Il capitalismo: business is business
Il Sole 22.9.18
Dopo i Bitcoin la speculazione ha scommesso sulla marijuana
È il momento delle società che hanno a che fare con il business legale della marijuana
di Vito Lops
I titoli del settore - così come fondi hedge specializzati come il Tribeca global natural resources che solo lo scorso anno ha guadagnato il 153%, migliore al mondo nella classifica stilata dalla società di consulenza Prequin - sono in rialzo da diversi mesi. Ma è da questa estate che è partita la vera accelerazione, talmente forte che in molti già riconoscono i germi di una bolla finanziaria. La notizia “scatenante” è stata la decisione del Canada di legalizzare da giugno l’uso della marijuana a scopo ricreativo, seguendo la scelta analoga della California di gennaio (dove l’uso terapeutico è stato sdoganato nel 1996). A quel punto è subentrata la speculazione e i multipli delle società del settore hanno iniziato a volare, complice l’ingresso di investitori rodati. Il fondo di private equity Privateer Holdings - che tra gli investitori annovera anche il magnate della Silicon Valley Peter Thiel - possiede il 76% di Tilray, la società canadese esempio del boom (e probabilmente della bolla) del settore. Quotatasi a luglio a 17 dollari, l’azienda mercoledì ne valeva oltre 300, per poi scendere ieri a 130 (a testimonianza anche dell’elevata volatilità).
Ad aprile 2017 è sbarcato sui mercati anche il primo Etf sulla marijuana, il “Medical Marijuana Life Sciences”. Da allora ha guadagnato il 124%, di cui una buona parte (+70%) è stata ottenuta nell’ultimo mese.
I fondi stanno quindi tessendo la tela dei capitali sull’industria della cannabis che potrebbe generare un giro d’affari annuo di 57 miliardi entro il 2027, ipotizzando che altri Paesi seguano l’esempio del Canada. Ma non bisogna dimenticare che talvolta tra le valutazioni e la realtà c’è di mezzo l’irrazionalità. Tanto per restare ancorati ai bilanci, nel 2018 la Tilray ha fatturato 42 milioni mentre in Borsa è arrivata a valere 20 miliardi. Questo percorso può evocare quanto accaduto nell’ultimo anno e mezzo sull’universo parallelo delle criptovalute. Dopo un’accelerazione devastante che ha portato il valore del Bitcoin e dei suoi “fratelli” fino a 835 miliardi di dollari, ora questo universo ne vale 220, praticamente un quarto.
Così come molti piccoli investitori che sono entrati nel momento sbagliati sulle cripto - tra Natale e gennaio - oggi stanno perdendo oltre il 60%, non è da escludere che ai valori attuali gli asset finanziari legati alla marjiuana possano riservare brutte sorprese. Ne è convinta anche la Sec, l’autorità che regola il mercato Usa, che ha lanciato l’allarme sulle quotazioni, che potrebbero risultare “drogate”, non escludendo inoltre il pericolo di «truffe per gli investitori» e di «manipolazione del mercato».
Il Sole 22.9.18
La cannabis sbarca nelle Borse europee
Società quotate.
Le prime 50 società a livello globale valgono in Borsa 65 miliardi di dollari con soli 2,4 miliardi di ricavi complessiviIn un anno il settore è in rialzo del 296%
di Andrea Franceschi
Le valutazioni. Le prime 50 società a livello globale valgono in Borsa 65 miliardi di dollari con soli 2,4 miliardi di ricavi complessivi
Business del futuro o bolla speculativa? Questa è la domanda che tanti investitori si fanno a fronte delle performance da record messe a segno dalle aziende che operano nel settore della cannabis legale. Negli ultimi 12 mesi i 50 maggiori titoli del comparto, quotati sulle piazze di Canada e Stati Uniti, hanno messo a segno uno spettacolare rialzo del 296% in Borsa. Una fiammata che ha portato la loro capitalizzazione oltre i 65 miliardi di dollari. Numeri notevoli considerando che, messe insieme, queste aziende fatturano appena 2,4 miliardi di dollari. Il mercato per ora ignora i campanelli di allarme dei multipli di Borsa e continua a scommetterci. Anche sulla scorta di notizie, come quella uscita nei giorni scorsi dell’intesa tra Coca Cola e la canadese Aurora per studiare una bevanda a base di Cbd (il principio attivo non psicoattivo della pianta), che avvalorano la tesi della svolta “mainstream” della foglia a cinque punte. Ora anche l’Europa di prepara a farsi contagiare dalla febbre delle “cannastocks” con il debutto in Borsa di StenoCare, una piccola azienda danese che quest’anno ha ottenuto il permesso dal ministero della sanità locale per coltivare o importare cannabis per produrre olio di Cbd da distribuire nelle farmacie. È un’operazione di piccola entità che tuttavia potrebbe essere indicativa della sensibilità del mercato europeo.
La crescente evidenza scientifica dell’efficacia dei principi attivi della pianta nella cura delle più varie patologie ha spinto in questi anni i governi di molti Paesi a rimuovere i divieti che per anni ne hanno ostacolato l’impiego terapeutico. Ciò ha creato il terreno per lo sviluppo dell’industria anche perché, di pari passo, c’è stato un allentamento della legislazione per quanto riguarda l’uso «ricreativo» della pianta. Negli Usa nove stati e il distretto di Washington hanno legalizzato e dal prossimo mese il Canada si prepara a fare altrettanto. Notizia, quest’ultima, che ha contribuito molto al recente rally delle «cannastocks» in Borsa.
L’Europa non è rimasta immune dal fenomeno. «Negli ultimi sei mesi l’industria è cresciuta più che negli ultimi cinque anni» si legge nell’ultimo rapporto di Prohibition Partners in cui si stima che una regolamentazione del settore potrebbe generare entro i prossimi 10 anni un mercato da 115 miliardi di euro. L’Italia è stata tra gli apripista sul fronte della cannabis terapeutica ma ci sono ancora molti freni allo sviluppo del mercato. Da una parte la legislazione varia molto da regione a regione. Dall’altra non si riesce a far fronte alla crescente domanda nè con la produzione in regime di monopolio dello stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze nè con le importazioni dall’Olanda. «Il rischio di questa situazione - spiega Pietro Paolo Crocetta, presidente di Crystal Hemp, azienda che si occupa di estrazione di principi attivi derivati dalla Cannabis - è che i pazienti si rivolgano ai tanti siti che vendono prodotti non certificati e di dubbia sicurezza».
Il Sole 22.9.18
La grande impresa tedesca in campo contro il razzismo
Lunedì un manifesto di industria e finanza a favore di diversità e tolleranza
di Isabella Bufacchi
FRANCOFORTE «Commerzbank è un’azienda cosmopolita, accompagniamo i nostri clienti in 150 Paesi. Respingiamo fermamente la xenofobia e l’estremismo, crediamo nella condivisione e nella tolleranza e continueremo a batterci per questi valore in futuro». Interpellato dal Sole 24 Ore sulla posizione della banca nei confronti di episodi crescenti di razzismo in Germania, il portavoce del secondo istituto di credito tedesco scandisce con enfasi il messaggio che in questi giorni tutte le principali aziende tedesche si stanno impegnando a rilanciare con vigore: no al razzismo e all’intolleranza, sì alla diversità. Deutsche Bank, Allianz, EY e Commerz per la finanza, Daimler, Bmw, Mini, VW per l’auto e poi ancora Siemens, Metro, Adidas, Basf, DB: chi su Facebook, chi Twitter, chi su Instagram.
Lunedì l’associazione tedesca della Carta delle pari opportunità e uguaglianza sul lavoro, “Charta der Vielfalt”, pubblicherà un comunicato congiunto delle 24 grandi aziende tedesche per prendere una posizione forte e comune contro razzismo e xenofobia. «Vogliamo che il nostro messaggio arrivi forte e chiaro, più forte dei manifestanti estremisti di Chemnitz», sottolineano i rappresentanti di Charta, che dallo scorso giovedì ha creato l’hashtag #Flagge für Vielfalt per le aziende che vogliono sostenere pubblicamente la diversità. Anche la piattaforma web Wir-zusammen, fondata nel 2016 da 36 grandi imprese tedesche per promuovere l’inserimento dei rifugiati, conferma l’anti-razzismo: in poco più di due anni ha aiutato 230 imprese tedesche, di cui 19 quotate sul Dax, a dare posti di lavoro a 33.500 rifugiati, e altri 22mila sono ora assistiti.
«Non è mai accaduto prima di ora, in maniera così eclatante, che tutto l’establishment industriale e finanziario tedesco prendesse una posizione pubblica così forte e unita contro il razzismo», ha commentato un banchiere tedesco, ricordando che nell’ultima grande ondata di razzismo risalente al 1993 il mezzo dirompente di comunicazione dei social networks non esisteva. E come gli estremisti di destra hanno usato con grande efficacia il passa-parola sui social networks in tutta Germania per radunarsi copiosi a Chemnitz, così il mondo dell’industria e della finanza alza ora la sua voce sui social. Per ora sono i grandi marchi a fare notizia. Ma quel che farà veramente la differenza, a livello sociale oltrechè economico, sarà l’adesione delle piccole e medie imprese a iniziative comuni contro il razzismo. Sono in migliaia le aziende tedesche piccole e medie che hanno già aderito alla Charta per la diversità.
È indubbio che comunque la Germania conti ora come in passato sull’immigrazione per contribuire ad alimentare e potenziare il motore della crescita. Sebbene il 90% circa dei lavoratori in Germania abbia il passaporto tedesco, stando a statistiche riportate da Handelsblatt la manodopera straniera ha pesato per il 52% sui 750mila nuovi assunti tra il maggio 2017 e il maggio 2018: di questi, uno su cinque proviene dall’Europa dell’Est, 7% da Ucraina e Russia, 13% i richiedenti asilo da Siria ed Eritrea e solo il 3% da Italia, Spagna e Portogallo. E in aggiunta, guardando avanti, la Germania conta sui non-residenti per trovare la domanda per 430mila posti di lavoro in offerta per manodopera con bassa specializzazione o non qualificata, rifiutati dai tedeschi .
Non basta però l’impegno del mondo industriale, imprenditoriale e finanziario in Germania per contrastare e contenere questa nuova ondata di estremismo di destra che si sta caratterizzando sempre più in una lotta contro gli immigrati, con derive razziste e persino naziste. È alla classe politica e alle istituzioni democratiche, che la Germania tollerante guarda ora. E quel che vede, non può piacerle. Ieri l’ultimo sondaggio sul gradimento degli elettori ha per la prima volta dal 1997, dall’inizio delle rilevazioni, registrato l’unione CDU-CSU sotto il 30%, al 28%. (-2%), AfD (Alternativa per la Germania) è il secondo partito con il 18% (+1%) dopo aver sorpassato l’Spd in calo al 17% (-1%).
La Germania deve ora andare alla ricerca di una nuova unificazione, economica, sociale e morale. È sempre più evidente che l’ ex-Germania dell’Est non abbia fatto lo stesso percorso, il “mai più” della Germania dell’Ovest, sul nazismo e sull’Olocausto. Ma la Germania è spaccata anche tra le regioni ricche al Sud e i Länder più poveri al Nord. E la disuguaglianza, sia pur in calo come rileva l’Ifo, c’è anche in un Paese come la Germania che ha il più grande ciclo economico di crescita dal 1990 e che ha toccato piena occupazione. Esiste poi un netto divario tra le grandi città e le zone rurali. C’è il disagio dato dalla crescita dei posti di lavoro a tempo determinato e part-time. E grava su tutti l’incertezza data dall’invecchiamento della popolazione. Problemi che la GroKo guidata da una indebolita e stanca Angela Merkel potrebbe affrontare attingendo a 100 miliardi di spesa pubblica in più, senza far deragliare i conti pubblici.
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