La Stampa TuttoLibri 8.9.18
Cara Russia, sei grande e ti amo perché sui filobus puoi essere triste
Dagli
stagni di Bulgakov alla sala fumatori della Biblioteca Lenin di Mosca
lo slavista Paolo Nori “viaggia” in un mondo di letture, pessimi odori,
eroi bislacchi
di Cesare Martinetti
Si fa presto
a dire Russia, poi uno ci va davvero e finisce in un appartamento al
tredicesimo piano (su 17) di un condomino alla sprofondo della periferia
di Mosca (metrò Babushinskaja) e la sera si trova da solo sul
pianerottolo a fumare una sigaretta (bulgara) perché in casa non glielo
permettono. Domina la puzza di pattumiera (e altro…), lo squallore è
totale e la desolazione asfissiante, quando dall’ascensore esce un
omino. È grigio, il suo cappotto è grigio, il suo cappello è grigio, la
sua faccia è grigia e anche quel po’ di neve che gli è rimasta attaccata
è grigia. Apre la porta del suo appartamento e dall’interno si sente
una vocina tenera, squillante, amorevole, felice che esclama: «Pàpa!»
(attenti: l’accento va sulla prima «a»). E tutto quel grigio si
trasforma di colpo in qualcos’altro: la porta di quell’appartamento è il
diaframma tra due mondi, quasi la divisione simbolica tra spirito e
materia. È questo, forse, il mistero della Russia?
Perlomeno così è
sembrato a Paolo Nori quando c’è andato la prima volta. Era l’aprile
del 1991, l’Urss stava tirando gli ultimi affannosi respiri, pochi mesi
dopo la bandiera rossa sarebbe stata ammainata definitivamente dal
cupolone del Cremlino. E il posto gli è apparso «stupefacente». Era la
scoperta della materia russa, dopo averne respirato il soffio
letterario, anche grazie a Giorgio Manganelli che in un pezzo intitolato
Leggere i russi aveva confessato la sua dipendenza da Dostoevskij,
Gogol, Tolstoj, Cechov: «Di nuovo sono stato risucchiato… mi è arrivato
alle narici un odore aspro di campagna, di bettole, di sobborghi torvi e
tristi, di tenerissimi fiori appena sbocciati…»
È con questo
soffio nel cuore e nella testa che Paolo Nori si accinge a compiere la
missione che così aveva preannunciato: «Vorrei scrivere un libro sulla
Russia, e la prima cosa che vorrei dire è che la Russia, nella mia
testa, era la Russia prima ancora che fosse la Russia… Non era il
paradiso terreste, e mi sarebbe piaciuto proprio per via che non era il
paradiso terrestre, era la Russia, e quando avevo letto una cosa di
Turgenev, che i russi gli piacevano soprattutto per la pessima opinione
che avevano di se stessi, io mi ricordo che avevo pensato: Anche a me».
Questo
libro ora è qui, si intitola La Grande Russia portatile ed è dunque
innanzitutto una ricognizione dentro se stessi con la scusa della Russia
o attraverso di essa: «È il posto dove sono diventato grande». Ha
cominciato a studiare il russo che aveva 25 anni e non l’ha più
lasciato, ha tradotto anche dei classici, ha scoperto che «leggere i
russi vuol dire entrare in uno spazio diverso, attraversare un campo che
lascia dei segni che uno si può fare solo lì».
Certo, per chi è
come Nori nato e cresciuto a Parma, nell’Emilia rossa tra gli anni
60-70, quel posto aveva una famigliarità innata, era una specie di
rumore di fondo («…e noi faremo come la Russia…»), un mito che resisteva
alle verifiche e che anche quando uno poi ci andava davvero - come fu
il caso dello chansonnier Dino Sarti - che messo alle strette al ritorno
su com’era davvero la Russia, riuscì soltanto a rispondere: «È grande, è
grande…»
Così grande da contenere tutto, l’orrore e il sublime.
Nori ne dà conto con sapienza e ironia, la ricchezza di una
perlustrazione profonda, la vivezza di incontri mai scontati, con Viktor
Erofeev per esempio che gli chiede stupito di questa sua strana
«nostalgia» al passato. L’ostinazione amorevole nel rivivere sul luogo
le emozioni letterarie. Gli inevitabili stagni del Patriarca di Bulgakov
e la sala fumatori della biblioteca Lenin di Mosca, la Piazza del Fieno
di Dostoevskij, in quella che oggi è la stupefacente Sanpietroburgo:
«Su dei filobus di Leningrado ho cullato la mia solitudine con una
tenerezza alla quale solo in Russia, ho avuto accesso, e gli incubi che
ho fatto in Russia son stati più incubi che in qualsiasi altra parte del
mondo in cui io abbia dormito, e bere, in Russia, per me è stato più
bere di quel che è stato bere in Italia».
Memoir, reportage, guida
letteraria, persino turistica, a patto di saper resistere ai cattivi
odori, avere almeno un po’ di predisposizione per quel mito, aver letto
qualche pagina di Oblomov e almeno una poesia di Chlebnikov: «Poco, mi
serve. Una crosta di pane, un ditale di latte, e questo cielo, e queste
nuvole». Si finisce inevitabilmente con Stalin, la telefonata con
Pasternak e le sue improbabili ricostruzioni. Ma - va da sè - non è la
verità storica, quella che conta, piuttosto il dipanarsi del grottesco,
russo, dove vince lo scrittore sul traduttore, affetto da inguaribile
dipendenza per Gogol & C.