La Stampa TuttoLibri 29.9.18
Egiziani smettiamo di ribellarci, non siamo fatti per la rivoluzione
Il
fallimento della primavera araba visto da un palazzo affacciato su
piazza Tahrir: tra amori contrastati, manifestanti torturati e uccisi,
donne che rifiutano il velo
di Gabriele Romagnoli
Quando
la censura impedisce il racconto della realtà attraverso i mezzi di
comunicazione, tradizionali o da poco creati, non resta che la
letteratura. Esistono sistemi di potere prossimi all’analfabetismo di
ritorno, brutali nell’espressione quanto nel controllo. La forma del
romanzo ne elude la sorveglianza. D’altronde, penseranno, che male può
fare se riguarda un Paese come l’Egitto dove un terzo dei maschi e oltre
la metà delle donne non sa leggere? Eppure gli egiziani leggono,
secondo un rapporto del 2013 due ore a settimana più degli italiani. Ma a
farlo è una minoranza, il resto si informa soltanto attraverso canali
televisivi saldamente controllati da un governo eletto tramite un
plebiscito più che sospetto. Non a caso, sei anni fa il dottor Ala
Al-Aswani propose di limitare il diritto di voto a chi era in grado di
leggere e scrivere. Sconfitto, è tornato alla narrativa per rivolgersi a
chi, in patria e fuori, vuole sapere e capire.
Era il 2002 quando
pubblicò Palazzo Yacoubian, divenuto in breve il libro in lingua araba
più venduto dopo il Corano. Al Cairo governava Mubarak e le primavere
arabe erano, più che lontane, inimmaginabili. Nel microcosmo
dell’edificio narrato da Aswani si muovevano le maschere tragicomiche
della società egiziana, dominata dal Grande Uomo. Per evitare la
censura, che agisce come un computer (cerca parola), era bastato non
nominare il presidente.
Sedici anni dopo, molte cose sono
accadute, quasi nulla è cambiato. Ala Al-Aswani , seppur alternandola
con una docenza a New York dove si sente più sicuro, esercita ancora la
professione di dentista in Egitto. Mi disse che non l’avrebbe mai
abbandonata per due motivi: dà maggiori garanzie economiche della
letteratura e fornisce spunti perché «la gente è autentica quando
sperimenta il dolore». Per una ritorsione della storia è toccato a lui
sperimentarlo, e alla sua gente. Di qui la materia per Sono corso verso
il Nilo. Del primo libro riprende la forma, quella di un romanzo corale
intorno a un microcosmo, in questo caso piazza Tahrir, su cui le vite si
affacciano, verso cui convergono e da cui dipartono dopo aver trovato
l’amore o la morte, la speranza o la disillusione.
Se il
giornalista americano Thanassis Cambanis in Once upon a revolution,
C’era una volta la rivoluzione, era stato il più lucido a spiegare il
fallimento dell’insurrezione, perché osservava la foresta da fuori e
dall’alto, Aswani è il più spietato e definitivo nel raccontarla, perché
lo fa dall’interno, senza sconti neppure per se stesso. Compone un
mosaico di storie e non importa sapere quali e quanto aderiscano alla
realtà: se tutte le vicende sono verosimili, il romanzo è vero. Procede
per capitoli alternati, con la tecnica del cliffhanger, interrompendoli
sul picco. C’è qualcosa di già visto, come la vicenda degli innamorati
impossibili, lei figlia del capo dei Servizi, lui di un umile autista. E
qualcosa di più sorprendente, come la passione, poi amore vero, che
lega un gentiluomo copto, attore emarginato, e la sua domestica
musulmana. Ci sono verbali di testimonianza delle torture subite e ci
sono gli interessi economici italiani così diffusi e protetti in quella
terra. C’è Mubarak, che essendo caduto in disgrazia può essere infine
nominato. E ci sono quelli che, in quel remoto 2011, si preparavano a
succedergli.
E c’è, più di ogni altra cosa, il senso di un
fallimento incombente. Aswani fa dire a uno dei protagonisti che «gli
piacerebbe scrivere un articolo in cui dire: Cari egiziani, prima di
mandare i vostri ragazzi a morire inutilmente leggetevi la storia del
vostro Paese... non siete fatti per la rivoluzione né lei è fatta per
voi... Ogni volta che vi siete ribellati contro l’autorità avete fallito
e le condizioni di vita sono peggiorate».
Pagina dopo pagina si
affonda nel ventre dell’incoscienza popolare che è la vera causa della
disfatta. Ipocrisia, corruzione, ignavia non appartengono soltanto al
potere, sono le armi del suicidio di massa chiamato sottomissione, in
forma religiosa e laica.
Straziante la lettera d’addio di una
giovane insegnante che, dopo essere stata umiliata, ripara all’estero:
«Questo popolo, per la cui libertà e dignità sono morti i migliori di
noi, non sa che farsene di libertà e dignità...alla maggior parte degli
egiziani sta bene la repressione, accettano la corruzione e ne sono
diventati parte integrante».
Alla fine, posata la cenere, rappreso
il sangue che cosa resta? Un uomo del popolo, di quel popolo
apparentemente prostrato, che non si vende, conserva la memoria e si fa
giustizia. E da lui può partire la rivincita.