto fino a fine ‘74, quando si era insediato Pinochet». Assistere alla proiezione del documentario di Nanni Moretti sarà un’esperienza forte: «Di colpi di Stato ce ne sono ancora adesso tutti i giorni, sono eventi che possono ripetersi. Per questo vale la pena raccontare questa storia». Per realizzare Santiago, Italia (prodotto da Sacher Film, Le Pacte, Storyboard Media e Rai Cinema) Moretti è andato in Cile e in suo onore è stata organizzata una retrospettiva presso l’Istituto italiano di cultura. Non è la prima volta che Moretti si cimenta con il genere documentario, basta pensare a La cosa, girato nel ‘90 e dedicato al dibattito che accompagnò «la svolta della Bolognina» nelle sezioni del Partito Comunista italiano. Adesso tocca al Cile. Perchè la Storia non si ripeta.

Repubblica 19.9.18
Contro il razzismo basta un gesto di braccia e mani
di Marco Belpoliti


Negli anni Quaranta David Efron conduceva uno studio per mostrare quanto il linguaggio non verbale dipendesse dall’ambiente e non da fattori biologici. Smontando così argomenti cari a una risorgente propaganda
Copertina arancione, titolo: Gesto, razza e cultura. È il primo volume della collana Studi Bompiani, sezione "Campo semiotico", diretta da Umberto Eco. L’autore si chiama David Efron. Il libro è uno studio pioneristico condotto sotto la guida dell’antropologo Franz Boas, pubblicato per la prima volta nel 1941 e ristampato nel 1971. Si tratta del saggio inaugurale d’una disciplina, la cinesica, che studia i gesti umani e più in generale il linguaggio del corpo. Efron, un giovane ricercatore, aveva letto i teorici del razzismo nazista e le loro aberranti tesi sulla razza. Era convinto che la gestualità seguisse precise regole di significazione.
Aveva scoperto il libro di un canonico italiano, Andrea De Jorio, La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano (1832), che partendo dalle immagini dipinte sui vasi greci aveva tracciato la genealogia dei gesti dei napoletani.
Perciò si era messo per strada, sotto i grattacieli di New York a osservare due comunità d’immigrati: gli ebrei arrivati dai ghetti centroeuropei e gli italiani del Sud; quindi a studiare gli appartenenti ai due gruppi che avevano cambiato contesto sociale e culturale, essendo arrivati in America da più tempo.
L’idea dello studio è che i gesti sono appresi dagli ambienti in cui si vive.
Come spiega nella sua introduzione del 1972 Paul Ekman, il giovane antropologo mette a punto un dizionario dei gesti realizzando con l’aiuto di un disegnatore, van Veen, una sorta di stenografia dei movimenti; nel libro ci sono oltre 150 schizzi. Secondo Hans Günrher, antropologo del Terzo Reich, esistono quattro razze distinte: la nordica, l’occidentale, l’orientale e la dinarchica, con conformazioni psicosomatiche specifiche, come la lunghezza del cranio. Altri teorici delle razze parlano di "archetipi spirituali" in numero di quattro: l’Uomo Sferico, gioviale e instabile; l’uomo Parabolico, flemmatico; l’uomo Piramidale, iperteso e teatrale; l’uomo Poligonale, mutevole e caotico. Scandagliando testi ottocenteschi Efron mette in luce come si attribuiscano caratteri gestuali alle razze, che presenterebbero comportamenti umani legati all’aspetto biologico.
Mentre scende per strada a studiare i gesti di ebrei e italiani, va anche in biblioteca e consultare libri del passato sui movimenti espressivi di mani e braccia in vari paesi ed epoche. Scopre politici inglesi che gesticolano ampiamente come gli italiani, e altri, come Disraeli, ebreo inglese, che mostra una assoluta sobrietà gestuale. Una delle più diffuse abitudini tra gli ebrei, sarebbe quella di toccare l’interlocutore mentre si parla. C’è la storiella del "maghid", predicatore ebreo lituano, che a causa di un attacco reumatico non è in grado di parlare chiaro: «Il mio braccio oggi è molto rauco». E la affianca al resoconto dei gesti degli inglesi nei caffè all’inizio del Settecento: nel discutere toccano e torcono i bottoni degli interlocutori fino a strapparli. Guarda le tavole di W. Hogarth, che mostrano la gesticolazione dei londinesi della sua epoca. Le note del libro sono una miniera di osservazioni per una storia dei gesti in Occidente. Solo un cenno: l’invenzione della "sensibilità" nella cultura francese pre-rivoluzionaria che produce gestualità altamente nervose e accentuate in opposizione al costume precedente fondato sui gesti controllati dei cortigiani, come indicava Baldesar Castiglione.
Efron frequenta ebrei d’origine polacca e lituana nell’East Side di Manhattan, e poi italiani provenienti da Napoli e dalla Sicilia a Little Italy. Il raggio dei gesti degli ebrei dei ghetti è più limitato di quello degli italiani del Sud; questi, poi, fanno sfoggio di un grado piuttosto alto di sinergia nell’uso di braccio, avambraccio e mano, come se fosse un unico movimento concertato a partire dalla spalla. Gli ebrei tengono la mano in una posizione angolata rispetto all’avambraccio, mentre l’italiano la mantiene in linea retta con tutto il braccio; anche la velocità dei gesti è diversa: l’italiano fa movimenti più fluidi, l’ebreo va in crescendo o diminuendo, o viceversa. Mentre gli immigrati del Sud Italia toccano più il proprio corpo che quello dell’interlocutore, gli ebrei dei ghetti fanno il contrario. Sono 271 pagine di descrizioni, disegni, e analisi, con considerazioni sul rapporto dei gesti degli oratori romani e quelli dei monaci anglosassoni che utilizzano il "linguaggio dei segni" per comunicare. La quinta parte del libro è dedicata ai gesti degli ebrei e degli italiani assimilati a New York.
Efron mostra come passando da un ambiente culturale e sociale all’altro, i gesti si modificano. Va a osservare gli "assimilati" alla Columbia University e presso il City College. Verifica cosa si perde e cosa si acquisisce. Una conoscente gli manda il disegno di alcuni gesti di un uomo, racconta, e lo sfida a capire a quale cultura e origine appartiene. Grazie alla sua grammatica e sintassi dei gesti è in grado di vedere gli influssi di gruppi etnici e sociali diversi. Va a seguire le lezioni dell’eminente storico dell’arte Meyer Shapiro, ebreo semi-americanizzato che ha gesti poco espressivi — parla tenendo una mano in tasca — e segue la cadenza dei pensieri com’è caratteristico nell’ebreo tradizionale, ma a volte fa sfoggio di gesti molto ampi.
Bellissime le pagine con i gesti degli italiani per esprimere riflessione, angoscia, fatica, sorpresa, costernazione. L’assimilazione porta alla diminuzione dei gesti appresi nel proprio contesto culturale; molti si americanizzano, anche se non sempre i gesti d’origine scompaiono. Si attenuano e somigliano a quelli degli altri americani. Conclusione: alla faccia dei teorici razzisti dell’Ottocento e degli antropologi nazisti il comportamento gestuale è altamente condizionato da fattori di natura socio-psicologica.
Naturalmente Efron lascia aperto il problema su cosa abbia contribuito a modellare i gesti nelle varie culture. Nato nel 1904, il giovane antropologo d’origine argentina, dopo la tesi ha operato nella International Labor Organization per 22 anni, e lavorato con Onu, Unesco e Fao. Andato in pensione è morto nel 1981 a Ginevra. Gesto, razza e cultura non è più ristampato dal 1974. Davanti al risorgente razzismo sarebbe bene ripubblicarlo.