lunedì 17 settembre 2018

Repubblica 15.8.11
Emanuele Severino
“Ecco perché anche morire è un festa”
Il filosofo racconta se stesso in un´autobiografia
Dall´infanzia al dolore per la perdita della moglie. "È una ferita restata aperta, la mia vita è cambiata"
Non temo la morte Ho paura dell´agonia Non voglio finire in ospedale e non voglio nessun accanimento terapeutico
L´idea che la verità possa illuminare l´individuo è un dogma. Mette al riparo, non cura il dolore ma lo circonda
Sono stato un bambino allegro fino alla scomparsa di mio fratello. È stato lui, normalista a Pisa, ad aprirmi alla filosofia
Le mie memorie non so a chi possano interessare. Quando parlo dei ricordi ecco che cominciano a suonare come falsi
di Antonio Gnoli

https://spogli.blogspot.com/2018/09/repubblica-15_17.html

BRESCIA. Ha superato con tranquilla determinazione gli ottant´anni, ha affrontato con disperata calma la scomparsa della moglie, ha scritto un´autobiografia (Il mio ricordo degli eterni, Rizzoli) che è un insieme di ricordi, ma anche un tentativo di offrire al lettore un ritratto personale di Emanuele Severino. Eppure, parlare di sé non gli piace. Non ama mettere al centro il Severino in carne e ossa, quel privatissimo individuo attraversato da passioni ed emozioni. È come se quel mondo segnato da una storia individuale non condividesse nulla con il piano della speculazione. È come se al nostro cospetto si disegnasse una netta separazione tra agire e volere da un lato e pensare dall´altro.
Le dà fastidio parlare della sua vita?
«Non so a chi possa interessare. Si tratta di un´esistenza come tante altre. Fatta di memoria ed esperienze. Ma nel momento in cui io parlo dei miei ricordi, ecco che essi cominciano a suonare falsi».
Non ci sono ricordi veri?
«Ci sono nel senso di ricordi nella cui esistenza io credo. Ma è proprio perché credo nella loro esistenza che essi sono falsi. Sono cioè stati separati dal modo concreto in cui furono vissuti. Io credo di essere stato un bambino, fino a un certo punto della sua vita, allegro. Ma questo credere non è una verità indiscutibile, bansì una fede. Per questo ho avuto molti dubbi sullo scrivere un´autobiografia».
Eppure l´ha fatto. Cosa l´ha spinta?
«Potrei risponderle che è la vanità, il bisogno che il Severino in carne e ossa sente di essere conosciuto anche negli aspetti meno noti. E potrei aggiungere che ci sono peccati ben più gravi di quello di scrivere di sé. Come voler vivere, voler parlare, voler dire la verità».
Tutte cose ben più che lecite.
«Certo, non lo discuto. Ma rientrano tutte in una forma di volontà di potenza. E la volontà non ha nulla a che vedere con la verità».
Ma possiamo distinguere tra una volontà buona e una volontà cattiva.
«La distinzione è infondata. E non posso neppure decidere, come fa certa saggezza orientale, di prendere la distanza dalla volontà. Perché anche il non volere è una forma di volere».
Lei, con un atto di volontà, scrive un´autobiografia e nel farlo si consegna all´errore, al fraintendimento, alla non verità. Non mi pare un gran risultato.
«D´accordo. Ma nessuno di noi può non vivere. E così mi è capitato di compiere quell´errare che è la scrittura e di praticare il genere autobiografico. Io so che dalle mie pagine trapelano vanità e puerilità, so di aver preferito alcuni ricordi ad altri, e di aver usato un linguaggio accattivante, quando avrei dovuto essere duro ed essenziale. Nondimeno l´ho fatto. Perché una cosa è vivere credendo che la vita non sia peccato - nel senso di errore, di non verità – altro è vivere sapendo che tutto ciò che si fa, anche il gesto più amoroso, appartiene alla follia essenziale cui l´uomo è legato».
Insomma racconta se stesso ma, al contempo, mette in guardia dal voler dare un particolare significato alla sua vita?
«Metto in guardia dal darle un significato di verità. Ovviamente anche il filosofo vive. Come tutti gli altri. Ma ciò che chiamo filosofia è lo sguardo sulla verità che è presente in ogni uomo. Questa presenza non è testimoniata dal linguaggio, che preferisce parlare del rapporto tra me e lei, o di ciò che chiamiamo vita».
A proposito del linguaggio lei non ha mancato di essere autocritico.
«Accadde in relazione al mio primo libretto: La coscienza, pensieri per un antifilosofia. Era scritto con la melassa, in uno stile che cedeva alla retorica. Mi fa rabbrividire il pensarci ancora. Ed è il rischio che posso aver corso con l´autobiografia. Il linguaggio deve essere senza fronzoli».
Parlando di lei, accennava al fatto di essere stato un bambino allegro.
«Lo sono stato fino alla tragica scomparsa di mio fratello. Fu lui ad aprirmi alla filosofia. Lui – normalista a Pisa durante la guerra – a parlarmi con entusiasmo di Gentile. La sua morte mi gettò nella costernazione. La stessa cosa, ma forse più dolorosa, l´ho rivissuta con la morte di mia moglie. Con lei siamo stati insieme per più di sessant´anni. Ho il rimorso di non averle forse dato tutto quello che avrei potuto».
Eravate una coppia solida. Viaggiavate spesso assieme.
«È vero. Per me era inconcepibile muovermi senza di lei e fino all´ultimo ci siamo spostati all´unisono. Mi torna alla mente il nostro ultimo viaggio. A Cuba. Ero stato invitato e accolto con tutti gli onori. Finita la parte professionale, ci misero a disposizione per una vacanza una stanza in uno degli alberghi più belli di Varadero. Ricordo che durante una notte si alzò un vento freddo – che lì chiamano il "fronte freddo" - che investì con furia la vetrata. Il suono di quel vento era simile all´ululato dei lupi. Esterina stava già male. Ebbe paura di quell´ululato. Mi prese la mano nel letto e me la strinse. E io ebbi il presagio che la sua vita stava finendo».
In che modo ha affrontato il dolore che ha provato quando è scomparsa?
«Come lo affronto, direi. Perché è una ferita restata completamente aperta. La mia vita è cambiata. Per certi versi è diventata intollerabile».
L´aiuta la filosofia?
«È un dogma l´idea che la verità possa illuminare l´individuo. Non sono io che capisco la verità, ma è la verità che capisce se stessa. Eppure so che la filosofia ha messo al riparo questo dolore. Non lo ha curato, ma circondato».
Mettersi al riparo è quanto cerchiamo nei momenti di crisi.
«È una delle esperienze fondamentali della storia dell´uomo. Noi veniamo al mondo e ci imbattiamo nel dolore e nella morte. Tutta la grande cultura è nata come difesa da questi eventi terribili. Prima con il mito, poi con la filosofia, infine con la scienza e la tecnica si è cercato il riparo. L´uomo, credendosi effimero, ha bisogno di protezione. Ma ciò che si cerca nel riparo è quanto di più inautentico si possa ottenere».
È anche una risposta alla paura della morte.
«Sarà parte dell´argomento che affronto nel prossimo e ultimo libro, col quale concludo la mia lunga ricerca iniziata sessant´anni fa. Morire è essere nella possibilità estrema, nel tramonto del contrasto tra verità e vita. Solo a quel punto finirà ogni dolore e ogni contraddizione. Questa idea non ha nulla a che vedere con la concezione cristiana della resurrezione».
Sembra quasi che l´attenda con gioia.
«Non temo la morte. Essa è una gran festa. Semmai ho paura dell´agonia. Il morente può esibire qualcosa di osceno. Per questo, quando sarà il momento, non vorrò una morte pubblica, in un ospedale. Ma una morte al riparo dagli occhi estranei e soprattutto priva di qualunque accanimento terapeutico. Questo per me significa morire con dignità».
Perché, contrariamente a ciò che si pensa, la morte dovrebbe essere una gran festa?
«Perché siamo destinati a una Gioia infinitamente più intensa di quella che le religioni e le sapienze di questo mondo promettono. I nostri morti ci aspettano. Esterina mi attende. Come una stella fissa del cielo».
Nei riguardi di sua moglie lei ha detto di aver provato rimorso. Cos´è che si rimprovera?
«Nel confessare il rimorso, la prima preoccupazione è stata di non voler passare per il marito perfetto, l´uomo pieno di virtù coniugali. Sono certo che avrei potuto essere migliore di come sono stato. Ma non so fino a che punto sarebbe dispiaciuto a mia moglie se io fossi stato una persona diversa».
Ma lei avrebbe voluto essere migliore?
«Forse più presente. Aver dedicato il proprio pensiero alla filosofia ha significato sacrificare in parte la vita familiare. Mio figlio, che fa lo scultore e che legge e discute i miei libri, ha criticato il mio modo di essere padre. E così anche mia moglie che pure non ha mai smesso di aiutarmi, di farmi sentire migliore di quello che probabilmente sono».
La rattrista non esserlo stato?
«Sì, anche se esito nel confessarlo. Quando sono in pubblico evito di lasciar trapelare il mio lato malinconico. Penso che sia sempre meglio non coinvolgere la gente con dei cupi pensieri».
Se ne vergogna?
«No, tanto è vero che gliene parlo. Diciamo che tendo a non voler essere compatito. Meglio forti nello stato d´animo piuttosto che patetici».