La Stampa TuttoLibri 22.9.18
Kelsen, se la democrazia soffre bisogna aggiustare il Parlamento
di Massimiliano Panarari
Rileggere
gli avvenimenti della Repubblica di Weimar si rivela sempre utile. E
riflettere su quello spettro (e «zombie») politico travolto dal
nazionalsocialismo risulta ancor più opportuno in questa nostra «era
della sfiducia» (come l’ha chiamata Pierre Rosanvallon), dove l’egemonia
politica è stata (ri)conquistata da populismi e sovranismi. E anche se
la storia non si ripete mai secondo le stesse modalità (attualmente non è
in corso alcun «biennio rosso», e a prevalere da subito sono state le
pulsioni e le tendenze di destra radicale), alcuni parallelismi con quel
contesto appaiono inoppugnabili.
L’opportunità per ragionare
sulla fragilità sistemica di quell’esperimento di democrazia liberale
seguito alla disfatta dell’impero guglielmino è offerta dalla
ripubblicazione di una coppia di scritti di Hans Kelsen: l’altra
interpretazione di riferimento della crisi weimariana, contrapposta alla
«versione di Carl Schmitt», pilastro della cultura antiliberale e
autoritaria del Secolo breve, e intellettuale di spicco del Terzo Reich.
Un dualismo essenziale della teoria giuridica e politica del Novecento.
Nino
Aragno porta in libreria Due saggi sulla democrazia in difficoltà, uno
del 1920 (Intorno alla natura e al valore della democrazia) e uno del
‘25 (Il problema del parlamentarismo), curati e introdotti da un testo
brillante (e attualizzante) di Mario G. Losano. Due scritti che
apparvero in italiano per la prima volta sul finire degli anni Venti,
«bizzarramente» su iniziativa della Scuola di scienze corporative
dell’Università di Pisa, che gravitava nell’orbita del fascismo
movimentista di Giuseppe Bottai e puntava a confutare uno dei massimi
esponenti europei del liberalismo e dell’orientamento antitetico al
corporativismo.
Kelsen fu il campione del normativismo, del
giuspositivismo e della dottrina pura del diritto, che miravano a
contrapporre al giusnaturalismo e al marxismo fondati sulla costante
produzione di giudizi di valore l’avalutatività weberiana, perché – come
indicava qui – «nelle cose politiche bisogna abituarsi a distinguere
tra realtà e ideologia». Tuttavia, la centralità nell’elaborazione
kelseniana del piano della formalizzazione della legge costituiva anche
un tentativo di fornire una risposta alla crisi della civiltà europea
stando nell’alveo del Progetto moderno e dell’Illuminismo (e
neokantismo). Anche per questo il grande giurista, laureato con una
dissertazione sulla dottrina politica di Dante Alighieri, fu giudice
costituzionale nell’Austria che usciva dalla dissoluzione dell’impero
asburgico; e, soprattutto, fu uno dei padri costituenti e collaborò
attivamente con il cancelliere Karl Renner – uno dei principali teorici
dell’austromarxismo – nell’edificazione della nuova Repubblica che verrà
poi abbattuta dall’austrofascismo.
In questi due saggi troviamo
una tipica analisi kelseniana, orientata verso la definizione teorica,
della nozione di regime democratico. La democrazia scaturisce dalle
rivoluzioni borghesi del 1789 e del 1848, e trova le sue radici nella
tensione tra le concezioni (in negativo) di libertà e eguaglianza. Con
tutta una serie di ambiguità e cortocircuiti derivanti proprio dal suo
processo di formazione storico, come riguardo il principio di divisione
dei poteri, nel quale compariva la volontà di ripristinare un primato
del monarca (costretto ad accettare il costituzionalismo) su quel potere
legislativo mediante cui si esprimeva in via esclusiva la volontà
popolare – e che si è infatti frequentemente ritrovato scavalcato da
quello esecutivo (tradizione ritornata prepotentemente in voga). Per
Kelsen la democrazia rappresentativa coincideva tout court con il
parlamentarismo (e con la sua dimensione formale e procedurale) che,
negli anni Venti, dopo il primo conflitto mondiale, si trovava a dover
affrontare nuove spinte verso l’autocrazia: il bolscevismo e, di lì, a
poco il totalitarismo fascista. Ideologie illiberali che aborrivano
quella che per lo studioso austriaco era «la premessa filosofica del
pensiero democratico», vale a dire il «relativismo dei valori» in virtù
del quale diventa possibile la sottoscrizione dei compromessi che
consentono il funzionamento di questa forma di governo (una categoria
che fa riecheggiare, nuovamente, un concetto weberiano, quello del
«politeismo dei valori»).
La divisione del lavoro e la complessità
delle società moderne non rendono difatti possibile la democrazia
diretta, da cui la «grande finzione» (indispensabile) della democrazia
rappresentativa, che richiedeva però – come Kelsen ben percepiva di
fronte al montare dei populismi violenti della sua epoca – aggiustamenti
e correttivi. A partire, come scriveva, dal superamento
dell’anacronistico istituto dell’immunità parlamentare (superfluo in
assenza di un monarca minaccioso) e dall’introduzione, in talune
occasioni, del referendum per ridare la parola direttamente al popolo.