domenica 23 settembre 2018

Il Sole Domenica 23.9.18
Donne che fanno paura
Platone. Le riflessioni non arrabbiate ma ponderate di Adriana Caravero su eros, figure femminili e sul parto, dove il filosofo riserva agli uomini il ruolo di «ostetrici dello spirito»
di Maria Bettetini


Guerriere o sacerdotesse, le donne di Platone fanno un po’ paura. Come tutte le donne raccontate dai testi greci che a noi sono giunti, pensiamo a Circe, a Medea, alla prima fra tutte, quella Pandora che arrivò in un mondo abitato solo da maschi per scoperchiare il vaso dei mali, come racconta Esiodo. Una donna, una filosofa, ha studiato per una vita questi testi, ingaggiando con loro una lotta in punta di filologia. Ora, per onorarne l’impegno, Olivia Guaraldo ha raccolto dieci brevi saggi di Adriana Cavarero su Platone, editi e no. Si va da un Platone e la democrazia, del 1973, fino al 2017 con Per un’archeologia della post-verità.
Sono scritti «femministi», per usare un aggettivo che ha un suono obsoleto, ma che ritorna nelle pagine del volume? Preferisco pensare che siano riflessioni, non arrabbiate ma ponderate, su pagine milioni di volte indagate, questa volta studiate da un altro punto di vista. Che non è quello, non insensato ma troppo sentito, del linguaggio astratto del maschio da contrapporre alla sensibilità e alla passione della femmina. È quello piuttosto di chi vuole, semplicemente, studiare.
Così sorge quel confronto tra Omero e Platone che snida una sorta di invidia del filosofo per il poeta, capace di raccontare la fragilità della vita umana e di consegnarla alla memoria. I versi, ispirati dalla figura femminile della Musa, non hanno incertezze e sono caratterizzati da bellezza e armonia, mentre il parlare del filosofo – se pur alto – si deve limitare a indicare la bellezza, a invitare a perseguirla come unica vera fonte della felicità, secondo il tema greco dell’identità di bello e bene, o almeno del primo che proprio Platone nel Filebo definisce «vestibolo del bene». Ma non è la bellezza.
Inevitabile a questo punto la lettura delle pagine di Cavarero sul Simposio e sulla figura di Diotima, da cui ha preso nome proprio il gruppo di pensatrici sorto a Verona intorno alla filosofa, nonché la loro rivista. Diotima è la donna che ha rivelato a Socrate i segreti dell’amore, di quell’eros che solo inizialmente e parzialmente è amore corporeo. Il discorso è reso particolarmente interessante dalle opposte posizioni dei due «combattenti»: Platone per bocca di Socrate che riporta il discorso di Diotima non fa altro che strappare l’eros al corpo per condurlo sempre più lontano, al distacco da ogni materialità, all’amore del bello in sé. Cavarero intende invece la corporeità come unico possibile luogo di abitazione del soggetto e quindi delle sue passioni e azioni, dell’amare e dell’essere amato.
Come negare questa forza dell’antico principio di individuazione? Qui si scopre anche la profonda contraddizione della filosofia platonica in tutte le sue forme, la sublimazione del logos che però rifiutando ogni legame con la materia si perde in una sorta di collettività nebulosa, che – nota Cavarero – se garantisce immortalità all’umano, la nega al singolo uomo. Diotima di Mantinea dunque: sacerdotessa, straniera, donna.
Tre gradi di lontananza dal filosofo, da Socrate, a cui si aggiungono i due del discorso riportato, perché Socrate racconta l’incontro con Diotima, ed è a sua volta raccontato da Platone. Non finisce qui: per dire quanto sia difficile parlare di eros, tutto il dialogo che racconta del banchetto serale è narrato come una narrazione di Apollodoro che riporta ciò che gli ha detto Aristodemo, che fu presente al convivio, avvenuto però tre anni prima. Ancora tre gradi di distanza.
Ma torniamo a Cavarero: la sacerdotessa di Mantinea (cittadina vicinissima ad Atene, ma per gli ateniesi è comunque terra straniera e inferiore rispetto alla capitale) è uccisa dallo stesso discorso che fa. È oggetto di matricidio, perché – donna – propone la filosofia maschile di Platone, che imita gravidanza e parto, ma li rende opere dello spirito. Il cuore del discorso riportato da Socrate è infatti quel riuscire a generare bellezza, lasciandosi alle spalle successivamente il corpo bello per cui si è sentita attrazione, poi tutti i corpi belli, poi le bellezze generate dalla mente (i versi di Omero e le leggi di Solone, per esempio), fino a giungere alla visione del bello in sé.
Questa sorta di parto maschile è tema ricorrente di Platone, che presenta un Socrate ostetrico dello spirito, così come la madre lo era stata dei corpi. Alle donne la mera generazione materiale, necessaria alla sopravvivenza della specie, a una fittizia immortalità del singolo che dopo sé lascia un altro sé nel figlio. Agli uomini invece la generazione che rende immortale il singolo, perché è un parto senza materia, dove l’anima, la mente, lo spirito di un uomo raggiunge la visione che lo rende immortale.
Nella Repubblica, infatti, si legge di come i filosofi, dopo la morte, vadano direttamente a godere del regno delle idee. Cavarero nota anche come l’assassinio della donna Diotima sia preceduto da un’altra morte, quella della femmina nel racconto di Aristofane. Spesso il tema dell’uomo-donna tondo, poi tagliato in due da Zeus per placarne la tracotanza, viene attribuito a Platone direttamente. Questo non è corretto, Platone stesso lo riporta come invenzione del commediografo. Ma ciò che è del tutto platonico è invece ciò che indirettamente passa da tale «comico» racconto, ossia l’assoluta supremazia dell’amore omosessuale maschile sull’amore eterosessuale, utile solo, appunto, alla continuazione della specie. Quanta paura si doveva avere delle donne, allora.
Adriana Cavarero, a cura di Olivia Guaraldo,Raffaello Cortina Editore, Milano, pagg. 200, € 16,15

Il Sole Domenica 23.9.18
Il 24°Congresso Mondiale
Ottomila filosofi a Pechino nel segno del dialogo
di Riccardo Pozzo



II 24 congressi mondiali di filosofia che si sono succeduti dal 1900 a oggi hanno in comune di esser stati eventi culturali di primordine. Al 1° (Parigi 1900) Bertrand Russell conosceva Giuseppe Peano che gli consigliava di leggere Gottlob Frege, al 3° (Bologna 1906) Federigo Enriques presentava al mondo il positivismo prima del neopositivismo, il 4° (Heidelberg 1911) affrontava il problema del valore, con Benedetto Croce valido aiuto di Wilhelm Windelband, e il 9° (Parigi 1937) fu il celebre Congrès Descartes, che tanto segnò la storia filosofica del ventesimo secolo. Due altri congressi in Italia: il 5° (Napoli 1924) e il 12° (Venezia 1958), organizzati rispettivamente da Giovanni Gentile e Carlo Giacon. Tra i più recenti, il 19° (Mosca 1993), organizzato da Evandro Agazzi in una città nella quale giravano i carri armati durante la presa di potere di Boris Eltsin; il 20° (Boston 1998), il primo a superare la soglia di tremila partecipanti; il 21° (Istanbul 2003), il primo in Asia; il 22° (Seoul 2008), il primo in Estremo Oriente; mentre il 23° (Atene 2013), anch’esso con più di tremila partecipanti, portava i filosofi di tutto il mondo a calpestare, letteralmente, i siti dell’Accademia, del Liceo e del Giardino.
Il 24° (Pechino 2018), tenutosi dal 13 al 20 agosto nella splendida cornice del parco delle Olimpiadi del 2008, si distingue per almeno tre motivi. Il primo, sono gli ottomila iscritti, che lo qualificano, appunto, come la più partecipata riunione di filosofi della storia. Il secondo, l’essersi svolto per la prima volta nella Cina della ricerca e dell’innovazione. Il terzo, infine, l’aver avviato il cambio di paradigma dal dialogo tra culture alla cultura nata dialogica. «Oggi abbiamo una civiltà dialogica», ha solennemente dichiarato Tu Weiming nella magnifica Wang Yangming Lecture .
Learning to be human: questo il tema del congresso. L’essere umano non è statico, è un divenire di processi creativi. Lo sguardo dell’altro ha precedenza sullo sguardo di sé, perché se non riconosciamo la presenza dell’altro non riconosciamo nemmeno la nostra, ha spiegato Tu Weiming.
Per le conferenze plenarie, il 24° congresso ha compiuto il passo irreversibile di sostituire le definizioni disciplinari aristotelico-scolastiche con nuove forme più inclusive radicate nelle tradizioni dell’umanesimo.
Il congresso mondiale è soprattutto un esercizio di apertura alla complessità filosofica, religiosa, culturale del mondo contemporaneo. Ci si sorprende allora a costatare come i filosofi cinesi, pur presenti in massa, siano stati tuttavia minoranza di fronte alle migliaia e centinaia di studiosi europei, nordamericani e sudamericani, russi e indiani, alle decine di filippini, sudafricani, coreani, thailandesi, giapponesi, nigeriani, kazaki, e soprattutto a esponenti di comunità filosofiche cui non siamo ancora abituati a pensare come protagonisti del campus globale in cui avviene l’elaborazione del pensiero contemporaneo.
Tra i più apprezzati interventi vanno segnalati quelli delle americane Judith Butler e Sally Haslanger, dell’australiano Peter Singer, della francese Anne Cheng, della thailandese Supakwadee Amatayakul, del sudafricano Mogobe Ramose, del russo Andrey Smirnov, del tedesco Julian Nida-Rümelin e del nostro Maurizio Ferraris. In una miriade di simposi, tavole rotonde, sessioni di ogni genere, le innovazioni legate all’intelligenza artificiale, la frammentazione del sapere e l’accesso ai dati, per fare solo degli esempi, hanno portato a serie riflessioni su temi quali coscienza, marginalità, solidarietà, responsabilità, creatività, benessere, espressività nel confronto tra tradizioni filosofiche e culturali diverse. Così abbiamo visto i primi passi di quella cultura dialogica destinata a nutrire spiritualmente il ventunesimo secolo e che Platone nel Timeo (23c) aveva già immaginato come circolarità di traslazioni e traduzioni di scritture e testi.
Il 25° congresso mondiale di filosofia si svolgerà a Melbourne nell’estate del 2023. È questa la decisione della Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie, alla quale fa capo l’organizzazione dei congressi mondiali, presieduta durante il congresso da Dermot Moran. A Pechino è stato rinnovato il direttivo della Federazione, ora presieduta da Luca Maria Scarantino, mentre Suwanna Satha-Anand è stata nominata segretario generale.

Il Sole Domenica 23.9.18
Un’eredità oltre al marxismo
Antonio Labriola. Se con Gramsci non c’è una continuità lineare, va detto che il filosofo è stato una presenza determinante anche per Croce, per Gentile e per la storiografia italiana
di Michele Ciliberto


Antonio Labriola è senza dubbio, insieme a Gramsci, la figura più rilevante del marxismo italiano, anche se fra i due c’è una vera e propria soluzione di continuità. Del resto, per lo stesso Gramsci Labriola è una “scoperta” compiuta in primo luogo nei Quaderni del carcere in stretto rapporto con l’interpretazione del marxismo come filosofia della praxis. Il problema su cui Gramsci si incontra con Labriola è precisamente l’affermazione dell’autonomia della filosofia della praxis in opposizione esplicita con le interpretazioni del marxismo di tipo sovietico: «il Labriola», scrive Gramsci, «affermando che la filosofia della prassi è indipendente da ogni altra corrente filosofica [...] è il solo che abbia cercato di costruire scientificamente la filosofia della prassi».
Sarebbe però un errore assai grave restringere l’influenza di Labriola al marxismo italiano; è stato infatti una presenza determinante anche per Croce, per Gentile e per la nascita e lo sviluppo della storiografia italiana, in particolare per la «scuola economico-giuridica».
Fu proprio grazie a Croce che Labriola riuscì a pubblicare, tra il ’95 e il ’98, i Saggi intorno alla concezione materialistica della storia che ebbero un’eco europea anche per i suoi rapporti con i maggiori esponenti del marxismo continentale, da Engels ai grandi leaders della socialdemocrazia tedesca. Saggi ai quali va aggiunto il cosiddetto “quarto saggio”, Da un secolo all’altro, il più problematico e il più ricco della sua riflessione marxista.
Ma i rapporti con Croce non si limitarono a questo sostegno editoriale, che, anzi, scaturiva dal rispetto profondo che il più giovane amico ebbe per quello che considerò sempre un maestro, anche quando ritenne di averlo superato e di aver composto in una bara il marxismo teorico italiano, come dice nell’ottobre del ’99 a Vittorio Racca annunciandogli la pubblicazione di Materialismo storico ed economia marxistica, con cui, scriveva, chiudeva «la parentesi marxistica» della sua vita.
Una lunga vicenda che Croce raccontò in un saggio famoso del 1937: Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia, di cui proprio Labriola era stato l’esponente più importante e originale. Aggiunse come sottotitolo: Da lettere e ricordi personali, volendo così indicare quanto egli ne fosse stato parte centrale, e come la vicenda del marxismo teorico italiano si risolvesse, in sostanza, nel rapporto e nella discussione fra lui e Labriola.
Fu un confronto decisivo per il maturare delle posizioni della filosofia di Croce, che ebbe per interlocutore anche Giovanni Gentile, come è testimoniato sia dall’epistolario di Croce e Gentile sia da quello di Labriola e Croce, uno dei testi più ricchi, intensi e brillanti di tutta la letteratura filosofica italiana. Ma proprio da quelle lettere appare quanto fossero con il tempo diventate profonde, e incomponibili, le differenze tra Croce e Labriola, e come fossero state deluse anche le speranze che Labriola aveva posto in Gentile, il quale riconosceva – ed era questo che Labriola apprezzava – la dimensione filosofica del marxismo, a differenza di Croce per il quale invece il materialismo storico non era né «una nuova filosofia della storia», né «un nuovo metodo», ma «una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico». «Di Gentile non m’importa più di approfondire più nulla» – scrive il 5 gennaio del 1904 nell’ultima, drammatica, lettera a Croce – «Quello Spirito che non ha niente a che fare con la Natura da cui risulta e con la Storia... deve essere... un bel Mamozio. Mandamelo come dono per la Befana».
Studiare Labriola significa dunque porre al centro dell’attenzione una delle figure più significative e influenti del pensiero italiano tra ’800 e ’900, al confine tra idealismo, marxismo, positivismo. Ed è perciò importante rimetterne in circolazione i testi dopo un periodo di offuscamento, succeduto a una stagione di maggior fortuna risalente agli anni 70 del secolo scorso: del 1965 è il volume su La concezione materialistica della storia, a cura di Eugenio Garin; del 1973 la raccolta degli Scritti filosofici e politici, curati da Franco Sbarberi; del 1970 sono gli Scritti politici, a cura di Valentino Gerratana. Erano tutte iniziative che si inquadravano in un’atmosfera politica e culturale precisa entro cui aveva un peso importante la presenza, e l’iniziativa, culturale del PCI (su Labriola si era soffermato con un saggio impegnativo anche Palmiro Togliatti).
La ripresa dell’interesse per Labriola nasce oggi dall’esigenza di porre su basi scientifiche rigorose lo studio di una personalità di questo livello. A questa impostazione risale lo straordinario lavoro fatto da Stefano Miccolis sul Carteggio pubblicato con il patrocinio dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Un’esigenza fatta ora propria dal Comitato dell’edizione nazionale delle opere di Labriola, al quale, in collaborazione con l’editore Bibliopolis, si deve la pubblicazione, in affidabili edizioni critiche, di testi assai importanti: Da un secolo all’altro. 1897-1903 (a cura di S. Miccolis e A. Savorelli, 2012), Tra Hegel e Spinoza. Scritti 1863-1868 (a cura di Savorelli e A. Zanardo, 2015) e, da ultimo, la fondamentale prolusione del 1887 su I problemi della filosofia della storia (a cura di G. Cacciatore e M. Martirano, 2018), uno dei suoi testi più vivaci, ricchi, anche per la sua apertura in varie direzioni e prospettive.
È un lavoro importante in duplice senso: mette le basi per guardare, come oggi è necessario, con occhi nuovi, e da una diversa distanza, alla filosofia italiana tra ’800 e ’900, emancipandosi dalle impostazioni di tipo ideologico che hanno lungamente condizionato questo tipo di indagini. E permette di confrontarsi in modi diversi dal passato con Antonio Labriola, pensatore di primo piano e studioso rigoroso, severo, ironico fino al sarcasmo. Nella copia del Discorrendo di socialismo e filosofia di cui il 21 ottobre 1903 fece omaggio a Felice Tocco, il grande studioso di Bruno, si legge una dedica che fa comprendere che uomo fosse e come fosse capace di guardare con ironia anche a se stesso e al suo lavoro: «All’amico F. Tocco perché legga dopo tanta filosofia seria della filosofia spassosa».
I problemi della filosofia della storia 1887. Recensioni 1870-1896
A cura di G. Cacciatore e M. Martirano Bibliopolis, Napoli, pagg. € 35

Corriere La Lettura 23.9.18
Il corpo e la mente non hanno confini
Siri Hustved: «Le illusioni della certezza» per Einaudi. Un dilemma del pensiero e della biologia
Ne discutono con lei Antonio Damasio e Vittorio Gallese
Hustved: «La competenza narrativa della specieumana è radicata negli scambi prelinguistici, musicali ed emozionali»
Damasio: «L’intreccio tra immaginazione e narrazione è un elemento chiave della struttura della coscienza per come la conosciamo»
Gallese: «Lo sviluppo del cervello e delle competenze psico-affettive è condizionato e plasmato dalle relazioni del bambino»
Hustved: «Anche la politica rivela che le emozioni sono fondamentali per capire come siamo fatti
Gallese: «Il modello della mente come paradigma di perfetta razionalità è insostenibile»
Damasio: «La contiguità e contnuità dei tessuti neuronali è un fatto che si imporrà da sé»
a cura di Vincenzo Santarcangelo


Non è un libro di filosofia, benché affronti i classici dilemmi sul rapporto tra mente e corpo che tormentano dalle origini quella disciplina. Mette in discussione la legittimità stessa di quei dilemmi, ma non è un trattato di epistemologia. Il punto di vista è quello rigoroso di una scrittrice che ha visto mutare nella sua stessa penna «un semplice interesse» per i misteri del suo sistema nervoso (La donna che trema raccontava la storia di un’emicrania vissuta nel corpo proprio) in una «passione divorante». Da allora, era il 2011, Siri Hustvedt si è immersa nel «caos» del dibattito mente-corpo, prima come avida lettrice, poi come autrice di articoli apparsi su autorevoli riviste scientifiche.
Un neuroscienziato come Vittorio Gallese ha definito Le illusioni della certezza (Einaudi) uno dei migliori libri recenti sul problema mente-corpo, un viaggio al cuore di mille domande, o forse di una sola: che cosa significa essere umani? E se pure c’è da mettere in successione una serie di eventi essenziali per determinare le coordinate del dibattito attuale, a spiccare è l’originalità e l’eleganza dell’erudizione. Ecco così comparire personaggi solitamente trascurati o poco ascoltati — la scrittrice e filosofa seicentesca Margaret Cavendish con il suo ibrido di «panpsichismo» (concezione che conferisce un’anima all’intera realtà) e «panorganicismo» (concezione del mondo come un unico organismo), il Diderot de Il sogno di d’Alembert, il Vico de La scienza nuova — nel tentativo di rendere cristallino uno degli interrogativi più affascinanti che la filosofia ha da sempre dovuto fronteggiare: che cosa significa, per la mente umana, interrogarsi su sé stessa? Hustvedt non rinuncia a nessuna strategia metodologica per portare a termine la missione: imbastisce per esempio «un’inchiesta casuale e non scientifica su come le persone definiscono la mente», chiedendo in maniera schietta e informale al cosiddetto «uomo della strada» che cosa pensi sia la mente e se creda che sia qualcosa di distinto rispetto al corpo. Scomoda la psichiatria e la neuropsicoanalisi, il loro armamentario concettuale, per meglio inquadrare il problema mente-corpo all’interno di un più generale orizzonte che tenga conto dell’interazione fra persona e ambiente. Recupera porzioni importanti del pensiero di Alfred North Whitehead per far riemergere l’aspetto «immaginativo» che si cela dietro a ogni teoria filosofica sul mentale, sia pure quella più materialistica.
Quello che Siri Hustvedt ama è la chiarezza e la profondità della ricerca: questo libro lo dimostra svelando un orizzonte davvero sterminato e la trasversalità di uno sguardo curioso, perennemente in movimento e mai sazio, tormentato da un dubbio che, in fondo, scaturisce da un estremo desiderio di libertà. E proprio da un dubbio che «comincia come un vago senso di insoddisfazione, la sensazione che qualcosa non torni, un presagio ancora senza forma», prende le mosse questa conversazione a distanza con la quale «la Lettura» ha messo in dialogo l’autrice del libro e due scienziati di fama mondiale — Antonio Damasio e Vittorio Gallese — che hanno speso parole importanti riguardo a quel rigore innervato da una passione divorante che è la cifra dell’opera di Hustvedt.
Il suo libro si conclude su un tema decisivo, quello del dubbio metodologico. Non solo virtù dell’intelligenza, il dubbio è una necessità. Chiede di praticarlo sistematicamente anche al suo lettore?
SIRI HUSTVEDT — Il dubbio è ciò che rende possibile la scoperta. Se hai deciso prima del tempo come funzionano le cose, potresti non accorgerti di scoperte sorprendenti relative a fatti che avvengono proprio sotto il tuo naso. Alle mie lettrici e ai miei lettori chiedo elasticità mentale. Devono mettere da parte le loro idee preconcette sul corpo e sulla mente e chiedersi insieme a me: che cosa intendo quando dico «il mio corpo»? Che cos’è la mia mente?
VITTORIO GALLESE — Non potrei essere più d’accordo. Lo sviluppo della scienza e le sue scoperte sono fortemente condizionate dalla possibilità di adottare uno sguardo nuovo, non facendosi condizionare troppo dal canone e dai paradigmi scientifici predominanti. La storia della nostra scoperta dei neuroni specchio ne è un esempio (la scoperta realizzata nel 1992 dal gruppo dell’Università di Parma coordinato da Giacomo Rizzolatti che ha messo in luce l’esistenza di un meccanismo grazie al quale le azioni eseguite dagli altri, captate dai sistemi sensoriali dell’individuo, sono trasferite automaticamente al sistema motorio di chi osserva; in questo modo l’osservatore ottiene una «copia motoria» del comportamento osservato quasi come fosse lui a eseguirlo, ndr).
ANTONIO DAMASIO — Siri, lei è una romanziera, una saggista, una pensatrice che non si limita a chiedere al suo lettore di esercitare l’arte del dubbio. Ma è anche una donna in grado di utilizzare e di sottoporre a un’analisi molto sofisticata la sua mente inquisitrice. Questa è già una forma di dubbio, ed è ciò che le permette di spaziare, grazie a una curiosità inesausta, tra filosofia, psicologia, neuroscienza, biologia, per non menzionare le sue sortite nel campo dell’estetica e della psicoanalisi.
Sottoporre una questione, soprattutto quando riguarda temi controversi, al vaglio di «modelli multipli», ricorrere a un’epistemologia accogliente, conduce più che a un’unica risposta, a una di quelle zone che Hustvedt ha definito, con grande efficacia, di «ambiguità focalizzata».
SIRI HUSTVEDT — Il realismo ingenuo mi lascia insoddisfatta. La comprensione umana è condizionata dall’appartenenza a una determinata specie così come dalla cultura. Epistemologie e metodi variano da disciplina a disciplina. Il neuroscienziato, il letterato, l’antropologo e l’artista affronteranno la questione del sé, per esempio, da diverse prospettive e ricorreranno a modelli, teorie, pensieri e sentimenti diversi. Non giungeranno a una stessa conclusione ma a una rigorosa comprensione e a un’attenta disamina sia della cornice teorica sia dei pregiudizi che caratterizzano i singoli settori disciplinari: arriveranno in questo modo a una zona di ambiguità focalizzata che renderà migliori le domande successive.
VITTORIO GALLESE — Questioni complesse, come la natura della mente umana, esigono risposte complesse. Per affrontarle, le neuroscienze sono necessarie ma non sufficienti, proprio perché la natura umana è multidimensionale. Inoltre, nell’era dell’epigenetica, avendo appreso che l’ambiente influenza l’espressione dei geni e ne condiziona la trasmissione alle generazioni seguenti, dovremmo lasciarci definitivamente alle spalle la rigida distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito.
ANTONIO DAMASIO — Il fatto che tutto questo vada contro alcuni paradigmi dominanti non dovrebbe affatto sorprendere. Come potrebbero questioni così complesse adeguarsi a singoli modelli? Trovo questo approccio molto attraente. Allo stesso tempo lo ritengo l’unico che possa condurre alla verità. Sono molto contento di scoprire ne Le illusioni della certezza una forte assonanza con le mie posizioni.
Che ricadute ha tutto questo sulla pratica clinica e sulla ricerca, per esempio nel campo delle neuroscienze?
VITTORIO GALLESE — Se vogliamo utilizzare le neuroscienze per comprendere meglio in che cosa consista la capacità di relazionarsi con l’altro, il ruolo dell’empatia nell’esperienza estetica, il ruolo di memoria e immaginazione nel determinare la nostra identità, allora credo che esse possano incrementare il loro potere euristico se utilizzate in un contesto multidisciplinare che si avvalga della collaborazione con le scienze umane.
SIRI HUSTVEDT — Faccio un esempio. A gennaio ho tenuto i Neurology Grand Rounds al Massachusetts General Hospital di Boston. Dopo la conferenza, ho incontrato un gruppo di scienziati che lavoravano sulla demenza. Uno di loro, molto giovane, mi ha chiesto perché avessi raccomandato di leggere tanta letteratura, filosofia e storia, oltre a fare ricerca nel proprio campo. Gli ho detto: «Ti aiuterà nel tuo lavoro. Ti donerà la flessibilità mentale per individuare passi falsi, errori e modelli inadeguati».
ANTONIO DAMASIO — L’intreccio tra immaginazione e narrazione è uno degli elementi fondamentali della struttura della coscienza per come la conosciamo. Le ricadute riguardano dunque lo studio dell’integrazione di immagini sensoriali, che – come scrivo nel mio ultimo libro – può «produrre quelle sequenze dotate di senso che chiamiamo narrazioni». Cito ancora: «Siamo narratori instancabili di storie su quasi ogni aspetto della nostra vita, specialmente quelli importanti, ma non solo, e coloriamo con piacere le narrazioni con tutte le deformazioni delle nostre esperienze passate e delle cose che ci piacciono, o non ci piacciono».
L’origine biologica della facoltà immaginativa e delle competenze narrative sarebbe da rintracciare già nei movimenti fetali: ne «Le illusioni della certezza» si fa riferimento ai comportamenti imitativi del neonato, considerati «proto-conversazioni», già vere forme di narrazione.
SIRI HUSTVEDT — Sono convinta che la competenza narrativa tipica della specie umana sia radicata negli scambi prelinguistici di carattere musicale ed emozionale tra infante e genitore e che alcuni ritmi dinamici e sensoriali forgiati dalla madre e dal feto inizino ben prima della nascita, nella fase finale della gestazione. Non credo che i soli movimenti fetali costituiscano le fondamenta della capacità di narrare. Non credo che il comportamento fetale possa essere scisso dall’ambiente fetale, tagliato fuori dal corpo della madre, come se il feto fosse un omuncolo autonomo, un microscopico precursore dell’uomo razionale, come pure alcuni ricercatori ritengono.
VITTORIO GALLESE — La psicologia dello sviluppo e le neuroscienze hanno rivoluzionato le nostre idee sullo sviluppo psico-cognitivo del bambino, mettendo in luce la natura sociale della mente e il ruolo cruciale svolto dalle relazioni interpersonali. Relazioni che, come dice Siri, iniziano già durante la fase fetale, in cui il rapporto feto-madre condiziona lo sviluppo del cervello e le sue memorie implicite.
Feto e madre come un sistema strettamente interconnesso, dunque, ma c’è bisogno anche di fattori esterni…
SIRI HUSTVEDT — Esatto: il feto è nell’utero della madre ed è collegato anche alla placenta e al cordone placentare. Sebbene le proto-conversazioni cruciali per la competenza narrativa abbiano luogo solo dopo la nascita e si sviluppino nel tempo attraverso le forme simboliche di una certa lingua e le norme culturali, non esiste un «io narrativo» in assenza di un’intimità preriflessiva del corpo con altri corpi. La capacità di parlare, ed eventualmente di raccontare, emerge proprio da questo fondamento.
VITTORIO GALLESE — Un aspetto su cui non si riflette abbastanza è la natura «neotenica» (la neotenia è il fenomeno evolutivo per cui una specie animale mantiene caratteristiche fisiche tipicamente giovanili, ndr) della nostra specie. Nasciamo prematuri: il nostro cervello raggiunge, infatti, la piena maturazione al termine dell’adolescenza. Lo sviluppo del nostro cervello e delle competenze psico-affettive da esso sostenute è condizionato e plasmato dalla quantità e qualità di relazioni intersoggettive che il bambino intrattiene con i genitori e gli altri esseri umani con cui entra in contatto. Io e Tu, come scrisse Martin Buber, sono due facce della stessa medaglia.
Questo porta all’ipotesi del «sistema multiplo di condivisione»?
SIRI HUSTVEDT — Un’ipotesi, quella formulata da lei, professor Gallese, che condivido appieno. Tutte le azioni umane hanno un profondo carattere relazionale (betweenness) in parte influenzato dalla neurobiologia dei sistemi specchio. Siamo costituiti, voglio sottolineare questo punto, delle interazioni che abbiamo con gli altri, sia da un punto di vista genetico che epigenetico. Il genoma non è un codice, un modello per i tratti caratteristici di un organismo: partecipa piuttosto a processi di sviluppo altamente sensibili all’ambiente. Il sé è costruito da una moltitudine di storie: siamo sangue e ossa e cervello, movimento e abitudine. Non siamo esseri statici, ma esseri situati in un processo di continuo divenire.
Il suo è stato un salto nel «caos» della letteratura scientifica sulla coscienza. Damasio ha insistito sul fatto che il dibattito è deficitario rispetto al ruolo incarnato dalle emozioni. «Embodiment» (la teoria della mente incarnata nel corpo) ed emozione sembrano essere le parole-chiave del programma di ricerca della mente e del cervello per il futuro.
ANTONIO DAMASIO — Prima facevo riferimento all’interazione tra immaginazione e narrazione come a uno degli elementi fondamentali per lo studio della coscienza. Un altro elemento è sicuramente il tema delle emozioni.
SIRI HUSTVEDT — Ho trascorso molti anni immersa nel caos della letteratura sulla coscienza, che riecheggia dibattiti molto più antichi: quello greco sul rapporto psyché-soma o quello, particolarmente vivace, del XVII secolo. Nel mio libro, mi rifaccio a Damasio per sottolineare i limiti dell’impianto teorico della scienza cognitiva di prima generazione, che trattava la mente come un dispositivo computazionale separato dagli affetti e dal corpo. Credo che questa mossa rientri in una forma di resistenza tutta occidentale al tema del corpo.
Ci spieghi meglio…
SIRI HUSTVEDT — Il corporeo è associato al basso, al naturale, all’emotivo, al femminile; la mente è alta, spirituale, priva di passioni, maschile. È il motore del dualismo occulto mente-corpo che anima ancora gran parte delle scienze. Senza una profonda comprensione del ruolo degli affetti nella storia evolutiva saremmo persi. Basta osservare l’attuale situazione politica: come si può affermare che le emozioni non siano fondamentali per capire come siano fatti gli esseri umani?
VITTORIO GALLESE — Il modello della mente umana come paradigma di perfetta razionalità oggi è divenuto insostenibile. Le ricerche pionieristiche di neuroscienziati come lei, professor Damasio, e Jaak Panksepp, ampiamente discusse nel libro di Hustvedt, hanno fornito a questo proposito contributi fondamentali. Lo dimostra il caso clinico di Phineas Gage, con cui inizia L’errore di Cartesio (Gage era un operaio che nel 1848 rimase vittima di un incidente: un’asta metallica gli si conficcò nel cranio, trapassandolo; dopo pochi minuti era comunque in grado di parlare e muoversi benché il lobo frontale sinistro del cervello fosse stato distrutto; in seguito manifestò disturbi della sfera affettiva e della personalità, suggerendo, per la prima volta, una relazione tra quella parte del cervello e le emozioni, ndr): se viene a mancare la dimensione emozionale/affettiva, le nostre decisioni divengono irrazionali e inadeguate al contesto. Ciò conduce a un progressivo deragliamento della personalità, con l’impossibilità di vivere una vita sociale competente e integrata.
Una delle conseguenze di ciò che Damasio chiama nel suo ultimo libro «imperativo omeostatico» è che «strutture e processi neurali e non neurali non si accontentano di essere contigui, ma formano una partnership continua e interattiva. Cervello e corpo sono sulla stessa barca»: una metafora che molti, ancora, non sono disposti ad accettare…
ANTONIO DAMASIO — La continuità e la contiguità dei tessuti neurali e non neurali è un fatto che si imporrà da sé, presto o tardi. Difficile sapere in anticipo chi, e quando, sarà disposto a farsi carico di una evidenza così densa di implicazioni.
SIRI HUSTVEDT — Da outsider posso immergermi in metafore così vischiose: non rischio di perdere il mio laboratorio o i finanziamenti per la mia ricerca; non sarò bollata come eretica ed espulsa dalla comunità scientifica. Sono invitata a conferenze da neurologi, psichiatri e filosofi e a pubblicare su riviste specializzate perché chi mi invita si aspetta di ascoltare o leggere qualcosa che potrebbe non aver sentito o letto prima. Le parole «vischiose» spesso arrivano proprio da coloro che si appellano alla certezza epistemologica e non riescono a mettere in questione i loro modelli barcollanti, giusto per usare un’altra metafora, che danno per scontati. Il grande fisico Erwin Schrödinger una volta ebbe a lamentarsi del «grottesco fenomeno di menti allenate scientificamente, di gran competenza, che hanno vedute filosofiche incredibilmente infantili, non sviluppate o atrofizzate».
Questo che cosa comporta?
SIRI HUSTVEDT — Se si studia con attenzione la storia della scienza, si ricavano molte lezioni sui pericoli della presunzione e del riduzionismo. Alcuni scienziati tendono a esaminare processi biologici discreti o «sistemi» come se esistessero nel vuoto. L’espressione di Damasio, «partnership continua», da questo punto di vista è molto appropriata. Il cervello è un organo tra gli altri, in continua interazione con i processi neurali e non neurali, all’interno di un corpo, che esiste in un mondo popolato da altri corpi. Ignorare queste interazioni, per quanto complesse e nebulose possano apparire, conduce inevitabilmente a vicoli ciechi.
VITTORIO GALLESE — Uno dei grandi meriti del libro di Siri Hustvedt è in effetti quello di sottolineare la stretta relazione tra cervello e corpo, sia dal punto di vista della esterocezione, cioè la percezione di ciò che accade fuori di noi, che da quello dell’enterocezione, cioè la percezione di quanto accade dentro il nostro corpo.
Qualche esempio?
SIRI HUSTVEDT — Si pensi agli ormoni, a lungo considerati fondamentali nel determinare i comportamenti degli animali. Anche gli ambienti e i comportamenti, però, alterano le concentrazioni ormonali. In alcune specie, il pesce pagliaccio per esempio, le relazioni sociali possono dar luogo a drammatiche fluttuazioni ormonali che causano cambiamenti di sesso. Se la femmina dominante muore e il gruppo rimane senza un capo, un maschio subordinato si trasforma in una femmina. Gli esseri umani non sono pesci pagliaccio: siamo vertebrati più evoluti e creature sociali più complesse, e la nostra realtà socio-biologica è così sofisticata che una certa dose di vischiosità è inevitabile.
Non crede che si tratti di una posizione minoritaria nel dibattito scientifico?
SIRI HUSTVEDT — Citerò solo due eccellenti filosofi della scienza che sarebbero d’accordo con me: Evelyn Fox Keller e John Dupré. I concetti non sono fissati nel marmo. Sono entità temporali, soggette al dubbio, alla trasformazione, alla riconfigurazione e al gioco. Proprio questo è il bello.
VITTORIO GALLESE — Il riduzionismo delle neuroscienze deve fare i conti con la realtà di ciò che significa essere umani. Questo libro enfatizza i temi della relazione e del ruolo costitutivo della socialità nel farci divenire chi siamo e mette l’accento sulla centralità della nozione di esperienza. Le macchine eseguono computazioni, gli esseri viventi fanno costantemente esperienza del proprio incontro col mondo fisico e con il mondo degli altri. Lo studio della dimensione esperienziale della cognizione sta fortunatamente divenendo uno degli snodi centrali nello studio del cervello-corpo. Le illusioni della certezza rappresenta un riuscitissimo esempio di come le neuroscienze non possano fare a meno di un costante dialogo con le scienze umane, se ambiscono a comprendere la nostra natura senza sacrificare nulla della sua meravigliosa ed enigmatica complessità.
ANTONIO DAMASIO — A partire da un’esplosiva miscela di conoscenze e capacità critiche, seguendo esclusivamente un’agenda di ricerca che è sua e di nessun altro, e che nessuno, dall’esterno, può forzare verso forme di deferenza dovute al fatto di appartenere a un gruppo dell’establishment culturale piuttosto che a un altro, credo che lei, Siri, abbia dato forma a un commentario accuratissimo, uno strumento per muoversi tra le diverse teorie contemporanee sulla natura della mente umana. Ripeto: non mi sorprende affatto che spesso si trovi a navigare controcorrente.

Corriere La Lettura 23.9.18
La guerra perpetua
Il futuro è già cominciato: i droni sono sempre più capaci di scegliersi gli obiettivi da soli e con i compter quantistici la cosiddetta quantum war
Una strabiliante capacità di calcolo cambierà per sempre le cose
di Stefano Montefiori


L’aeroporto di Copenaghen accoglie il viaggiatore con bancarelle intere dedicate al grande momento di soft power vissuto oggi dalla Danimarca, «il Paese più felice del mondo» secondo varie classifiche. Ci sono le pile dei libri di Meik Wiking sui concetti ormai globali di hygge (un avvolgente benessere scandinavo fatto di caffè, calzettoni, candele, torte casalinghe e amici) e di lykke (parola danese per felicità), manuali su «Come essere danese» e altri bestseller in inglese come «Il popolo quasi perfetto» e «Un anno vissuto danimarcamente».
Bastano dieci minuti di treno e si arriva nel centro della capitale, dove al Museo danese della guerra le cose si fanno un po’ più tetre. L’Università della Danimarca del Sud ha invitato da Australia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Svezia cinque importanti pensatori nel campo delle scienze sociali e li ha accolti in due grandi sale, tra centinaia di cannoni, lance ed elmi dei soldati danesi dalle guerre nordiche del Seicento fino all’Iraq e all’Afghanistan, per dare vita a un seminario sul «Futuro delle guerre». L’hygge c’è anche qui, frequenti pause permettono a relatori e pubblico di scambiare qualche parola tra dolci, frutta e vino californiano. Gli interventi però inducono a un minore ottimismo sulle relazioni umane; raccontano di una futura guerra perpetua, decentralizzata, ubiqua, ultraviolenta, rivoluzionata dalle macchine intelligenti e dai computer quantistici ormai di prossima realizzazione grazie a un laboratorio a pochi chilometri da questa sala, sempre a Copenaghen, insospettabile centro del mondo.
La «quantum war»
James Der Derian immagina la prossima era della quantum war, definita come una serie di «osservazioni di immagini di grande impatto che permettono e delimitano nuove condizioni di violenza». «Per lanciare queste guerre servono due clic: uno per prendere un’immagine e un altro per inviarla con il telefono cellulare. Uno scatto che coinvolge reti neurali esterne in un parossismo collettivo di dolore e piacere, che localizza in modo efficace (e perverso) il piacere nel dolore dell’altro». L’immagine della guerra viene sostituita da una guerra di immagini, ed è facile individuare il punto di rottura nell’11 Settembre e negli altri orrori che ne sono seguiti, fino alla violenza estetizzante dei video dello Stato islamico. Quantum war significa che «i nostri modi di osservazione hanno un impatto diretto sui fenomeni osservati», come prevede l’«interpretazione di Copenaghen» (di nuovo) della meccanica quantistica proposta negli anni Venti da Niels Bohr, che per questo litigò con Albert Einstein. Le immagini di violenza e di conflitti trasmesse in Rete e condivise sui social media possono concretamente produrre nuove guerre globali, combattute da un’infinità di attori: individui, milizie, gruppi terroristici, eserciti. L’era della guerra classica tra Stati descritta da Clausewitz lascia il posto all’era della quantum war, «la cui natura viene costantemente ridefinita da nuovi protagonisti, nuove tecnologie e nuove configurazioni di potere, collegate dall’ubiquità, dalla simultaneità e dalla interconnessione di più media».
I nuovi computer
Quantum war significherà anche l’applicazione alla guerra delle immense capacità di calcolo dei computer quantistici, che porteranno l’uso dei droni senza pilota a straordinari livelli di efficacia, automazione e intelligenza (artificiale), al servizio di attacchi sempre più preventivi. Der Derian, 63 anni, direttore del Centro per gli studi sulla sicurezza internazionale dell’Università di Sydney, è figlio di un veterano della Seconda guerra mondiale e studente dell’università del Michigan che fondò il «Progetto Phoenix» per sostenere gli usi pacifici dell’energia atomica, tragicamente sperimentata pochi anni prima a Hiroshima e Nagasaki. Ad Arthur il figlio James ha dedicato il «Progetto Q» per la «pace e sicurezza nell’era del Quantum».
L’idea è che il mondo si stia avvicinando a una rivoluzione superiore a quella vissuta con la fissione dell’atomo. La teoria del quantum proposta negli anni Venti a Copenaghen da Bohr e da Werner Heisenberg sostiene che i sistemi fisici sono costituiti da probabilità, più che da specifiche proprietà, fino a quando queste non vengano misurate. Alla conferenza di Solvay a Bruxelles, nel 1927, i ventinove più brillanti scienziati del tempo si riunirono per discutere della teoria quantistica e un indignato Einstein si fece capofila dei «realisti» contro i «probabilisti» Bohr e Heisenberg proclamando che «Dio non gioca a dadi». Nei decenni successivi la teoria di Copenaghen ha ricevuto consensi e dimostrazioni scientifiche e oggi l’impostazione quantistica è comunemente accettata, tanto che nel mondo si è scatenata la corsa alla creazione del primo computer quantistico che — a differenza dei bit attuali basati sull’alternativa on/off — funziona sul qubit dove on e off possono coesistere nello stesso istante. Per chi non ha studiato fisica in modo approfondito, avvicinarsi alla teoria dei quanti richiede una buona dose di accettazione fideistica. Un paio d’anni fa il premier canadese Justin Trudeau venne sfidato a spiegare in pubblico che cosa fosse il quantum computing e lui se la cavò dicendo che «i computer convenzionali si basano su 1/0, on/off, mentre lo stato quantico può essere molto più complesso perché le cose possono essere particelle e onde allo stesso tempo. Il quantum ci permette quindi di incastonare molta più informazione in un singolo bit». Quella risposta venne definita un successo, tutto sommato capace di trasmettere il messaggio fondamentale, ovvero che i computer basati sul quantum saranno infinitamente più potenti di quelli che conosciamo oggi. Capaci, per esempio, di violare in pochi secondi qualsiasi sistema conosciuto di crittografia e sicurezza dei dati.
I computer quantistici potrebbero diffondersi nell’arco di cinque anni e «qualsiasi strumento può essere trasformato in un’arma», dice Charles Marcus, uno scienziato di Harvard che a Copenaghen guida la squadra composta da ricercatori dell’Istituto Niels Bohr e di Microsoft impegnata nella realizzazione del primo quantum computer. Altri laboratori per il momento sono in posizione migliore, per esempio Google, Ibm e la startup californiana Rigetti. Ma a Copenaghen, Marcus e i suoi stanno creando qubit usando le particelle teorizzate negli anni Trenta dall’italiano Ettore Majorana, uno dei «ragazzi di via Panisperna». Il loro modo di procedere potrebbe rivelarsi più stabile e meno soggetto a errori, permettendo forse un grande balzo in avanti.
Il «Project Q»
Quando a Copenaghen o altrove il computer quantistico vedrà la luce, gli impieghi militari saranno immediati. Ecco perché Der Derian ha fondato il «Project Q», cercando di sensibilizzare la comunità scientifica sulla necessità di mettere in guardia i leader politici sull’uso potenzialmente catastrofico del quantum computing. Einstein fece lo stesso nel 1939 scrivendo al presidente americano Roosevelt per avvisarlo dei progressi nazisti nell’arricchimento dell’uranio. Il risultato fu che l’America lanciò il programma Manhattan per dotarsi della bomba atomica e usarla per prima.
Der Derian è un professore sorridente e dotato di una certa autoironia, e ricorda quando nel 1991 partecipò alla seconda conferenza annuale sul cyber-spazio a Santa Cruz, in California: «C’era John Perry Barlow che spiegava come internet sarebbe stata una cosa fantastica per tutti, e io invece usai per la prima volta il termine di cyber-war. Ero scettico di fronte a tanti tecno-utopisti, e in base a questo stesso atteggiamento oggi potrei dire che siamo tutti spacciati di fronte al quantum computing. Invece cerco di fare previsioni catastrofiche ma non troppo». Dai computer quantistici ci si aspettano applicazioni stupefacenti contro il cambiamento climatico o le malattie.
Quanto alla guerra, sembrano fatti apposta per assecondare e approfondire le tendenze che sono già all’opera da alcuni anni. I droni, per esempio, stanno cambiando modo di funzionamento. «Stiamo passando dalla kill list alla kill chain, non si procede più a partire da una lista di persone da colpire ma gli stessi droni raccolgono l’informazione sul terreno e sono pronti a uccidere obiettivi non fissati in precedenza», dice Mark Hansen della Duke University, che parla di «sovranità diffusa». Per uccidere Osama Bin Laden è stato necessario l’ordine esecutivo del presidente Barack Obama. Per gli altri obiettivi meno importanti dei droni americani, nello Yemen, in Pakistan o in Somalia per esempio, la sovranità — la decisione se colpire o meno — viene esercitata a livello sempre più basso. Si scende la gerarchia verso i soldati, e in prospettiva verso le macchine.
Due minuti per uccidere
«I primi droni — aggiunge Hansen — avevano la possibilità di sorvegliare ed eventualmente colpire un solo obiettivo. Adesso possono raccogliere dati e immagini su più obiettivi contemporaneamente e questo riduce molto il tempo a disposizione per prendere una decisione: stiamo passando da 30-35 minuti a due minuti. Il vero problema ormai non è identificare la minaccia ma scegliere in modo quasi istantaneo la risposta».
Hansen cita spesso il filosofo Brian Massumi e la sua nozione di ontopower, «potenza ontologica», cioè gli Stati Uniti. Spinoza evocava una natura naturans, il continuo lavoro divino di generare una realtà pronta infine a presentarsi ai nostri sensi come natura naturata. Con la teoria dell’attacco preventivo, con i droni che spesso attaccano non chi ha commesso un atto ostile ma chi in teoria potrebbe commetterlo, secondo Massumi gli Stati Uniti diventano e diventeranno sempre di più una natura naturans che crea la realtà. Hansen cita il caso di Anwar al-Awlaki, predicatore islamista americano-yemenita eliminato da un drone nel 2011, co-responsabile comunque della strage di «Charlie Hebdo» perché prima di morire aveva messo a punto una lista di «miscredenti» occidentali da uccidere tra i quali figurava Charb, il direttore del giornale. Due settimane dopo l’eliminazione di Anwar al-Awlaki, un drone uccise anche suo figlio sedicenne. «Il figlio minore di al-Awlaki non fu un danno collaterale — dice Hansen — ma rappresenta la vittima perfetta. Eliminato perché un giorno avrebbe potuto cercare vendetta, cosa possibile ma non verificabile. Possiamo supporlo, e questo è sufficiente».
Sorveglianza di massa
Nella guerra futura, perpetua e «quantistica» come direbbe James Der Derian, saranno probabilmente le macchine ad avere la sovranità, la facoltà di decidere della morte dei bersagli. I quantum computer potranno allora aiutare a svolgere in modo efficace e spietato il compito di identificare gli obiettivi, in base ad algoritmi che saranno la versione raffinata ed evoluta di quelli oggi in uso per studiare i comportamenti e le preferenze di acquisto dei consumatori. Le guerre dei droni e la sorveglianza di massa andranno mano nella mano. Louise Amoore, studiosa britannica dell’Università di Durham, ricorda che «nel 2016, a Baltimora, la polizia ha fermato decine di persone per impedire loro di manifestare dopo l’uccisione di Freddie Gray», uno dei primi casi di neri colpiti dagli agenti in circostanze controverse. «La compagnia Geofeedia ha usato i dati di Facebook, Twitter e Instagram per elaborare con un algoritmo una lista di persone che avrebbero potuto partecipare alle proteste, e la polizia ha usato la segnalazione per fermare quelle persone in modo preventivo».
Droni e cellulari
Gli algoritmi influenzano le vite degli umani nella pace e lo faranno sempre di più nella guerra, tecnologica e sofisticata per alcuni e rudimentale per altri. Mark Danner, docente a Berkeley e al Bard College dopo una carriera di reporter per il «New Yorker», il «New York Times Magazine» e la «New York Review of Books», sottolinea che, dopo l’11 Settembre, «le guerre non finiscono». Lo ha scritto nel saggio Spiral: Trapped in the Forever War (Simon & Schuster) e nel suo intervento al museo di Copenaghen sottolinea la paradossale importanza dei garage opener (i telecomandi a infrarossi che servono ad aprire i garage) nelle guerre super-tecnologiche di oggi e probabilmente del futuro, proprio alla vigilia del passaggio all’era quantistica.
Perché una schiacciante superiorità tecnologica, evidente nei droni usati da Bush ma soprattutto da Obama e Trump, non è decisiva? «Gli insorti iracheni hanno affrontato l’esercito più potente del mondo portandolo a una posizione di stallo grazie a ordigni rudimentali azionati da telecomandi per garage o da cellulari. E anche quando gli Usa hanno ottenuto successi militari, come dopo il Surge del 2006, non sono riusciti a trasferirli in una vera stabilizzazione politica. La Forever War, la guerra eterna, significa che Stati Uniti, Al Qaeda, Isis e le altre formazioni jihadiste hanno creato un equilibro che continuerà. Chi non ha un esercito a disposizione usa l’esercito dell’altro attraverso il sistema della provocazione. Gli uomini di Al Qaeda e poi dello Stato islamico in Iraq, sunniti, ricorrono alla violenza contro gli sciiti per provocare la vendetta e reclutare più sunniti di prima».
Il sangue dietro ai chip
I droni permettono di non mettere in pericolo i propri soldati, il costo politico è minimo, in questo modo le guerre possono durare all’infinito. Le guerre perpetue non riguardano solo gli Stati Uniti e il Medio Oriente, l’Ucraina è un altro esempio di conflitto che resiste per anni in posizione di stallo. La guerra perpetua, ubiqua, quantistica, burocratizzata e affidata — almeno in parte — ai computer sarà sanguinosa e orribile come e più che in passato, per Caroline Holmqvist, ricercatrice dello Swedish Institute of International Affairs. Uccidere non basta, bisogna annientare la vittima. Un attentatore suicida non si limita a uccidere ma massacra e sfigura i corpi. Il missile sparato da un drone crea un vuoto tale da estrarre l’aria dai polmoni, squassare gli organi interni e frantumare il corpo. La contraddizione dell’umano sempre più civilizzato che uccide membri della propria specie verrà risolta con l’ultra-violenza e il metodo più radicale, cancellando l’umanità del nemico.

Corriere La Lettura 23.9.18
Il progresso del male
Dalla secessione americana all’Iraq, la spirale di tattiche e tecnologia
Lezioni di sangue ogni volta peggiori
di Elliot Ackerman


«Che la guerra sia così terribile è un bene, altrimenti ci piacerebbe troppo». Robert E. Lee, il comandante dell’esercito confederato, pronunciò queste parole il 13 dicembre 1862, durante la battaglia di Fredericksburg della guerra civile americana. Quel giorno Lee affrontò un esercito unionista quasi due volte più numeroso del suo. Collocò i suoi soldati dietro un muro in cima a una collina. Le forze unioniste credevano che se avessero assaltato la posizione di Lee l’avrebbero sopraffatto. Quello che non avevano capito — e non lo aveva compreso nemmeno Lee, a quanto pare — era che Lee possedeva un significativo vantaggio tecnologico: il nuovo moschetto a canna rigata.
I generali presenti sul campo di battaglia avevano studiato le guerre napoleoniche, che esibivano un culto per l’offensiva, la convinzione che truppe ben addestrate, disciplinate e in numero prevalente sarebbero sempre state in grado di sopraffare gli avversari in un assalto frontale. La differenza, in quel giorno del 1862, era che i moschetti usati in epoca napoleonica riuscivano a essere precisi solo a una distanza di cinquanta metri, mentre il moschetto a canna rigata usato dalle truppe del generale Lee sparava con precisione fino a duecento metri. Quando a Fredericksburg gli unionisti attaccarono, i confederati li colpirono a una distanza quattro volte maggiore di quella da loro utilizzabile. Il risultato fu un massacro, il primo del genere. La sera del 13 dicembre il campo di battaglia davanti a Lee era coperto di cadaveri. Fu una delle sue più grandi vittorie, anche se «terribile», come disse lui stesso.
Le lezioni che si apprendono in una guerra si applicano sempre in quella seguente, spesso con effetti deleteri. La Prima guerra mondiale fu il successivo conflitto di proporzioni paragonabili alla guerra civile americana. Fu caratterizzato dalla guerra di trincea. Lasciare la protezione della trincea e attaccare in terreno aperto equivaleva a un suicidio. Quando i soldati cercarono di andare all’offensiva — alla Somme, a Mons o a Passchendaele — vennero uccisi a decine e talvolta anche a centinaia di migliaia.
In guerra c’è la difesa e c’è l’offesa. Nella Prima guerra mondiale la difesa regnava sovrana. Il moschetto a canna rigata fu sostituito dalla mitragliatrice. Nel 1918 molti teorici militari pensavano che i progressi tecnologici avessero reso l’offesa la forma di guerra decisamente più debole. In tutta Europa le nazioni costruirono elaborati sistemi di difesa statica per proteggere i loro confini, ormai convinti che il volto della guerra fosse mutato per sempre.
Presto sarebbero stati smentiti. Proprio come il moschetto a canna rigata aveva ribaltato l’esito della battaglia quasi cento anni prima, nel 1940 un altro sviluppo tecnologico spostò nuovamente l’equilibrio. Si trattava del carro armato. A che cosa serviva una rete di difese statiche, ad esempio la Linea Maginot francese, quando un esercito nemico poteva semplicemente aggirarla? Fu quel che fecero i tedeschi nella famosa guerra lampo di quell’estate, cambiando per sempre il volto della battaglia. Molti direbbero che l’ultima grande guerra terrestre, simile alla guerra lampo tedesca, fu la sconfitta in cento ore dell’esercito iracheno da parte degli americani, durante la Guerra del Golfo del 1990.
Ironia della sorte, quando gli Stati Uniti tornarono in Iraq più di un decennio dopo, appresero quanto inefficace potesse essere un grande esercito convenzionale nell’affrontare forze non convenzionali di insorti. La guerra più rapida degli Stati Uniti contro gli iracheni, in Kuwait, portò a uno dei più lunghi conflitti in Iraq. La guerra era diventata asimmetrica. Gli attacchi con ordigni esplosivi improvvisati avevano sostituito le battaglie campali. Decapitare un singolo prigioniero su YouTube spargeva il terrore tra la gente come una volta facevano i raid aerei. Nel nostro mondo globale iperconnesso una divisione corazzata di carri armati non può far nulla per proteggere un Paese da attacchi come quelli al Bataclan di Parigi nel 2015 o alla Manchester Arena nel 2017. La guerra moderna è caratterizzata da insurrezioni e ribellioni. Ma come andrà a finire?
Quando combattevo in Afghanistan, i talebani dicevano: «Voi americani avete gli orologi, ma noi abbiamo il tempo». Sapevano che la fissazione dell’America per la tecnologia era una debolezza. La loro era una guerra a bassa tecnologia. Combattevano con fucili vecchi. Con esplosivi sepolti nelle strade. Con i cellulari invece delle radio criptate. E ci hanno combattuto con la pazienza. Sapevano che avremmo faticato a stargli dietro. Sapevano anche che avevamo la tendenza a ricorrere alla tecnologia per risolvere problemi, mentre a volte non esiste una soluzione tecnologica.
Alcune lezioni di quella guerra verranno raccolte dai teorici militari. La natura della guerra rimarrà però invariata. Come disse di essa Carl von Clausewitz, teorico militare dell’Ottocento e veterano di molte campagne napoleoniche, «il sangue è sempre il suo prezzo e il massacro il suo carattere». Le lezioni che una guerra trasmette alla seguente sono sempre le più costose, poiché vengono pagate con quel sangue.
Si prenda ad esempio il generale Lee, il vincitore di Fredericksburg. Nel luglio successivo combatté un’altra battaglia, la più significativa della sua carriera, in una cittadina della campagna della Pennsylvania posta a un incrocio: Gettysburg. La battaglia durò tre giorni. Nell’ultimo pomeriggio il generale Lee era convinto che le forze unioniste davanti a lui fossero stanche, deboli e pronte a crollare. Si erano riparate su una bassa collina dietro un muro, proprio come i confederati sette mesi prima. Nonostante tutto quel che il generale Lee aveva visto, non aveva dubbi sullo spirito combattivo dei suoi soldati.
Un luogotenente di Lee, il generale Longstreet, era stato con lui quel dicembre. Longstreet aveva capito la precisione devastante e la portata dei moschetti a canna rigata. Ma Lee non volle ascoltarlo. Ordinò quella che sarebbe stata definita la carica di Pickett, un assalto condotto attraversando trecento metri di terreno scoperto. Quel pomeriggio le forze unioniste vi avrebbero ucciso oltre un migliaio di soldati confederati. Lee avrebbe perso la battaglia, e con essa la guerra. Non sarebbe stato il primo generale, e sicuramente non sarà l’ultimo, a pagare un alto prezzo per non aver appreso una lezione, ma i soldati l’avevano imparata. Durante l’attacco dei confederati, gli unionisti dietro le mura scandivano: «Fredericksburg! Fredericksburg!», mentre scaricavano sui nemici i loro fucili.
(traduzione di Maria Sepa)

Corriere La Lettura 23.9.18
Cappellani militari in piena fioritura
di Marco Ventura


Un anno fa, papa Francesco pronunciò il suo no alla guerra giusta, rompendo con un concetto dalla lunga e gloriosa carriera nella cristianità. Difficile misurare l’impatto di quel passo a un anno di distanza, mentre aumenta il rumore di fondo di un mondo in armi. È nuova e grave la sfida per i cristiani di oggi, contemporanei dello stato di conflitto generalizzato, della mobilitazione permanente, del dispiegamento diffuso di forze. I seguaci di Cristo sono alle prese con due esigenze in conflitto tra loro. Da un lato i cristiani vogliono la pace: si attendono ogni parola e ogni iniziativa in tal senso dai loro leader religiosi e politici, dai teologi, dai pastori. Dall’altro lato, i cristiani devono combattere: per le loro nazioni e comunità, per la loro fede e cultura. La formula di Bergoglio sembrò offrire una risposta solo alla prima domanda: «Non mi piace l’espressione guerra giusta. Si dice: “Io faccio la guerra perché non ho altra possibilità per difendermi”. Ma nessuna guerra è giusta. L’unica cosa giusta è la pace». Alla seconda domanda, al persistente bisogno di legittimazione della guerra, rispondono i fatti: l’obiezione di coscienza alla guerra preme meno ai vescovi di quella ad aborto e nozze gay, i cappellani militari sono vivi e vegeti, prosperano i crocifissi sovranisti e nazionalisti.

Corriere La Lettura 23.9.18
Contestando s’impara
Istituzioni e teorie devono essere esposte alla critica
Sono i dissidenti che fanno progredire la conoscenza
Sollevare dubbi suautorità e tradizioni è un esercizio fecondo, mentre l’errore più grave è pensare di imporre le proprie idee quando i fatti le smentiscono
di Giulio Giorello


«Quel pensiero suscitava in Ulrich una forte commozione e un grande disagio: gli sembrava difficile tracciare la linea di confine fra criteri nuovi e distorsione di criteri comuni». Così Robert Musil nell’Uomo senza qualità descrive i dilemmi di chi si trova a cambiare il mondo, magari controvoglia. Dispone di vari strumenti intellettuali, come un fisico dispone di materiali strumenti di misura; ma i suoi sono strumenti che offrono valutazioni non di temperature, pesi, eccetera, bensì di complesse sezioni del processo storico in cui si trova immerso. Non è ovvio pensare che teoria e pratica siano indissolubilmente legate? Per agire non bisogna essersi formati un quadro soddisfacente della nostra stessa condizione? Viceversa, l’azione non è indispensabile per penetrare nei segreti di quel che stiamo studiando?
Ma non si danno sempre esempi di tale accordo; ed è una tipica illusione quella di poter individuare delle cause, più o meno nascoste, per poter intervenire su di esse e «pilotare» così il mutamento degli effetti. Non si rischia, in questo modo, di spaccare il mondo in una «struttura» e in una «sovrastruttura»?
Per esempio: se un pianeta «si comporta male» alla luce dei nostri schemi esplicativi, dobbiamo cercare con pazienza di adattare tali schemi all’anomalia. Ma che dire di una tecnologia che pretendesse di distruggere (ammesso che ne avesse i mezzi) il pianeta dal «cattivo» comportamento? Eppure, nella gestione degli affari politici e sociali vari «ingegneri di anime» hanno imboccato una via del genere, ricorrendo a interventi drastici e anche crudeli.
Non sarebbe stato meglio seguire il consiglio di Karl Popper, «far morire le nostre idee al nostro posto»? La critica che Popper ha fatto del marxismo è sintomatica: non era la sua una «volgare» liquidazione, come molti marxisti gli hanno rimproverato, bensì il riconoscimento della portata di non pochi problemi sollevati da Friedrich Engels e da Karl Marx, e la loro riconcettualizzazione in un quadro differente. Siamo esseri finiti e fallibili: dobbiamo tener presente che possiamo sempre sbagliare, e che è solo la critica che ci consente di imparare dai nostri errori. E la natura di un errore dipende dalla tradizione che lo giudica: per la meccanica ottocentesca l’anomalia riscontrata nell’orbita di Mercurio era un segno del fatto che non si sapevano prendere in considerazione tutti gli influssi classici; per la teoria della relatività generale era invece un indizio dell’inutilizzabilità delle nozioni tradizionali di spazio, tempo e materia.
Le «piccole difficoltà», diceva Niels Bohr, «spinte alle conseguenze più estreme» possono divenire ineliminabili «questioni di principio» (procedere in una trasformazione del genere era una sorta di «arte», molto sottile, ma anche assai potente).
Ma perché ciò possa verificarsi occorrono «una larga varietà di caratteri e una completa libertà della natura umana di espandersi in direzioni innumerevoli e contrastanti». Queste non sono parole di Popper o di Bohr, bensì di John Stuart Mill, nel suo Saggio sulla libertà. Erano i primi anni della seconda metà dell’Ottocento. Pressoché un secolo dopo (1951) scriveva Bertrand Russell: «C’è, nel complesso, molta meno libertà oggi di quanta ce ne fosse cento anni fa; e non c’è ragione di supporre che le restrizioni alla libertà siano destinate a diminuire in un futuro prevedibile». E non c’era ancora il conformismo veicolato dalla Rete.
A Mill il giudizio di Russell sarebbe apparso come il presentimento di un disastro, per l’impresa scientifica e per la stessa politica. «In ogni campo in cui è possibile una differenza di opinioni, la verità dipende dall’individuazione dell’equilibrio tra due gruppi di ragioni contrastanti. Anche nella filosofia naturale (cioè nella scienza) è sempre possibile fornire un’altra spiegazione degli stessi fatti», aveva dichiarato in quel Saggio. Non contestava che alla fine i punti di vista più adeguati avrebbero prevalso. Copernico era stato inizialmente visto come un folle, ma col passare dei decenni (o dei secoli) persino le diverse Chiese cristiane lo avevano accettato. E ancora Mill: «Se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua verità come lo sono. Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a dimostrarle infondate». Mezzo secolo dopo sarebbero venuti scienziati come Max Planck, Albert Einstein e Niels Bohr. Mill aveva lottato per la possibilità stessa di una qualunque ribellione come garanzia che quelle idee e quelle pratiche, che avevano in passato scandito i passi del rinnovamento, non si tramutassero in una nuova «ortodossia» autoritaria che si limitasse a sostituire quella di un tempo.
In ciò era stato buon profeta. Per esempio: «La scienza ha bisogno della libertà». Questo è stato il motto scelto da Jean-Michel Raimond quando nel 2014 gli è stato conferito a Como il premio Eps Edison-Volta, istituito per riconoscere l’eccellenza nella ricerca d’avanguardia. Quella di Raimond aveva violato alcune premesse date per scontate da uno dei «padri fondatori» della fisica quantistica, Erwin Schrödinger. Senza andare nei dettagli, aggiungerei che ho sentito Raimond richiamare anche la battuta complementare: «E la libertà ha bisogno della scienza», cioè di quel gioco di dissensi da cui possono emergere idee e pratiche innovative: divergenze non solo rispetto al «senso comune», ma anche rispetto ai pregiudizi degli stessi competenti, in ogni aspetto dell’attività umana.
Negli anni che avevano preceduto l’ideazione del Saggio sulla libertà, Harriet Taylor, che rappresentava per Mill non solo la compagna della vita, ma anche l’ispiratrice di quanto di meglio lui stesso avrebbe potuto mai scrivere, dichiarava: il mondo «si sta liberando solo adesso del dispotismo monarchico. Si sta liberando solo adesso della nobiltà feudale ereditaria. Si sta liberando solo adesso delle interdizioni basate sulla religione. Sta iniziando solo adesso a trattare tutti gli uomini, e non soltanto i ricchi e una parte privilegiata della classe media, come cittadini. Possiamo sorprenderci che non abbia fatto ancora altrettanto con le donne?» La «piena libertà di scelta» che Harriet esigeva — non diversamente che per gli scienziati — consisteva in un esercizio del dissenso senza alcun vincolo arbitrario. Solo il diretto interessato è il giudice del proprio bene, deve rispettare unicamente il principio dell’assenza di danno ad altri.
Per fare un esempio: Harriet Taylor aveva lucidamente compreso che il diritto di disporre del proprio corpo era la premessa dell’emancipazione dello spirito. In un breve testo Sul matrimonio (1832-1833) aveva proclamato che «il sesso sembra essere il modo in cui si manifesta tutto ciò che è più elevato, migliore e più bello nella natura degli esseri umani». E proprio «ciò significa solo che chi gode maggiormente è massimamente virtuoso». Allora come oggi questa resta una verità detestata dai bigotti di ogni risma, che invece può essere fatta propria (parole di Harriet) solo da quelle «nature poetiche che lottano contro la superstizione».

il manifesto 23.9.18
Casa Pound violenta, assalto a Bari contro gli antirazzisti
La peste nera. Violenta aggressione dopo un corteo di protesta contro Salvini Ferita anche l’europarlamentare Eleonora Forenza. Due manifestanti feriti gravemente. Trenta militanti di Casa Pound identificati E la polizia carica chi protestava contro la Lega. Martedì prossimo presidio in piazza Prefettura
di Gianmario Leone


TARANTO Per una notte Bari è tornata agli anni ‘70, quando gli scontri di piazza tra rossi e neri erano all’ordine del giorno. Sino a culminare la sera del 28 novembre del 1978 con l’omicidio di un operaio diciottenne, comunista, Benedetto Petrone. Che morì con il ventre squarciato da una coltellata, assassinato in un agguato di squadristi del Fronte della Gioventù.
Venerdì sera, nel quartiere Libertà in via Crisanzio, si è sfiorata una nuova tragedia. Quando un gruppo di persone aderenti a Casa Poundha deciso di aggredire con spranghe, cinghie e tirapugni, un gruppo di persone che avevano da poco terminato di sfilare nel corteo antirazzista «Bari non si Lega», organizzato dalla rete Mai con Salvini.
Due i feriti più gravi: Antonio Berillo, 36 anni, napoletano, militante di Alternativa Comunista e assistente parlamentare dell’eurodeputata Eleonora Forenza, eletta con la lista ‘L’Altra Europa con Tsipras’ ed esponente di Potere al Popolo, e Giacomo Petrelli di Alternativa Comunista, che hanno riportato lesioni alla testa e al volto medicate con punti di sutura.
Oltre a loro due, hanno fatto ricorso alle cure dei medici la stessa Forenza per stato d’ansia e Claudio Riccio, già candidato di Leu e aderente a Sinistra Italiana, colpito da una cinghiata al viso parata con le mani.
L’aggressione è avvenuta nello stesso quartiere che, una settimana fa, ha ospitato il ministro dell’Interno Matteo Salvini (che ha condannato l’episodio di ieri sera) e dove un gruppo di residenti, capeggiati da Luigi Cipriani responsabile del movimento Riprendiamoci il futuro, aveva avviato una raccolta firme per «cacciare gli immigrati irregolari che hanno invaso il nostro quartiere» sostenuta anche dagli esponenti locali del Carroccio.
Ieri mattina è stata trasmessa in Procura un’informativa con una prima ricostruzione dei fatti e i nomi di circa trenta militanti di Casa Poundidentificati nella notte: almeno otto dei quali avrebbero partecipato attivamente all’aggressione. Sono in corso di acquisizione, inoltre, i filmati di una telecamera posta a pochi metri dal luogo dello scontro. Stando a quanto lasciato trapelare da fonti investigative, un primo gruppo di manifestanti, dopo il corteo, sarebbe passato davanti alla sede di Casa Poundurlando «fascisti di m…».
I militanti di estrema destra a quel punto avrebbero reagito prendendosela, però, con un secondo gruppo di manifestanti che passava di lì tornando a casa. Versione molto simile a quella fornita dai militanti di Casa Pound, che hanno dichiarato di aver agito per ‘difendere’ la loro sede di via Eritrea, da un attacco di un gruppo di manifestanti dei centri sociali.
Completamente diversa invece la versione dei fatti fornita dal gruppo dei manifestanti, in primis dell’europarlamentare Forenza, che hanno dichiarato di essere stati inseguiti e aggrediti dai militanti di destra all’improvviso, alle spalle, senza apparente motivo.
L’eurodeputato ha infatti dichiarato che mentre ritornavano verso le loro autovetture, si sono fermati per assistere una donna eritrea in compagnia di un’amica e di una bambina piccola, impaurite dal dover attraversare via Crisanzio, presidiata da un gruppo di persone di Casa Pound. Dal quale a un certo punto si sono staccati 4-5 persone che hanno prima aggredito verbalmente e poi colpito violentemente l’eurodeputato e le persone presenti in quel momento con lei.
Subito dopo l’aggressione, diverse decine di attivisti e militanti antifascisti si sono ritrovati in via Crisanzio, scortati da polizia e carabinieri in assetto antisommossa che, per disperdere i manifestanti, hanno anche tentato una carica di alleggerimento. Tra cori e striscioni la tensione è poi durata fino a mezzanotte inoltrata.
Il giorno dopo, sono tantissime le prese di posizione sull’accaduto.
«L’aggressione fascista di cui è stato vittima ieri sera un gruppo di manifestanti antirazzisti a Bari suscita sdegno e seria preoccupazione. Con metodo già visto tristemente in passato, gli aggressori hanno preso di mira alcuni manifestanti isolati. I picchiatori hanno agito indisturbati, usando i loro locali come base di partenza e di rientro, e palesemente preparati visto che hanno adoperato oggetti contundenti come mazze e cinghie. Va accertato e severamente sanzionato il comportamento delle forze dell’ordine assenti durante l’agguato nelle vicinanze della sede di Casa Pound e quindi non impedendo lìaggressione e il ferimento dei pacifici manifestanti» afferma in una nota il Coordinamento Antifascista Provinciale e Regionale, di cui fanno parte Anpi, Arci Bari, Arci Puglia, Cgil Bari, Cgil Puglia, Libera Puglia, Link Bari, Rete della Conoscenza Bari – Zona Franka, Rete della Conoscenza Puglia, Unione degli Studenti Bari, Unione degli Studenti Puglia.
Che ha convocato per martedì un presidio antifascista in piazza Prefettura. Proprio dove morì Petrone.

La Stampa 23.9.18
Identificati 30 militanti di CasaPound per l’aggressione a Bari
di Elisa Forte


Una manifestazione antirazzista e i militanti di CasaPound. Il contesto è il difficile quartiere Libertà di Bari. La miscela è esplosiva e alla fine è esplosa. E lo ha fatto sotto forma di aggressione che ha come bilancio una città scossa, trenta militanti di CasaPound identificati e quattro feriti: Antonio Perillo, assistente parlamentare dell’eurodeputata Eleonora Forenza (Potere al Popolo) e Giacomo Petrelli, militante di Alternativa Comunista, hanno rimediato nove e tre punti di sutura alla testa. Mentre Forenza e Claudio Riccio, già candidato di LeU, sono stati in ospedale dopo esser stati colpiti con forti cinghiate. Per loro la prognosi è di 5 giorni.
Il Libertà è il quartiere popolare multietnico a ridosso dell’elegante centro murattiano dove si fa fatica a contenere situazioni gravi. «Ci sono risse quotidiane tra migranti e residenti» raccontano. In questa polveriera sociale, il 13 settembre arrivò anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini per promettere più forze dell’ordine. E il sindaco Antonio Decaro, dopo l’aggressione, sembra alludere proprio al ministro dell’Interno nel dire: «Esistono dei mandanti morali. Sono tutti quelli che, con parole di finto buonsenso, alimentano un clima di odio», dice. Salvini condannerà l’aggressione qualche ora dopo: «Se uno pesta un altro essere umano, può essere giallo, rosso o verde, il suo posto è la galera».
Intanto la polizia lavora sulla dinamica. Per ora si sa che almeno otto militanti di CasaPound avrebbero partecipato all’aggressione. Sono stati acquisiti filmati, anche perché le due versioni sono opposte. Perché gli attivisti di sinistra si sono ritrovati davanti alla sede di CasaPound quando la manifestazione «Mai con Salvini - Bari non Lega» era già terminata e dov’era andato tutto liscio? Spiega l’europarlamentare Forenza: «Stavamo scortando una ragazza etiope, cittadina italiana, che insieme alla sua amica aveva paura di passare davanti alla sede di CasaPound per rientrare a casa con la sua bambina di un anno nel passeggino», racconta. Alem Mulu conferma: «Ci hanno chiamate merde, ci hanno detto qui comandiamo noi. Lì vicino c’è la moschea e non era mai successo nulla».
I militanti di CasaPound, invece, dicono di essersi difesi: «Siamo stati provocati più di una volta. Abbiamo fermato un tentativo di assalto alla sede», dicono.
Dopo l’aggressione è stato organizzato, per martedì prossimo, un presidio antifascista alle 18,30 in piazza Prefettura. E gli organizzatori già promettono altre iniziative.

il manifesto 23.9.18
Bari-Italia, la protesta necessaria
Contro la barbarie. Solo una mobilitazione di massa e unitaria che alzi la voce contro la barbarie affluente fatta di esclusione e marginalizzazione degli sfruttati tutti; che prescinda da schemi precostituiti, ritualità ed esigenze di parte - come chiedono migliaia di nostri lettori e non solo -, può essere la risposta. Che sia radicata in mille rivoli sociali, ma che alla fine insieme si renda visibile
di Tommaso Di Francesco


Merita una riflessione l’aggressione squadrista a Bari di Casa Pound contro un gruppo di antifascisti che aveva partecipato ad una protesta contro la nuova barbarie rappresentata dalle politiche contro i migranti del ministro degli interni Salvini. Non solo perché sono stati presi di mira esponenti importanti della sinistra, come l’eurodeputata Eleonora Forenza eletta con la lista L’Altra Europa per Tsipras che ha testimoniato dell’aggresione subìta, Antonio Perillo assistente della Forenza finito al pronto soccorso della clinica Mater Dei con una grave ferita alla testa, e Claudio Riccio di Sinistra italiana, candidato alle politiche di marzo alla Camera dei deputati per Liberi e Uguali.
Il fatto è particolarmente inquietante perché accade dopo le tante manifestazioni antirazziste «spontanee», da Catania a San Babila a Milano; e particolarmente grave perché porta a compimento una settimana “nera” – ormai un elenco infinito che preoccupa anche l’Onu – che si è aperta il 16 settembre con la devastazione a Milano della Scuola di cultura popolare di Via Bramantino, messa a soqquadro e imbrattat di svastiche e scritte «Viva Salvini», inequivocabili. Non risulta che dal vice-premier leghista siano arrivate prese di distanza su Via Bramantino. Stavolta invece su Bari ha parlato, ed era meglio che non l’avesse fatto,perché ha ripetuto il mantra della sua presunta neutralità.
«Se uno pesta un altro essere umano può essere giallo, rosso o verde, il suo posto è la galera. – ha detto – Poi da ministro dell’interno devo andare oltre la notizia». Siamo insomma all’anticamera degli opposti estremismi.
Ma fascisti e antifascisti non sono la stessa cosa nella storia della Repubblica e della democrazia italiane. E qui c’è una sede «politica» e un gruppo di manipoli che non rinnegano il richiamo esplicito al fascismo. Con la Costituzione e le leggi alla mano – vecchie e nuovissime – bisognerebbe andare bel oltre le identificazioni dei 30 militanti di Casa Pound che hanno partecipato all’agguato: bisognerebbe dunque passare a vie di fatto ben più esplicite per fermare una buona volta per tutte questa peste nera criminale. Vista anche la «metodologia» professionale dell’aggressione, con cinghie, catene e tirapugni, e con una violenza esercitata anche «in mezzo a bambini», secondo i testimoni e le vittime che l’hanno subita.
Non accadrà naturalmente nulla di tutto questo. Eppure, come ha dichiarato il sindaco di Bari Antonio De Caro l’aggressione al termine di un pacifico corteo antirazzista ha precisi «mandanti morali»: tutti quelli che «ogni giorno, subdolamente alimentano un clima di odio, di pregiudizio, di violenza» che «soffiano sul fuoco della paura».
E aggiungiamo, che ormai i picchiatori di Casa Pound e l’intera costellazione neofascista si considerano come la milizia d’avanguardia dell’operato istituzionale del ministro degli interni Salvini. Com’è accaduto, in molte parte d’Italia, in occasione della Circolare Salvini contro gli ambulanti in spiaggia. Dove la percezione della giustizia italica che è stata lanciata dal neoministro degli interni non era quella di considerare fuorilegge la grande quantità di stabilimenti che hanno illegalmente usurpato il bene pubblico dell’accesso al mare, ma i poveri cristi che vendono cappelli e collanine. È la giustizia nazional-populista, bastano la percezione e, manco a dirlo i sondaggi.
Torna dunque forte la necessità di una risposta, visibile e in piazza, che sia di massa e unitaria contro la barbarie che ci circonda, quella di Salvini che ha così profondamente ispirato in chiave nazional-corporativa le pratiche del «nuovo» governo. Contro cui, nelle istituzioni, si leva solo la voce flebile, a rischio inutilità, del presidente della Camera Roberto Fico. Perché la settimana nera si è conclusa con il vergognoso compiacimento del vicepremier Di Maio del fatto che «non ci sono più Ong nel Mediterraneo», pronunciato a poche ore dal rifiuto della nave Aquarius di riconsegnare migranti soccorsi in mare alle «autorità» libiche e dalla denuncia dell’Unhcr che i propri inviati non hanno più accesso ai centri di detenzione ufficiali dell’area di Tripoli, dove si combatte e dove vengono portati i migranti scampati al naufragio o respinti.
L’aggressione di Bari richiama la condizione complessiva dell’Italia in questo momento di buio pesto a sinistra. Dell’Italia dove ieri è arrivato in missione «internazionale» l’ideologo della destra sovranista mondiale, Steve Bannon – i razzisti a quanto pare fanno i conti con il cosiddetto mondialismo – a cercare adepti per la sua campagna d’odio. Nell’Italia diventata, non all’improvviso, l’anello più debole della democrazia rappresentativa e spina nazionalista nel fianco della colpevole Europa unita, fin qui realizzata solo da moneta, mercato e vincoli di bilancio.
Solo una mobilitazione di massa e unitaria che alzi la voce contro la barbarie affluente fatta di esclusione e marginalizzazione degli sfruttati tutti; che prescinda da schemi precostituiti, ritualità ed esigenze di parte – come chiedono migliaia di nostri lettori e non solo -, può essere la risposta. Che sia radicata in mille rivoli sociali, ma che alla fine insieme si renda visibile.

il manifesto 23.9.18
«Lo squadrismo va fermato. Bisogna tornare in piazza senza farci intimorire»
Intervista all'eurodeputata Eleonora Forenza. «Il clima politico attuale favorisce questo scenario. Puntare continuamente il dito contro la presunta invasione di migranti legittima i fascisti ad agire come meglio credono»
di Gianmario Leone


L’indignazione e la rabbia del giorno dopo. Per chi da una vita si batte per i diritti degli ultimi, contro l’arroganza e la prepotenza di chi invece ancora oggi, incredibilmente, ha ancora diritto di parola e di azione in questo Paese.
Eleonora Forenza, cos’è accaduto esattamente venerdì sera a Bari?
Avevamo da poco terminato di sfilare alla manifestazione antifascista “Bari non si lega”, tornavamo verso le nostre macchine, quando ci siamo fermati per prestare assistenza ad una ragazza eritrea visibilmente impaurita. Insieme ad un’amica e ad una bambina piccola, dovevano attraversare via Crisanzio, dove abitano, che però in quel momento era del tutto bloccata perché presidiata dai militanti fascisti di Casapound. E in questo quartiere avere la pelle scura non ti fa certo stare tranquilla. Un gruppo di questi squadristi, almeno cinque, ci è venuto incontro, aggredendoci verbalmente, per poi passare alle vie di fatto, colpendo il nostro gruppo di persone con mazze e cinghie, lasciando due compagni a terra. Il mio assistente, Antonio Perillo, 36 anni, è ora all’ospedale Mater Dei con trauma cranico. Ci hanno urlato: “Ve ne dovete andare”. La via non era presidiata dalle forze dell’ordine, non c’era alcun controllo: nonostante il nostro corte sia stato guardato a vista da decine di agenti. Possibile che non era stato predisposto alcun controllo? Le forze dell’ordine sono arrivate quando tutto era finito. E alla fine le cariche sono state riservate ai compagni giunti per protestare contro la vile aggressione di cui siamo stati vittime.
Plenary session week 29 -2014, Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP)
Quanto accaduto a Bari, indubbiamente, è anche il frutto del clima politico del momento, dell’aria che da tempo si respira.
Certamente è così. Il clima politico attuale favorisce questo scenario. Puntare continuamente il dito contro la presunta invasione di migranti sul tema dell’emergenza sicurezza, portare avanti una politica di sgomberi di case e luoghi di aggregazione, dotare le forze dell’ordine di nuovi strumenti di repressione, non fanno altro che favorire i comportamenti di queste forze neofasciste, che si sentono legittimate ad agire come meglio credono.
La presenza di queste organizzazioni neofasciste è sicuramente un tema su cui riflettere e sul quale agire, anche e soprattutto politicamente.
Il tema è proprio questo: ovvero il fatto che in moltissime città italiane siano presenti sedi di questi gruppi neofascisti. Continueremo a chiedere alle Istituzioni la chiusura di queste sedi fasciste. È inaccettabile che un covo di fascisti sia aperto in pieno centro in una città come Bari. Questo governo fa del razzismo e del fascismo un elemento della sua cultura politica. Un fatto come quello di venerdì sera riporta questa città e questo Paese ai tempi più bui e credo che sia inammissibile, intollerabile.
Non bisogna quindi indietreggiare. Quali le prossime iniziative?
Oggi occorre una reazione di tutta la città: è importante che la Bari antifascista torni in piazza, che ricordi che questa è la città di Benedetto Petrone, senza farsi intimorire. Nei prossimi giorni ci mobiliteremo ancora perché non è un problema che riguarda solo Bari, ma nazionale. Lo squadrismo va fermato ad ogni costo. Resteremo a Bari e formalizzeremo la denuncia per questa aggressione fascista. Denunceremo quanto accaduto politicamente e per le vie giudiziarie.
Un presidio antifascista è stato organizzato in piazza Prefettura a Bari per martedì prossimo, 25 settembre, alle ore 18.30. È solo la prima di tante mobilitazioni «necessarie per dire con forza che Bari non accetta l’odio, il razzismo e la violenza fisica».

il manifesto 23.9.18
Bannon a Roma arruola Meloni
L'internazionale dei nazionalisti. L'ex stratega di Trump: «L’Italia è il nostro vero laboratorio politico». Dopo la Lega, anche i Fratelli d'Italia aderiscono a "the movement"
Steve Bannon alla festa Atreju dei Fratelli d'Italia a Roma
di Matteo Bartocci


ROMA Dai fratelli Gracchi (II sec. a. C.) a Donald Trump e Giorgia Meloni.
Ospite d’onore alla festa di Atreju, Steve Bannon ripete in un monologo la sua visione del mondo sparata in decine di comizi e post virali. Una rilettura semplicistica della società umana e degli ultimi dieci anni di globalizzazione, caratterizzati dalla feroce guerra del «partito di Davos» (Washington, Wall Street, Silicon Valley, Bruxelles e i media mainstream) contro «i popoli» della terra e i «valori giudaico-cristiani dell’Occidente».
Una sorta di «dio, patria e famiglia 2.0». L’ex stratega di Trump infatti si tiene alla larga da proposte concrete, svicolando apertamente dalle tre domande rivoltegli da un entusiasta Alessandro Giuli sull’inevitabile scontro dei vari nazionalismi, la necessità delle élite e le relazioni con il «patriota» Putin.
Bannon Meloni
Dopo la Lega, the movement, il «movimento populista mondiale» di Bannon arruola anche Giorgia Meloni e i Fratelli d’Italia.
«Dopo la vittoria di Trump alle elezioni midterm di novembre – promette Bannon – mi stabilirò in Europa per aiutare a vincere anche le elezioni di maggio». Minimizza però il suo ruolo: «Forniremo ai vari partiti le nostre data analysis, una war room permanente, sondaggi, tutto ciò che serve tecnicamente per vincere le elezioni».
La promessa è di «restituire la libertà agli italiani, nessuno potrà più dirvi cosa fare con il vostro paese».
La causa del populismo, spiega Bannon, è la crisi finanziaria del 2008, per la quale nessuno è andato in galera. È il denaro facile regalato a pacchi alle banche e non ai cittadini in difficoltà, è la disoccupazione, la gig economy, gli interessi sottozero sui risparmi, i superbonus a Wall Street.
«È l’1%», dice, parodiando la parola chiave di Occupy.
«Il partito di Davos vede la sua fine, e vi assicuro che sta preparando una nuova crisi finanziaria che farà sembrare quella del 2008 un picnic della domenica». Perché le élite non hanno remore a causare distruzione: «Guardate com’è ridotto il Medioriente, dove solo gli Usa hanno speso 7mila miliardi di dollari creando disastri e decine di stati zombie».
In un quadro apocalittico, in cui la prossima guerra vera si giocherà sui big data e le identità digitali di ciascuno, la lotta è all’ultimo sangue.
I popoli contro le élite. Per fare cosa? «Non sono qui per dire agli italiani cosa devono fare. Voi lo sapete. Userete il vostro buon senso e la vostra dignità – dice Bannon – hanno paura di voi perché i popoli sono una vera forza politica naturale, pura» (raw, in inglese, ndr).
Il processo di ri-nazionalizzazione delle masse globalizzate (chissà se Bannon ha studiato Mosse o Hobsbawm) è ancora agli inizi.
La vittoria di Trump e la Brexit sono viste come benzina su questa ossimorica «internazionale dei patrioti». Ma, avverte Bannon: ««L’Italia è l’esperimento politico più importante. Da qui può partire la rivoluzione». E, almeno su questo, non si può dargli torto.

Il Fatto 23.9.18
Bannon snobba i 5Stelle: “Nel 2019 vince la destra”
Da The Donald a “Georgia” - Lo show dell’ideologo americano ai “patrioti” italiani: “Il partito di Davos vi odia: faranno a voi quello che hanno fatto a Trump”
di Fabrizio d’Esposito


Bannonate sul populismo italico. Fino a qualche settimana, l’ormai celebre ideologo di Donald Trump, Steve Bannon, sommergeva d’entusiasmo e di speranze (sul Corriere della Sera) il governo gialloverde, tra la Lega di Matteo Salvini e il M5S di Luigi Di Maio (e Giuseppe Conte).
Nel giro di qualche giorno tutto muta e “Steve”, come lo appella adorante “Georgia” Meloni – “thank you Georgia, thank you Brothers of Italy”, che poi sarebbe Fratelli d’Italia, il partitino meloniano -, “Steve” dicevamo “cambia” governo all’Italia e parla come se Lega e FdI stessero insieme a Palazzo Chigi: “Il partito di Davos, l’élite vi odia e odia tutto quello che rappresentate. Cercheranno di distruggere i vostri leader con i media al loro servizio. Faranno a voi quello che hanno fatto a Trump”.
Forza e suggestione del sovranismo. Ché Bannon appare come uno stregone che evoca l’Apocalisse: “Tra venticinque anni la razza umana sarà distrutta se vincerà il partito di Davos”. Boato nell’area Carlo Magno della festa di Atreju a Roma, sull’Isola Tiberina. Ragazzini e donne, anziani e uomini maturi. Tanta paccotiglia fascista sulle t-shirt esibite. “Fortemente credere”. “Le radici profonde non gelano mai”. Il sovranismo americano di Trump incrocia l’eterna nostalgia plebea per l’Uomo Forte e per l’Impero. Ecco Alessandro Giuli, tra i papabili per il prossimo Tg2, che lo intervista: “Bannon questi sono patrioti che custodiscono la fiamma dell’identità italiana da oltre mezzo secolo”.
Dal Movimento sociale a “The Movement”, il raggruppamento di Bannon che muove alla conquista dell’Europa, cui Fratelli d’Italia ha aderito.
Uno stregone certo, ma trasandato, se non inguardabile. Bannon infila il tendone dell’area Carlo Magno poco dopo le diciotto. Poliziotti, security, volontari di FdI, la stessa Meloni formano il corteo trionfale. Lui indossa un pantalaccio blu con tasconi laterali; mocassini senza calzini; una camicia nera che pende da fuori, sull’ampio ventre; e una giacca scura rubata a qualche completo a coprire tutto. Un americano a Roma. Da quella che un tempo era la parte sbagliata.
Un’ora di show. Prima lo “spicccc”, come annuncia “Georgia”, indi l’intervista con il nostalgico Giuli. Bannon inchioda il sovranismo a pochi concetti che ripete in maniera ossessiva. Pensierini elementari ché il populismo è materia semplice.
“La crisi è colpa dell’incompetenza e dell’avidità del partito di Davos”.
“La vostra rabbia, la rabbia dei millennials esclusi, è un sentimento razionale. Voi siete la colla che tiene insieme la società, lavorate, pagate le tasse, crescete i figli ma le vostre risorse vanno all’un per cento che si accaparra tutto”.
“I migranti sono forza lavoro per i profitti dell’élite, che poi vi chiama xenofobi, razzisti e nativisti”.
Bannon predica il Verbo sovranista o populista, “io sono un populista perché la mia famiglia appartiene alla classe lavoratrice”, e si rivolge sempre a Salvini e “Georgia”, spiegando pure che la loro “rivoluzione”, che comprende la flat tax al 15 per cento, è stata anticipata da Brexit e Trump. “Sono qui perché tutto si tiene insieme”.
Il Nuovo Mondo sovranista va da New York a Mosca, “Putin è un vero patriota” (e qui la platea sembra cascare per l’ovazione), passando per l’Occidente giudaico-cristiano. L’Europa non è contemplata. Un mero accidente della Storia e del benedetto partito di Davos. Conta la civiltà nata ad Atene, Gerusalemme e Roma, soprattutto.
Bannon si lascia trascinare dall’enfasi e dalla retorica: “M’inchino davanti a voi, sono onorato di essere tra voi. Prendete esempio dal coraggio dei Gracchi che si batterono a favore dei poveri”.
Ergo: Meloni, La Russa, Santanchè, Crosetto come i fratelli tribuni che fecero la legge agraria contro il Senato romano. Chi fa Cornelia, la madre? Lo stregone trasandato non dimentica tutta l’Internazionale sovranista, ma la traduzione simultanea lascia un dubbio: cita solo Le Pen nipote o anche la zia Marine? Sottigliezze. Per il resto: “Trump, Farage, Salvini, Meloni”. Quella che formerà la nuova “élite di patrioti”.
La lunga campagna populista per le Europee è cominciata in riva al Tevere e al cronista sovviene un unico grande dubbio: ma a Bannon avranno spiegato che Brothers of Italy lotta sulla soglia del 4 per cento per entrare nel Parlamento di Strasburgo? Non proprio un dettaglio secondario.

Il Fatto 23.9.18
Piccoli leader crescono: la nuova destra europea
Alt-Right - Dall’austriaco Sellner al londinese Kassam. E adesso torna anche Marion Le Pen
di Andrea Valdambrini


Destra nuova, volti nuovi. Già al suo sorgere, la cosiddetta alt-right americana di Bannon e Trump, portò alla ribalta in Europa figure lontane dalla scena del potere come Marine Le Pen, Nigel Farage o Matteo Salvini. Ma per movimenti in crescita di consensi e alla ricerca di sintonia con un elettorato poco ideologizzato, la presenza di leader trentenni potrebbe non apparire troppo sorprendente. In particolare nell’anno in cui la galassia della destra del Vecchio continente fa prove di unità in vista dell’appuntamento elettorale europeo di maggio 2019. L’ultimo arrivato è l’austriaco Martin Sellner. Ventinove anni, capelli e occhiali alla Clark Kent, Sellner ha un passato da neonazista (“Non c’era alternativa, all’epoca mancava un partito patriottico di destra”, dice). Oggi è esponente di spicco di Generazione identitaria, movimento xenofobo nato in Francia nel 2012 ma diffusosi rapidamente anche altri paesi, Italia inclusa. Il gruppo è noto per azioni eclatanti, come aver affittato una nave l’estate scorsa per sabotare i soccorsi delle ong nel Mediterraneo. L’austriaco si era già messo in luce nell’aprile 2016 con un’irruzione nel teatro dell’Università di Vienna allo scopo di interrompere una pièce teatrale recitata da rifugiati siriani, spargendo finto sangue sul palcoscenico. Lo aiuta nella sua ascesa mediatica, il sodalizio con la compagna, la videoblogger americana 26enne Brittany Pettibone, altra ferma sostenitrice della teoria del “genocidio dei bianchi” da parte degli immigrati. A Vienna, dove l’ultraconservatore Sebastian Kurz è già al governo ad appena 32 anni, la stella di Sellner è sicuramente in ascesa. Più giovane ancora è la 28enne Marion Maréchal Le Pen, nipote della leader del RN Marine e del fondatore del FN Jean-Marie. Se la sua presenza in politica non è una novità, lo è piuttosto il suo ritorno, dopo un annunciato ritiro a vita privata all’indomani delle elezioni presidenziali del 2017 vinte dal rivale Emmanuel Macron. La ritroviamo a Lione, come direttrice dell’Issep, istituto universitario che si propone di formare la futura classe dirigente dell’estrema destra.
Compito simile a quello che si propone il 32enne Raheem Kassam, già collaboratore di Nigel Farage e direttore della sezione londinese del magazine online ispiratore dell’alt-right Breitbart News. Figura, la sua, complementare a quella di Sellner: tanto l’austriaco è guidato dalla ricerca della visibilità, quanto Kassam lavora nelle retrovie. Steve Bannon gli ha affidato la responsabilità di The Movement, la nuova “cosa” che vorrebbe unificare sotto la bandiera del sovranismo il più alto numero di partiti sovranisti europei prima del voto del prossimo anno. Come e più ancora dell’austriaco, il giovane Kassam pare riassumere in sé tutte le spiazzanti contraddizioni del suo fronte politico: di origini indiane ma nato a Londra e formato all’Università di Westminster, è un musulmano convertito all’ateismo e un feroce critico dell’islam della società multietnica. Non c’è più la destra “bianca” di una volta: questi trentenni sono anche il frutto di tutto quello che dicono di non volere.

La Stampa 23.9.18
Sovranismo, rosari e santini
Il nuovo cattolicesimo esibito
di Flavia Perina


Qualcuno ci scherza e su Google nasce il gruppo «Aridatece Andreotti», che inneggia alla sobrietà religiosa dei democristiani – gente che andava in chiesa quasi di nascosto, alle cinque di mattina – per contrapporla al cattolicesimo esibito dei leader del sovranismo italiano e specialmente di Giuseppe Conte, che oggi concluderà la sua tre giorni a San Giovanni Rotondo per le celebrazioni dei cinquant’anni dalla morte di Padre Pio. Un pellegrinaggio devozionale, per di più in pieno dibattito sulla manovra, rappresenta una novità assoluta. Ed è senza precedenti anche il siparietto con Bruno Vespa, quando Conte ha estratto dal taschino la medaglietta del santo che si porta dietro, come peraltro molte migliaia di italiani, per mostrarla in favore di telecamera.
È osservanza, sono radici culturali e famigliari (uno zio frate del presidente del consiglio si occupa di accoglienza al santuario) e però l’episodio si accompagna ad altri due clamorosi inediti: il bacio di Luigi Di Maio alla teca col sangue di San Gennaro nel Duomo di Napoli impazzito per il miracolo; il rosario tirato fuori da Matteo Salvini sui palchi comiziali di Milano e poi a Pontida. Un premier e due potentissimi vicepremier che sbandierano il loro attaccamento al culto sono una stranezza che stupisce i politici cristiani di vecchio conio come Marco Follini: nel nostro Paese, scrive sull’Huffpost, i cattolici «hanno sempre avuto una certa remora nel rendere evidente il nesso tra scelte di governo e i loro intimi sentimenti religiosi».
In realtà lo stile delle messe antelucane e della preghiera discreta finì già negli Anni Novanta. Per tutta la Seconda Repubblica, il ventennio Teocon, la religione è stata utilizzata dalla politica come una spada, ma era una spada lucida, affilata con il rigore teologico dei discorsi di Papa Ratzinger e impugnata non tanto dai cattolici quanto dagli atei devoti, da Giuliano Ferrara a Marcello Pera. Insomma, una complessa costruzione a uso delle élite, tanto che successe un putiferio quando il popolo tradusse a modo suo l’atto culminante di quella stagione, la Lectio Magistralis di Ratisbona, e decise che il Papa chiamava alla guerra santa contro l’Islam (la Curia impiegò mesi a ricucire i rapporti coi Paesi musulmani).
Il catto-pop ostentato della Terza Repubblica - Padre Pio, San Gennaro, il rosario - è un’altra cosa. Più Don Camillo che San Tommaso D’Aquino, più Frate Indovino che Vittorio Messori. È l’affidarsi al patrono, all’umiltà dell’Ave Maria. È Massimo Troisi che chiede il terno secco, il dialogo con la Madonna di Filomena Marturano, Don Matteo in bicicletta, al limite Lech Walesa che arringa gli operai con il santino della Madonna Nera cucito sulla giacca. È, insomma, identità popolare e sentimenti ancestrali, ed è evidente che esibire questo tipo di suggestione serve anche alla competizione con l’arcinemico dei sovranisti italiani, il capo dei buonisti, degli immigrazionisti, dei terzomondisti, insomma Bergoglio, il Papa argentino che invita alla tolleranza e all’accoglienza degli ultimi e risulta assai pericoloso proprio perché anche lui pop, popolare, forse populista.

Corriere 23.9.18
il progetto dei sovranisti e l’opposizione spiazzata
di Francesco Verderami


Nel ’94 i partiti della Prima Repubblica ritennero la vittoria elettorale di Berlusconi una parentesi che si sarebbe presto chiusa. Invece fu il preludio a un cambio di sistema. Allo stesso modo oggi le forze che sono state protagoniste della Seconda Repubblica scommettono su una breve durata del governo nato dal «contratto» tra M5S e Lega, come a voler respingere la tesi di un nuovo regime-change. Eppure la situazione sembra riprodurre lo scenario di ventotto anni fa, con l’aggiunta di altri due fattori: il primo è che stavolta — rispetto al ’94 — entrambi i blocchi politici sono stati travolti dal voto; il secondo è la postura assunta dalle forze sconfitte.
Tanto in Forza Italia quanto nel Pd è in atto un dibattito su come rapportarsi con i vincitori. È vero che Berlusconi ha un legame storico con il Carroccio, ma è altrettanto vero che rincorrere Salvini per stringere accordi alle Regionali, mentre il leader della Lega governa con Di Maio a livello nazionale, offre un’immagine di subalternità e prelude al passaggio di consegne in una coalizione che cambierebbe così la sua natura: non più a trazione popolare ma a trazione populista.
Sul fronte opposto i Democratici, quando andranno a congresso, dovranno sciogliere il nodo che già li divide e preannuncia di spaccarli: si può governare insieme ai grillini o il Pd deve restare alternativo al Movimento?
Il timore, a destra come a sinistra, è di dover scegliere se accucciarsi in ruoli ancillari o trasformarsi in partiti di testimonianza. Anche perché Cinquestelle e Lega oggi paiono controllare il sistema da una posizione centrale rispetto al Pd e Forza Italia, che per tradizione e provenienza sono impossibilitati a coalizzarsi. Su questo Di Maio e Salvini fanno affidamento per suggellare la nuova stagione politica. E il loro esecutivo ha ormai riflessi internazionali.
In vista del voto per l’Europarlamento, dove viene pronosticata una forte avanzata del fronte sovranista, gli argini che i partiti tradizionali stanno tentando di costruire si mostrano come altrettanti indizi a sostegno della tesi del regime-change.
Come valutare altrimenti la posizione assunta dal tedesco Weber, candidato di punta del Ppe alla presidenza della Commissione, che si è detto favorevole al dialogo con i populisti per il futuro «governo» di Bruxelles? E sull’altro versante, quale appeal può avere sull’elettorato di sinistra l’idea — sponsorizzata dal Pd — di costruire un eterogeneo cartello tra Pse, Macron e Tsipras? Sembra una riedizione dell’alleanza tra Prodi, D’Alema e Bertinotti, nata per arginare il berlusconismo e che fu foriera di continue crisi interne.
Insomma, l’impressione è che al momento tutto sia mosso da una logica emergenziale, quasi di sopravvivenza. La crisi del sistema ha lasciato le forze che lo hanno guidato prive di idee e di leader. E il dileggio o l’offesa come forma di reazione aggiungono un ulteriore indizio alla tesi della nuova fase: il «merde alors», pronunciato dal ministro lussemburghese Asselborn contro Salvini, evoca il gesto del socialista belga Di Rupo che nel ’94 rifiutò di stringere la mano a Tatarella, vicepremier del governo Berlusconi.
E più i tentativi di risposta si mostrano affannosi, più viene messo in risalto per contrasto il disegno dei partiti antagonisti, che hanno costruito nel tempo il loro progetto: i grillini infatti partirono più di dieci anni fa alla conquista di Roma con il primo «vaffa-day»; e sono serviti cinque anni a Salvini per risollevare la Lega e trasformarla in un movimento a dimensione nazionale. La loro prova di governo aiuterà a capire se un vero processo è in atto o se si tratta solo di una bolla. Finora nell’esercizio del potere sono risaltati soprattutto visioni e interessi confliggenti che minacciano costantemente di sfociare in una crisi.
Ma oggi l’eventuale fallimento di questa esperienza non garantirebbe ai partiti avversari una rivincita. Per sopravvivere ai banchi dell’opposizione può bastare far l’elenco delle contraddizioni (sull’uscita dall’euro), delle retromarce (sulla chiusura dell’Ilva) o delle incertezze (sui vaccini), che l’alleanza giallo-verde ha già inanellato. Per costruire un’alternativa serve invece disegnare un nuovo orizzonte, progettare un rilancio sostenibile dell’economia reale che aiuti finalmente i cittadini ad innaffiare i loro giardini arsi. E serve il tempo necessario a far emergere nuovi leader, credibili quanto capaci di misurarsi anche in un nuovo sistema.

Repubblica 23.9.18
La primavera dell’Anpi: “Boom di nuovi iscritti contro il vento di destra”
Cinquemila tesserati in più rispetto al 2017. A sorpresa sedi aperte anche nelle periferie. “A ruba fazzoletti rossi e le spillette”.
di Matteo Pucciarellu

Trecento nuove tessere dopo il voto del 4 marzo. Roma, Genova, Bologna: circa 200. Venezia: 150. Firenze: almeno 40 nella sola sezione centro. Finanche Catanzaro, città che la Resistenza non l'ha vissuta direttamente: una trentina. In Italia il vento della destra soffia forte e a sinistra rimane solo una associazione che riesce non solo a tenere ma anzi a crescere. È quella dei partigiani, l'Anpi: 125mila iscritti nel 2017 che saranno (è una stima) 4-5mila in più a fine 2018.
Un fenomeno in controtendenza rispetto all'orientamento generale: "Il contesto è abbastanza preoccupante, si respira un'aria generale e diffusa di intolleranza molto forte ma questo paradossalmente ci rafforza. Siamo felici di essere considerati una casa comune capace di difendere i diritti e la Costituzione", dice Roberto Cenati, presidente dell'Anpi milanese. Proprio a Milano il 30 settembre è attesa un'altra manifestazione contro il razzismo e l'omofobia organizzata dall'associazione partigiani insieme ai "Sentinelli", e sarà una sorta di bis dopo quella (riuscita) del 28 agosto scorso e contro l'arrivo del primo ministro ungherese Viktor Orbán. Anche l'iniziativa delle magliette rosse, questa estate, fu spinta molto proprio dall'Anpi.
Dopo che l'8 settembre al festival di Venezia l'attrice Ottavia Piccolo fu fermata dalle forze dell'ordine perché portava al collo il fazzoletto dell'associazione partigiani - voleva partecipare a un presidio contro gli infortuni e la precarietà nel mondo del lavoro - in molte sezioni sono arrivate altre richieste di tesseramento.
"Le nostre scorte di fazzoletti rossi e spillette sono finite in due giorni, è arrivata a chiedercele gente che non avevo mai visto", racconta il calabrese Mario Vallone. A Roma quest'anno l'Anpi ha aperto nuove dieci sezioni, in periferia (Montespaccato, Primavalle) e in provincia (Genzano, Valle Aurelia), "ma il boom c'è stato questa estate: personalmente non avevo mai visto nulla del genere, così tanto interesse attorno a noi. E vedere che le richieste arrivano specie dalla periferia, dove l'estrema destra è in ascesa, ci fa ben sperare", sottolinea il responsabile provinciale Fabrizio De Sanctis.
A dire il vero la lacerazione referendaria a sinistra del 4 dicembre 2016 - il Pd da una parte, Anpi e Cgil per il "no" - aveva fatto perdere numerose adesioni, anche eccellenti, all'associazione. Come il partigiano bolognese Franco Fontana. "Il quale però ha ripreso la tessera quest'anno", spiega Anna Cocchi. Acqua passata, assicura il genovese Massimo Bisca: "Quella ferita si è rimarginata. E oggi succedono cose incredibili. La scorsa primavera organizzammo un incontro al centro parrocchiale di San Fruttuoso per parlare di sacerdoti della Resistenza. Pensavo non venisse nessuno e invece la sala era piena, più di cento persone. Capisce? In parrocchia!".
In provincia di Venezia l'Anpi ha una sezione in 35 comuni su 44. "Le sezioni dei partiti non esistono più, anche in chiesa di politica si parla poco e nulla: rimaniamo noi", sorride Diego Collovini. Nella Toscana una volta rossa e oggi giorno dopo giorno sempre più "nero verde", gli universitari dell'Udu assieme agli studenti medi di Firenze hanno sottoscritto una quarantina di tessere. Arrivano i giovani ma pure le donne, "il comitato direttivo di Magenta è a maggioranza femminile, altro che quote rose", spiega Cenati.
I numeri dell'associazione sono questi: 107 comitati provinciali, 1.500 sezioni, 17 coordinamenti regionali, sette sedi all'estero, quasi 8mila scelte di 5 per mille nel 2016 (è l'ultimo anno disponibile sul sito dell'Agenzia delle entrate) che hanno portato in cassa 250mila euro, un giornale online, Patria indipendente."Stiamo facendo anche un intenso e partigiano lavoro sui social network - aggiunge Andrea Liparoto della segreteria nazionale - Nonostante "i nipotini del Duce" non manchino di aggredirci con frequenza e bestialità di famiglia, stiamo costruendo una circolazione di informazione e radici di tutto interesse. La vicenda di Ottavia Piccolo è parte sicuramente rilevante di questo percorso di crescita. Andiamo avanti, lo dobbiamo alla Resistenza, a quella splendida e attualissima gioventù".
Di partigiani veri e propri ne sono rimasti in pochi ormai, ovviamente per mere ragioni biologiche (sono circa 4mila quelli iscritti). Nel 2006 si decise che l'associazione non poteva morire insieme ai propri fondatori e quindi bisognava aprirsi a tutti. Così l'Anpi, nonostante l'età, continua ad apparire giovane: "La coerenza ai propri valori paga", dice De Sanctis".

il manifesto 23.9.18
Il razzismo «vintage» è una lezione di storia
Intervista. Spike Lee parla di «BlacKKKlansman», il suo nuovo film che uscirà nelle sale italiane il prossimo 27 settembre. «Dobbiamo votare tutti alle elezioni midterm di novembre, è la nostra ultima possibilità»
di Luca Celada


Graffiante, eversivo e spassoso, BlacKKKlansman è il film che lo scorso maggio ha resuscitato una Cannes (e un Festival) da un torpore catatonico, una sveglia sulle note dei Temptations (Ball of Confusion) sparati a palla sulle algide scalinate del Palais. Nel suo ultimo film Spike Lee remixa il suprematismo di Via Col Vento, D.W. Griffith e la blaxploitation di Pam Greer e Richard Roundtree. Cita a lungo Stokely Carmichael e le Pantere Nere e mette Harry Belafonte seduto sul trono di vimini di Huey Newton a raccontare un linciaggio sudista.
Il pretesto è l’assurda storia (vera) del primo agente afro americano nella bianchissima polizia di Colorado Springs (John David Washington – figlio di Denzel) che si infiltra in una cellula del Ku Klux Klan. Il razzismo «vintage» punta però dritto agli attuali titoli dei giornali dato che come ha dichiarato il regista: «Il nostro mestiere di filmmaker ci impone di collegare il presente al passato. Ciò che sta accadendo oggi non è uscito dal nulla. Occorre ritornare a quanto avvenne negli anni Settanta e molto prima ancora . È il momento di andare a lezione di storia».
Un’invettiva satirica dunque contro l’America vomitata da Trump e un film che crea un intenzionale cortocircuito fra i fantasmi suprematisti della cattiva coscienza nazionale e le intemperanze fascistoidi dell’attuale rigurgito eugenetico. Spike utilizza il registro grottesco (non a caso il produttore è Jordan Peele di Get Out) per il suo film più sperimentale e torna alla forza di Do The Right Thing. Un cinema militante tutto «del momento», una simmetrica controparte fiction al Fahrenheit di Michael Moore che conclude sulle vere e agghiaccianti immagini di Charlottesville – la strage neonazista avvallata da Trump. E Spike Lee ha voluto che il film uscisse nelle sale americane n America nel primo anniversario esatto di quei fatti. BlacKKKlansman in Italia arriverà in sala giovedì prossimo. Abbiamo incontrato Spike Lee tra Cannes e Los Angeles.
Era importante uscire nell’anniversario di Charlottesville?
Quando abbiamo iniziato a pensare al modo migliore per distribuire il film, ci siamo messi d’accordo per la partecipazione al Festival di Cannes. Poi ho guardato il calendario e mi è sembrato giusto essere in sala per quell’anniversario. Non è stata una decisione di marketing, l’idea era soprattutto rendere omaggio a Heather Heyer, che quel giorno ha perso la vita, e ricordare cosa è successo quel weekend di razzismo. È stato un omicidio e abbiamo un tizio alla Casa bianca – nemmeno voglio dire il suo nome – che in un momento cruciale, non solo per l’America ma per il mondo avrebbe potuto dire che la nostra nazione sceglieva l’amore invece dell’odio. Ma quel fottuto stronzo non ha denunciato il fottutissimo Ku Klux Klan, la alt-right e nemmeno i fottuti nazisti! La nostra cosiddetta democrazia: tutte palle. Gli Stati uniti sono stati costruiti sul genocidio dei popoli indigeni e sulla schiavitù. Questa è la stoffa dell’America. Va bene credere nella speranza ma mica siamo sordi o ciechi. Penso che si possa avere speranza e allo stesso tempo essere consapevoli di quanto sta accadendo.
È quasi come se dicesse che il cinema può fare di più che semplicemente incassare al botteghino…
Perché non è possibile puntare a entrambe le cose? Io ho avuto la fortuna di realizzare film che a volte, oltre ad ottenere un risultato commerciale, hanno forse arricchito positivamente chi è andato a vederli.
Definirebbe «BlacKKKlansman» un altro film sull’America?
Non l’ho fatto perché venisse visto solo negli Stati uniti, uscirà in tutto il mondo e ciò di cui parla è un problema che riguarda il nostro presente. L’estrema destra è un fenomeno che sta dilagando ovunque. E spero vivamente che gli spettatori che vedranno BlacKKKlansman nei propri paesi lo capiscano, spero che possa scuotere la gente dal torpore.
Alcuni lo paragonano a «Do The Right Thing».
Quando feci Fai La Cosa Giusta, una delle critiche che mi è stata mossa era che il film non proponeva una soluzione al razzismo. Innanzitutto non sono io ad avere la risposta, né allora né oggi. Non era questo l’obbiettivo del film. L’idea era piuttosto di stimolare la discussione, ed è lo stesso anche stavolta. Ci sono troppe persone che si muovono in una specie di frastornamento, come se fossero drogati. È uno stato comune, le persone sembrano impazzite, non riescono a ragionare. Perciò è il momento di alzare al voce, di farsi sentire. Non possiamo girarci dall’altra parte, far passare questo tipo di cose quando sappiamo bene che non è giusto. Conosciamo la differenza fra giusto e sbagliato. E quando il male ti fissa negli occhi e tu stai zitto allora – ne sono convinto – significa che stai aiutando il nemico. Il mondo è sottosopra, il falso viene spacciato per vero. BlacKKKlansman parla di questo e so che siamo dalla parte giusta della storia.
Secondo lei il cinema nero in America sta attraversando un momento particolarmente vitale?
Black Panther, il film di Ryan Coogler, ha cambiato tutto. Però il fatto è questo: quando uno studio fa il budget per un film una delle voci principali è quella che riguarda la fruibilità internazionale. Per anni è passata la bugia che i film afro americani all’estero non funzionano. Così quando cerchi i finanziamenti ti assegnano un budget che ha zero per la distribuzione internazionale – e i soldi non bastano a produrlo. Se poi per caso funziona ti dicono: «Ma quella era un eccezione». Black Panther quesra teoria l’ha demolita, adesso faranno fatica a dire che un cast afro americano non può attirare pubblico.
Perciò possiamo parlare di un rinascimento nel cinema black …
Si ok, ma il fatto è che succede ogni dieci anni. E allora il mio telefono comincia a squillare e a essere inondato di domande sul maledetto rinascimento del cinema nero (ride, ndr). Dopo però ci sono altri nove maledetti anni di carestia. Io dico sempre che per rompere il circolo vizioso bisogna cambiare il sistema, gli afro americani devono entrare nelle posizioni chiave dell’industria. Il Paese è cambiato, per dio! Non sono io a dirlo è il censimento! Basta guardare stati come la California dove i bianchi sono già in netta minoranza. Quindi, anche se sei un razzista, non vuoi piazzare lo stesso il tuo prodotto sul mercato? Mi sembra logico mirare anche alla maggioranza e, per questo, assumere una forza lavoro che rifletta le trasformazioni. Invece abbiamo «Agent Orange» coi suoi muri e le deportazioni, i bambini separati dalle madri. Il tempo avanza e la gente vuole tornare al passato.
Cosa dobbiamo fare?
Credo che la cosa più urgente sia andare a votare. Le elezioni midterm sono dietro l’angolo e vorrei dire agli americani: «Se non vi sono bastati gli ultimi due anni come incentivo, per correre alle urne non so cosa potrebbe motivarvi». Credo anche che otto anni di presidenza Obama ci hanno resi compiaciuti, era come se fosse potuto rimanere per sempre, invece si è aperto uno spiraglio in cui è scivolato «Agent Orange». È stata – chiaramente – la reazione precisa di una parte degli americani a Obama, a un presidente nero nella Casa bianca. «Agent Orange» l’ha usata come una strategia di marketing ed eccoci qua.
Cosa la spinge ancora a lavorare?
Ogni film che ho fatto negli ultimi trent’anni lavora su un soggetto che volevo affrontare in un preciso momento. La mia motivazione è la stessa che avevo da studente a scuola di cinema: raccontare delle storie. È un dato che non è mai cambiato come sono sempre uguali la mia energia e l’entusiasmo che ho nel fare ciò che amo. Lo dico sempre agli studenti del mio corso alla New York University: ogni volta che riuscite a guadagnarvi la vita facendo ciò che davvero amate siete fortunati perché la maggior parte della gente a questo mondo sbarca il lunario odiando il lavoro che fa per tutta la vita.

La Stampa 23.9.18
Rainer Langhans
Co-fondatore di Kommune 1
”Così combatto l’eterno fascismo della Germania”
colloquio con Alain Elkann


Rainer Langhans è uno scrittore e cineasta cresciuto nella Germania del dopoguerra, co-fondatore di Kommune 1, la prima comune creata a Berlino Ovest il 1° gennaio 1967 e sciolta nel 1969, un modello alternativo al nucleo familiare della classe media costituita da fascisti potenziali o nascosti.
Come si definirebbe?
«In termini clinici ho una lieve sindrome di Asperger. Fin dall’inizio non sono stato in grado di adattarmi alla famiglia e alla società. Ero un alieno, diverso dai miei fratelli e dagli altri bambini, così si sono sbarazzati di me mandandomi in collegio a 13 anni. Mio padre era medico, doveva essere iscritto al partito nazista per motivi professionali, ma non gli piaceva. I miei pensavano che Hitler fosse un proletario e aspettavano che cadesse».
Siete di Peenemünde, in Germania Est. Come affrontò suo padre la transizione dal nazismo al comunismo?
«Non benissimo. Avevamo un ufficiale russo in casa. I miei tolsero il ritratto di Hitler dall’ingresso e lo sostituirono con uno di Stalin. Non avevamo niente da mangiare, ma i russi erano gentili con i bambini e ci davano della zuppa, così sopravvivevamo. Il bambini godevano di maggiori privilegi rispetto agli adulti perché secondo il regime erano loro a costruire il socialismo».
Quando passaste a Ovest?
«Nel 1953. I miei ci dissero che stavamo andando in vacanza a Berlino; allora era possibile perché non c’era ancora il confine. Poi ci siamo trasferiti ancora. Sono passato da un tipo di scuola all’altro, in base alle diverse zone occupate. Se gli occupanti erano inglesi, c’era il sistema britannico, se erano francesi, quello francese. Così sono diventato ingestibile e mi hanno messo in un collegio, poi mi sono arruolato nell’esercito. Ho cercato di diventare tenente, ma non ce l’ho fatta per via del mio comportamento anomalo».
Dopo l’esercito è andato a Berlino?
«Sì, ero passato dalla religione del collegio al’assenza di spiritualità dell’esercito, ero insoddisfatto e cercavo un modo diverso di vivere. Cercai di avvicinarmi al mondo della cultura, ma non era il mio ambiente. Alla fine trovai un piccolo gruppo di accademici, professori della Libera Università di Berlino, che seguivano la Scuola di Francoforte: Theodor Adorno e Max Horkheimer, Walter Benjamin, Herbert Marcuse. In seguito, quando visitò la Germania, ho conosciuto Marcuse. Abbiamo identificato e dato un nome alla personalità di tipo autoritario, e questo è diventato il centro dell’ideologia antifascista che poi ha usato il movimento studentesco».
Così la sua coscienza si è aperta alla lotta antifascista. Era inorridito dal nazismo?
«Sì, ma è più di questo. Fin da bambini sapevamo che i vecchi nazisti erano ovunque nel governo, mascherati da democratici, e temevamo che avrebbero imposto un nuovo fascismo. Il regime paternalistico di Adenauer e della Cdu non era una democrazia. Abbiamo cercato di mostrare cosa c’era dietro la maschera, informando le persone su ciò che stava realmente accadendo. Il gruppo Kommune 1 è nato il 1° gennaio 1967. Era una prova: vivere in otto in una piccola stanza, insieme giorno e notte, e nessuno poteva uscire. Analizzavamo ciò che accadeva dentro di noi e ci raccontavamo l’eredità fascista dei nostri genitori assassini. Volevamo scoprire la nostra vera e amorevole natura umana».
Come mai ha esposto così pubblicamente la sua vita?
«Nella comune non c’era sesso, non c’era nessuna relazione tra uomini e donne. Eravamo solo esseri umani, ci amavamo e sapevamo tutto l’uno dell’altro. Non avevamo privacy e nessuno possedeva alcunché, condividevamo tutto, stavamo rivoluzionando la nostra vita quotidiana. Speravamo che tutti avrebbero iniziato a vivere nelle comuni. Ma non fu così e finimmo per rifugiarci in una sottocultura. Quando hai vissuto a lungo in paradiso, non puoi più vivere all’inferno. C’erano due soli esiti possibili. Uno era la rivoluzione politica; l’altro era sesso, droga e rock and roll. Abbiamo scelto il cosiddetto edonismo, una sorta di rivoluzione sessuale con droghe psichedeliche».
Altri hanno scelto la via della violenza, come Andreas Baader e Ulrike Meinhof.
«Non mi piaceva la violenza, perché avevo appreso nell’esercito che non è una modalità accettabile. Non volevo entrare in conflitto con i miei genitori e quindi fui considerato un traditore e cacciato dal movimento. A 29 anni mi sono ammalato seriamente. Quando stavo per morire, ho trovato un libro intitolato The Path of the Masters di Julian Johnson, che raccontava le sue esperienze con un maestro indiano vivente. Grazie a quel libro ho finalmente capito cosa avevamo vissuto nel ’68: la spiritualità. Ho incontrato il mio maestro e sono stato iniziato. Mi ha insegnato un modo pragmatico per entrare in quella sensazione del ’68».
Cosa ha fatto allora?
«Dopo la mia iniziazione ho vissuto in modo molto semplice. Il mio maestro aveva un motto: “Vita semplice e pensiero elevato”. Ho cercato di guardare dentro me stesso attraverso la meditazione, per superare il materialismo ed entrando in contatto con il mondo interiore. Vivevo facendo lavoretti per pochi soldi e affittando piccole stanze inutilizzate. Sopravvivevo e soprattutto meditavo. Ora c’è Internet, che è stato inventato da persone che hanno avuto esperienza del ’68, e che consente alle persone di vivere in comunità al di là del materialismo e oltre i loro corpi. Nel ’68 abbiamo visto che il capitalismo non è buono ed è possibile diventare umani. Ora dopo 50 anni lo vediamo di nuovo e lo vediamo soprattutto in rete. Un nuovo vero mondo umano è possibile. È dentro di noi. Nella mia analisi significa basta con il capitalismo; pace e amore; un altro mondo. Il capitalismo è l’ultima e più grave manifestazione del fascismo».
Com’è la Germania di oggi?
«Ha imparato molto dal suo passato nazista. Non abbastanza, ma più di altri. Sono stati assimilati i principi del ’68: non dovrebbero esserci più fascismi, né guerra. C’è una pace ignota al mondo materialistico e capitalistico, in cui tuttavia viviamo. Grazie a Internet saremo sempre più consapevoli di questo mondo reale dentro di noi, ma temiamo talmente tanto la coscienza che vediamo Internet come l’anticamera del fascismo. Supereremo anche questo».
Traduzione di Carla Reschia

Corriere 23.9.18
L’appello
Liberate quei bambini incarcerati con le mamme
di Luigi Manconi


Caro direttore, il prossimo 4 ottobre, come ha scritto Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera di giovedì 20 settembre, i giudici della Corte costituzionale inizieranno il loro «viaggio nelle carceri italiane». È una iniziativa assai importante. Nella sezione nido del carcere femminile di Rebibbia, pochi giorni fa, una detenuta ha ucciso i propri figli neonati gettandoli nella tromba delle scale. Credo che sarebbe un atto estremamente significativo, denso di intensità morale e, allo stesso tempo, di valore giuridico, se la prima persona che il presidente della Consulta, Giorgio Lattanzi, incontrasse fosse proprio quella donna omicida, per ascoltarne la pena e la follia, lo strazio e la solitudine senza scampo. E per capire, soprattutto, come sia possibile che all’interno di quell’istituto penitenziario continuino ad essere detenuti 14 bambini.
Come è noto, in carcere, si trovano colpevoli e innocenti. E ogni colpevole rivendica per sé, non sempre immotivatamente, una quota di innocenza. Mentre gli innocenti possono rimproverare a un errore giudiziario o a un destino nemico o a una qualche propria leggerezza la condanna iniqua. Ma c’è una categoria – tanto esile da risultare invisibile, come appunto è – costituita dagli assolutamente innocenti. Gli innocenti assoluti, detenuti con le loro madri all’interno del sistema penitenziario italiano, sono oggi 62. Nel 1991 erano 61. Nei tre decenni trascorsi da allora, quattro presidenti della Repubblica hanno avuto parole accorate e ferme nel criticare questo scempio di vita, più di un ministro della Giustizia ha tentato di trovare una soluzione, alcune commissioni parlamentari hanno affrontato il problema. Il risultato è che il numero degli innocenti assoluti in carcere, dopo aver conosciuto alcune oscillazioni, oggi è maggiore di quanto fosse nel 1991.
All’epoca, visitai il nido di Rebibbia, dove la sconsolata buona volontà di tanti (le madri, in primo luogo, e i volontari, il personale e gli assistenti sociali) tentava di dare a quel luogo fatalmente squallido e ostile una qualche parvenza di ospitalità e di allegria, attraverso il ricorso a colori, disegni, giocattoli. Restava, tuttavia, un elemento a ricordare l’atrocità di quella situazione: gli angoli delle brande di ferro dove madri e figli dormivano erano malamente coperti da indumenti e stracci per smussarne le punte e attenuarne gli spigoli. Quel nido, nel frattempo, è stato ristrutturato e oggi ha un aspetto diverso. E altre cose sono cambiate. Già la legge 40/2001 ha introdotto nell’ordinamento penitenziario nuovi tipi di misure alternative per donne madri, nonché modalità di assistenza all’esterno dei figli minori. Le alternative al carcere per i bambini fino a sei anni (non più tre anni, da gennaio 2014) oggi sarebbero il trasferimento negli istituti a custodia attenuata (Icam) e nelle case famiglia protette. I primi sono istituti detentivi facenti capo all’amministrazione penitenziaria e ne esistono attualmente cinque. Le seconde, previste da una legge del 2011, dovrebbero essere strutture promosse insieme agli enti locali, ma finora ne è stata realizzata solo una a Roma, per 6 posti. Dunque, la possibilità di liberare dal carcere la grande maggioranza di quei 62 bambini tutt’ora reclusi è già contenuta nel nostro ordinamento. Se ciò non accade si deve in parte, ma solo in parte, alla rigidità di alcune norme e ai vincoli derivanti dalla particolare condizione di alcune detenute che, in ragione della recidiva o a causa della gravità del reato, richiede un controllo più stretto e assiduo. Ma si deve, soprattutto, a quella catastrofica impotenza riformatrice che è propria dell’intera classe politica nazionale e locale del nostro Paese. Come si è detto, le leggi ci sono, la loro attuazione richiede intelligenza di governo e pazienza amministrativa e costi relativamente modesti. La spesa complessiva per far uscire dal carcere quei minori e alloggiarli in case famiglia protette, che garantiscano la loro tutela e la sicurezza pubblica, è stata stimata intorno al milione di euro all’anno.
Una volta si sarebbe detto: come è possibile che questo accada nel Paese di Cesare Beccaria? Oggi, dopo che abbiamo visto a quali e quante ingiurie è stato sottoposto il pensiero del grande illuminista lombardo, ci accade di sorprenderci un po’ meno. Ma confidiamo che la Corte costituzionale, guidata da quell’uomo d’onore che è Giorgio Lattanzi, sappia trovare l’occasione e le parole per dire al legislatore e alla magistratura che una simile ingiustizia assoluta ai danni degli innocenti assoluti non è più tollerabile.

Il Fatto 23.9.18
L’Onu si preoccupa: possibili violazioni dei princìpi sull’asilo
L’Agenzia ha fatto discretamente pervenire al Viminale le sue raccomandazioni sulla protezione umanitaria
di Antonio Massari


Per ora si tratta di osservazioni, suggerimenti, raccomandazioni. Ma la posizione dell’Unhcr sull’abrogazione della protezione umanitaria (e altri punti del decreto sull’immigrazione) è già chiara. Ed è parecchio distante dalla visione di Matteo Salvini. Il ministro dell’Interno, dalla festa di Atreju organizzata da Fratelli d’Italia, già soffia sul fuoco: “Vi dò uno scoop, lunedì dopo l’approvazione del decreto sicurezza-migranti, ci sarà l’allarme dell’Onu, Osce, della Croce rossa, di quella bianca, dei vegetariani, dei vegani e degli animalisti perché limitiamo i diritti. Vedrete, ci saranno ricorsi e contro ricorsi, ma io me ne frego. Se devo darmi un criterio di scelta, prima vengono i cittadini italiani”.
Sarà difficile “fregarsene” però delle raccomandazioni che l’Unhcr – stiamo parlando dell’agenzia per i rifugiati dell’Onu – ha già inviato a Viminale e Governo, sebbene per ora solo in via informale, considerato che non ha ancora ufficialmente ricevuto alcuna bozza del decreto in questione. Il decreto – stando alle bozze circolate finora – abroga i “permessi di soggiorno per motivi umanitari” limitandone la concessione a tre soli casi. La protezione umanitaria è un caso “residuale” previsto dal nostro ordinamento che, nel 2018, è stato concesso nel 28 per cento dei casi. Residuale, perché riguarda i richiedenti che nei Paesi di provenienza corrono dei rischi che, però, non rientrano nei casi previsti dalla Convenzione di Ginevra (in questo caso interviene lo status di rifugiato) e non sono legati a un conflitto armato generalizzato (qui opera la protezione sussidiaria). Il decreto intende concedere la possibilità di concedere la tutela umanitaria ai soli tre casi di “condizioni di salute di eccezionale gravità”, “situazioni contingenti di calamità naturale nel Paese di origine”, premio per “il cittadino straniero che abbia compiuto atti di particolare valore civile”.
La bozza del decreto prevede anche una forte compressione dello Sprar, ovvero il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati costituito dalla rete degli enti locali, anche se fonti del Viminale negano l’ipotesi della sua soppressione. E proprio su protezione umanitaria e sistema di accoglienza l’Unhcr muove i suoi primi rilievi.
L’agenzia Onu raccomanda innanzitutto all’Italia di non allontanarsi dagli obblighi previsti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 della quale – fa notare – il nostro Stato è firmatario: “L’Italia – ha fatto sapere Unhcr al governo – deve rispettare i suoi obblighi e principi, in primo luogo il principio di non respingimento”. Non solo. Raccomanda di continuare nel solco dell’articolo 10 della Costituzione, che rimanda in modo specifico ai diritti umani, ai rifugiati, alla promozione della tolleranza e della diversità. La protezione umanitaria – sottolinea l’Unhcr – consente di agire in modo umano e solidale nei riguardi di persone che hanno dovuto sopportare violenze e abusi nei Paesi di transito, come accade per esempio in Libia, dove avvengono stupri e torture. E avverte di essere fortemente “preoccupata” da qualsiasi “tentativo” di “limitare il diritto delle persone di accedere alla procedura di asilo, soprattutto il diritto di accedere a una procedura “equa”.
Riconosciuto il diritto di rimpatriare chi non ha diritto all’asilo, l’Unhcr osserva che, diversamente, i richiedenti asilo si ritroverebbero dinanzi a una scelta obbligata: “Entrare in modo irregolare”. “Tutti – ribadisce l’agenzia Onu – hanno il diritto di chiedere asilo. Le richieste devono essere valutate su base individuale, ponendo attenzione alla vulnerabilità e ai bisogni dei richiedenti”. In sostanza secondo l’Onu l’abrogazione della protezione umanitaria, penalizzerebbe persone molto vulnerabili, che emigrano per motivi economici ma, non avendo una strada legale, finiscono per essere vittime di stupri e torture da parte dei trafficanti.
In questo senso, da anni, l’Unhcr chiede l’apertura di vie legali per l’asilo e per le migrazioni, con particolare riferimento ai corridoi umanitari. Infine sottolinea l’importanza dell’inclusione che “dovrebbe iniziare nelle prime fasi della procedura di asilo e riguardare tutti gli aspetti dell’integrazione sociale, economica e culturale, compresa l’istruzione”.

Il Fatto 23.9.18
Meno integrazione e più espulsioni (per finta): legge fabbrica-clandestini
Gli effetti - Le misure in discussione aumenteranno gli stranieri in situazione irregolare
di Alessandro Mantovani


Ci sono una serie di rilievi di costituzionalità, dalla presunzione di innocenza al principio di uguaglianza e alla tutela del diritto d’asilo, che potrebbero addolcire il discusso decreto manifesto del ministro Matteo Salvini, rimandato da settimane e destinato domani a un’approvazione verosimilmente “salvo intese”, cioè con alcune norme ancora da scrivere. Si potrà espellere solo per violenza a pubblico ufficiale o solo per violenza al medesimo? Si potrà togliere il gratuito patrocinio legale a chi chiede l’asilo? Davvero basterà un atto amministrativo per revocare la cittadinanza? I dettagli avranno grande impatto sulla vita di migliaia di persone e sulle attività di questure, tribunali, commissioni per l’asilo, Cas, Cara e Sprar. È già evidente, però, che il risultato della stretta salviniana potrà essere solo l’aumento degli immigrati irregolari cosiddetti “clandestini”.
Saranno di più e saranno anche meno integrati se è vero che Salvini esclude dall’accoglienza negli Sprar i richiedenti asilo, ovvero penalizza l’unico sistema che funziona sulla base di piccole strutture in cui gli stranieri ricevono assistenza qualificata e imparano almeno la lingua, a volte un mestiere, a vantaggio dei Cas (Centri di accoglienza straordinaria) che costano un po’ meno perché danno solo vitto e alloggio in centri per lo più di grandi dimensioni che le popolazioni residenti, notoriamente, non vogliono vicino casa.
Il giro di vite sulla protezione umanitaria, peraltro già in corso, moltiplicherà i cosiddetti “denegati” che al termine di procedure e ricorsi saranno cittadini irregolari in Italia. Lo stesso vale per le nuove regole sull’espulsione e la revoca della cittadinanza per chi commette questo o quel reato, accertato o meno, ma anche per le barriere “etniche” al reddito di cittadinanza e quelle che negano agli stranieri i servizi sociali, fiore all’occhiello degli amministratori locali leghisti (la sindaca di Lodi, come abbiamo scritto sabato, esclude di fatto i bambini stranieri dalle mense scolastiche): così anche gli immigrati regolari rischieranno di scivolare nell’illegalità. Il risultato è sempre quello: aumenteranno gli irregolari, cioè i potenziali destinatari di decreti di espulsione che per la stragrande maggioranza finiranno appallottolati in fondo a qualche cassonetto dei rifiuti.
Un conto sono i pezzi di carta, tutt’altro i rimpatri veri e propri. Lo stesso Salvini dice che ci vorrebbero ottant’anni. In Italia ci sono tra i trecento e i cinquecentomila immigrati in situazione irregolare e i rimpatri effettivi sono stati, finora, meno di quattromila l’anno, di cui duemila nella sola Tunisia, perché gli stranieri non possono essere (ancora) lasciati in mezzo al mare o in Paesi terzi (magari ci arriveremo: è il “no way” australiano più volte evocato da Salvini). Per ora servono accordi con i Paesi d’origine e costano tanti soldi perché i Paesi d’origine hanno interesse alle rimesse dei migranti, perfino dei più sfigati, che sono parte significativa del loro Pil, e non a riprendersi persone che a volte sono delinquenti o mezzi delinquenti.
Se Salvini farà un mezzo miracolo raddoppierà i rimpatri e così andremo dall’1 al 2 per cento del totale, ma non è detto perché il totale degli irregolari nel frattempo aumenterà con i provvedimenti di cui sopra, con gli sbarchi per quanto ridotti e più o meno fantasma, con i passaggi sulle Alpi che sempre ci saranno. Il capo della Lega però potrà dire di aver aumentato i rimpatri, e soprattutto potrà continuare a gridare che ci sono troppi clandestini, troppi reati commessi da clandestini, ecc… Non è neppure detto che gli dispiaccia: su questo ha costruito e continuerà a costruire le sue fortune politiche. Senza contare che gli immigrati irregolari sono anche più ricattabili da chi li sfrutta sul lavoro, comprese le organizzazioni criminali e magari anche qualche “imprenditore” che vota Salvini.

il manifesto 23.9.18
La festa di Mdp è il funerale di Leu. L’appello di Grasso: «Siamo a un punto di stallo»
Il presidente a Bersani: pensiamo al nostro congresso e non a quello del Pd. Si litiga sulle europee di maggio. Errani dice no «alla lista unica delle sinistre radicali». Ma è quella che ha proposto Fratoianni dallo stesso palco
di Daniela Preziosi


«Lo dico chiaramente: alle europee a una lista che metta insieme tutte le sinistre radicali non sono interessato. Ma se non ci muoviamo finisce che non si va da nessuna parte». L’ex presidente dell’Emilia Romagna Vasco Errani non è tipo da dichiarazioni garibaldine. È un pragmatico, un costruttore di ponti a sinistra. Ma è anche uno sincero. E non è la prima volta che, al di là delle intenzioni, la sua schiettezza rompe le liturgie ipocrite.
Nell’ottobre del 2017 a Ravenna si festeggiava il rientro in politica – dopo una vicenda giudiziaria finita con un’assoluzione – insieme a Giuliano Pisapia, all’epoca tentato da una corsa contro Renzi ma in preda a tormenti. Dopo un’ora di minuetti volti a convincere Pisapia, a Errani scappò un «ma non possiamo continuare a pestare l’acqua nel mortaio». L’ex sindaco di lì a pochi giorni si ritirò.
Ieri Errani, alla festa di Mdp a Roma che si conclude oggi, ha detto quello che tutti sanno ma che nessuno vuole dire a voce alta: Mdp e Sinistra italiana non correranno insieme alle europee. Due giorni prima Nicola Fratoianni, con la stessa schiettezza aveva detto: «Io sono per continuare Leu, ma dobbiamo collocarla in modo chiaro», non nel fronte «da Macron a Tsipras che propone Martina», serve «un’unica lista di sinistra alternativa alle destre sovraniste ma anche alle forze del socialismo protagoniste delle scelte dell’austerity». Fratoianni ha in mente una lista con De Magistris e altre forze di sinistra. Per le europee Mdp lavora su un’altra ipotesi: non il fronte «da Macron a Tsipras», «un fronte repubblicano sarebbe un regalo ai sovranisti», ma una lista «socialista ed ecologista», spiega dal palco l’europarlamentare Massimo Paolucci, «Ma socialista, lo ripeto mille volte». Un’indicazione che Si ha già scartato. Né la sinistra radicale potrebbe farsi scaldare il cuore dalla candidatura a presidente del socialdemocratico olandese Timmermans, peraltro già lanciato da Renzi.
Quindi è praticamente ufficiale, Mdp e Si non saranno insieme alle europee. «Ma se ti dividi sull’Europa, cioè sul progetto europeo, ti dividi su tanta, troppa roba», ammette sotto il palco l’ex senatore Miguel Gotor. È la presa d’atto, inevitabile, della fine dell’unificazione di Leu, della trasformazione in partito.
Il gruppo dirigente Mdp allontana l’immagine di quelli che aspettano che il congresso del Pd sancisca la derenzizzazione del loro ex partito. «Con Martina abbiamo fatto un bel confronto ma restano ancora molte distanze», racconta Roberto Speranza a proposito del dibattito di venerdì sera con il segretario dem. Ma è chiaro che un Pd a guida Zingaretti (che pure qui alla festa non è venuto per non farsi bollare come il restauratore del Pd ante-Renzi) sarebbe l’ipotesi che Bersani ha ventilato proprio qui, quella di un Pd che «riprende da dove c’è stata la rottura con un pezzo di popolo».
A fine serata è Piero Grasso, invitato alla festa a parlare di mafia (cioè non da presidente di Leu) a lanciare l’ultimatum ai due partiti: «Leu è a un punto di stallo», «Dai territori arrivano segnali chiari, si chiede di andare avanti sul nostro percorso», dice. È vero che da Milano, Roma, Forlì, Bergamo, Modena, Varese, fioccano appelli ad andare avanti. C’è chi pensa di autoconvocarsi per scavalcare i leader che stanno impedendo il congresso. E all’indirizzo di Bersani Grasso è severo: «Smettiamo di commentare il congresso del Pd, anche viste le risposte che si ricevono, e impegniamoci per il nostro».

il manifesto 23.9.18
Roosevelt non fu una isolata eccezione
Storia. Responsabile dell’unica risposta democratica alla crisi, il «New Deal» viene inscritto dallo storico anglo-tedesco Kiran Klaus Patel nel ventaglio delle politiche di intervento di vari governi europei dell’epoca: da Einaudi
Jacob Getlar Smith, Snow Shovellers, 1934
di Francesco Benigno


La grande depressione che venne avviata nel 1929 dal crollo della borsa di New York e che sconvolse in profondità la società statunitense, creando enormi masse di disoccupati, di senzatetto, di sbandati, si propagò rapidamente come un’onda tellurica, peggiorando ovunque le condizioni di vita e producendo devastanti contraccolpi politici, come in Germania, dove fu uno dei fattori che condussero all’instaurarsi del regime nazista. Soprattutto, questa sorta di tsunami planetario finì per offuscare quel concetto-base della modernità che era stato il progresso: l’idea che il futuro sarebbe stato migliore del presente, proprio come il presente era stato migliore del passato.
La società americana seppe tuttavia reagire grazie a una politica di interventi statali promossa a partire dal 1932 dal presidente Franklin Delano Roosevelt, una vicenda ora ripercorsa nell’importante volume dello storico anglo-tedesco Kiran Klaus Patel, appena uscito da Einaudi con il titolo Il New Deal Una storia globale (pp. XVIII-534, euro  34,00) dove si dimostra come alle spalle ci fosse una congiuntura mondiale più che costanti inscritte nella storia americana.
Esempio degli agricoltori
Giustamente celebrato per aver costituito l’unica vera risposta democratica alla crisi, il New Deal appare dalle pagine di Patel non un’eccezione, ma una variante nel ventaglio delle politiche di intervento adottate dai vari governi dell’epoca. Questo non vuol dire sminuire il valore di un’esperienza che Roosevelt seppe tenere ben all’interno del sistema liberal-democratico, ma sottolineare similitudini e differenze delle strategie promosse dai New Dealers non solo con quelle attuate da regimi socialdemocratici nel Nord Europa – la Svezia divenne presto un mito, prima negli Usa e poi nel mondo – ma anche con quelle messe in capo dai regimi autoritari e/o totalitari in Germania, nell’Unione Sovietica e in Italia.
Una strada davvero originale fu intrapresa, per fare un esempio, nel dare sostegno agli agricoltori, penalizzati dall’eccesso di produzione, punto nodale della crisi. Malgrado una conferenza economica internazionale avesse già nel 1927 segnalato ai governi come la soluzione al problema delle eccedenze non consistesse in un aumento delle tariffe, la risposta generale fu proprio quella del protezionismo agrario.
Se le dittature puntarono sull’autarchia agricola (il fascismo ad esempio aveva già sviluppato da anni la sua «battaglia del grano») anche paesi liberal-democratici come l’Australia, si acconciarono a puntare sull’autosufficienza, lanciando nel 1930 la campagna Grow more wheat, produci più grano. Anche Roosevelt seguì il generale orientamento protezionista, ma poi, una volta erette le barriere dei dazi, scelse «una strada nuova e inesplorata», quella di sovvenzionare i produttori che avessero accettato di cessare la produzione e di eliminare il bestiame in eccesso.
Anche sull’altro fronte sensibile della crisi, quello della crisi bancaria indotta dal problema dei debiti internazionali e dal tracollo del sistema aureo internazionale, la soluzione statunitense, quella dell’universalizzazione dell’intervento statale, ebbe precisi paralleli nelle esperienze di altre parti del mondo. Più in generale fu comune la tendenza a puntare su un massiccio intervento pubblico, che prese forme diverse – un arco di misure che vanno dall’intervento emergenziale della mano pubblica ai piani quinquennali staliniani e quadriennali nazisti – ma che comportarono in ogni caso lo stravolgimento delle regole classiche dell’economia di mercato. Nel campo delle politiche industriali, ad esempio, gli Stati Uniti realizzarono un’inversione di rotta completa rispetto all’epoca precedente, caratterizzata dal liberismo e dalla legislazione anti-trust. Con gli anni Trenta si affermava invece una nuova tendenza alla istituzionalizzazione dei cartelle e alla partecipazione pubblica al sistema industriale; un’osmosi ben rappresentata dal simbolo della Nra (National Recovery Administration) l’agenzia statale dedita al salvataggio aziendale: un’aquila blu che artiglia con la sua zampa una ruota (l’industria) e con l’altra una saetta (il potere). Ancora una volta le esperienze messe in campo dal fascismo (dall’Iri all’Eni) furono assai simili, come Mussolini non mancò di far notare: Roosevelt stesso, del resto, e molti New Dealers con lui, rivolsero uno sguardo attento, e in privato condiscendente, verso le esperienze fasciste, almeno fino al 1935; anche le strategie di welfare naziste vennero attentamente scrutinate e il piano statunitense per l’impiego della gioventù, ad esempio, aveva notevoli punti di contatto con l’Arbeitsdienst tedesco.
La strategia di Roosevelt fu insomma assai abile: da un lato venne incontro alle esigenze di protezione espresse dal corpo sociale, isolando l’economia americana per evitare fenomeni di contagio depressivo, mentre dall’altro lato attivò una serie di agenzie finalizzate a eseguire lavori pubblici, a lenire la disoccupazione, a costruire residenze popolari, e a spostare la lotta al crimine su un piano federale, con il rafforzamento del Fbi. Distante da qualunque tentazione autoritaria, Roosevelt era convinto, come affermò nel 1936, che quella intrapresa con successo in America fosse ben più di una guerra contro la povertà, l’indigenza e la depressione economica: «È una guerra per la sopravvivenza della democrazia».
Valendosi di un accorto uso della propaganda, specie radiofonica, Roosevelt fece fronte alla disabilità che gli impediva quella teatralizzazione gestuale tipica degli oratori del suo tempo, e inventò un nuovo format, quello delle «fireside chats» radiofoniche, che gli garantirono uno straordinario rapporto empatico con gli americani e, di conseguenza, ben quattro rielezioni successive.
Concentrata a lungo sui problemi interni, la sua politica si avvantaggiò di una generazione di tecnici che affrontarono i problemi sociali con competenza e puntiglio: da esperienze come quella della Tva (Tennessee Valley Authority) venne un impulso straordinario a razionalizzare ed affrontare i problemi del sottosviluppo. Fu la «rivoluzione dei temperamatite», condotta da una leva di giovani tecnici-manager che, dopo la fine della seconda guerra mondale, si sarebbe diffusa negli organismi internazionali.
La sintesi di Isaiah Berlin
Intanto però, a partire dal 1938, Roosevelt si impegnò a far capire agli americani che l’isolazionismo e il neutralismo di fronte alla minaccia nazista non potevano più durare e la priorità che egli stesso aveva dato ai problemi interni e che i suoi avversari continuavano a pretendere, coniando quello slogan America first! recentemente ripreso da Trump, non era più difendibile. La guerra poi, ci mostra Patel, completò davvero il New Deal, non solo perché mise fine alla depressione economica ma anche perché legittimò e normalizzò definitivamente l’intervento statale in campo economico. Più tardi, negli anni Cinquanta, Isaiah Berlin avrebbe guardando retrospettivamente all’esperienza del New Deal scrivendo che essa fu l’unica luce nell’oscurità, capace, in un momento di debolezza e di disperazione del mondo democratico, di infondere forza e fiducia.

La Stampa 23.9.18
L’onnipresenza delle fotografie sta spegnendo la nostra immaginazione
Lo scatto Raising the Flag on Iwo Jima di Joe Rosenthal, diventata uno dei simboli dello scontro tra Stati Uniti e Giappone nella Seconda guerra mondiale. Per molti anni è stata criticata per sembrare “finta”, ma è stata scattata proprio nei giorni della conquista
Intervista allo psicoanalista Luigi Zoja, autore del libro “Vedere il vero e il falso” sulla manipolazione delle immagini


“La fotografia riassume tanto la verità quanto il suo tradimento”, scrive Luigi Zoja - psicoanalista, saggista e grande osservatore del mondo della comunicazione - nel suo ultimo libro Vedere il vero e il falso appena pubblicato da Einaudi (136 pagine, 12€; presentato oggi a Pordenonelegge). Perché le immagini vivono con una condanna intrinseca: essere immediate ma allo stesso tempo facilmente fraintendibili. O manipolabili. Nel suo saggio, “un libro sulla fotografia, non di fotografia”, Zoja sfida il lettore a sapere oltre che a vedere. Lo fa attraverso l’analisi delle immagini-icona del XX secolo, quattro legate alla guerra e quattro che vedono protagonisti dei bambini in conflitti o tragedie umanitarie. Uno studio puntuale, ricco, coinvolgente. Soprattutto: una lettura necessaria per chi non vuole subire il ciclone delle immagini che ci circondano.
Nell’epoca delle fake news, il libro sembra uscire nel momento giusto. Da cosa nasce questo suo saggio?
«Ammetto che ci avevo pensato prima dell’arrivo di Trump. Avevo iniziato a raccogliere materiali durante la scrittura di Paranoia (Bollati Boringheri, 2011). Lavoravo al tema delle alterazioni dei messaggi nei mezzi di comunicazione, analizzando alcune fotografie note per capire i gradi di manipolazione che avevano subito».
C’è la famosa fotografia di Robert Capa sulla morte del miliziano, la fotografia dei soldati americani che issano la bandiera a Iwo Jima, e quella dei sovietici sopra il Reichstag. Come le ha scelte?
»Ho selezionato quattro immagini di guerra e quattro che ritraggono dei bambini, cercando una simmetria tra dramma e speranza. Le fotografie della guerra sono quattro immagini iconiche, ma tutte in qualche modo vittima di manipolazione. Molte foto che noi crediamo istantanee di momenti irripetibili, in realtà sono ricostruzioni fatte in un secondo momento. Buona e mala fede si sovrappongono, a volte trasformando l’immagine in propaganda».
Il fotoritocco esiste da molto prima di Photoshop, insomma. Quand’è che la fotografia ha smesso di essere uno strumento di verità e ha iniziato a essere manipolata?
«La fotografia si è presentata al mondo come un modo per mostrare la realtà in maniera immediata. Per la prima volta si poteva fotografare una battaglia mentre era in corso, mentre prima veniva dipinta e gli artisti dovevano aspettare la fine dello scontro. Se non altro per capire chi avesse vinto. Ma la manipolazione c’è sempre stata anche nelle foto. Fin dai tempi della Guerra di secessione: per scattare erano ancora necessari lunghi tempi di esposizione quindi le scene erano ricreate, sposando soldati e persino cadaveri».
Perché nel libro ha scelto solo immagini del XX secolo?
«Ci sono due ragioni principali. La prima: ho scelto di limitare il campo di studio, come si deve fare quando si affronta un lavoro di ricerca. La seconda: credo sia giusto dare alle nuove generazioni un senso della storia, mostrando loro delle immagini che raccontano un periodo che loro non dovrebbero dimenticare».
Sceglie anche di non mostrare immagini di morte, come mai?
«È vero, nel libro non ci sono immagini che ritraggono vittime e morti. Siamo bombardati da immagini sempre più violente, ma credo che sia necessario un rispetto maggiore per la morte. Lo stesso rispetto che avevano gli antichi: bisogna parlarne, ma non mostrarla direttamente».
Scattiamo più immagini di quante ne possiamo vedere, ne vediamo più di quante possiamo ricordare. Subiamo spesso i messaggi di fotografie manipolate o false. Eppure dopo due secoli dall’arrivo della fotografia dovremmo essere più educati a questo linguaggio. Perché non è così?
«Oggi c’è una vera bulimia dell’immagine. Il consumismo ha trasformato anche il mondo delle immagini: il pubblico sceglie l’immagine più godibile, come scriveva Susan Sontag. E facendo così c’è una costante inflazione, cerchiamo immagini sempre più shockanti. L’onnipresenza delle immagini ci abitua a chiedere sempre di più: nel campo dell’informazione, dei rapporti sociali e d’amore, e anche nella religione».
A cosa può portare questa deriva?
«Sempre di più la nostra immaginazione si sta impoverendo. Quando abbiamo così tanti stimoli che vengono dall’esterno, non sappiamo crearne noi dall’interno. Dobbiamo tornare ad allenare la nostra immaginazione. Da psicoanalista, io uso uno strumento tecnico molto prezioso: l’’immaginazione attiva, di origine junghiana: bisogna prendere un’immagine fissa e concentrarsi su di essa finché non si muove, finché la nostra fantasia riesce a darle un’azione. E se ci impegniamo davvero l’immagine si muove. Ma è sempre più difficile, soprattutto per i più giovani».
Cosa possiamo fare per non essere vittima delle immagini, ma riuscirle a capire e apprezzare? Quali altri strumenti abbiamo?
«Ritorno sul concetto di limite, tanto caro agli antichi greci. C’è una tendenza sempre più forte ad abolire tutti i limiti. E invece i limiti sono necessari. Servono a evitare l’indigestione e la nausea. Un sommelier non può assaggiare 50 vini in una sola serata. Noi dobbiamo guardare di meno e guardare meglio. Conoscere e non solo vedere ciò che ci circonda e ci si presenta davanti».

Corriere 23.9.18
«Un dubbio sulle date, così ho trovato la lettera di Galileo»
L’italiano che ha scoperto il manoscritto a Londra. «Il complimento più bello? Dalla mia compagna»
di Donatella Tiraboschi


Professore, cosa faceva alla biblioteca della Royal Society di Londra il 2 agosto?
«Quello che faccio sempre fin dai tempi del dottorato in Antropologia ed Epistemologia che ho conseguito all’Università di Bergamo nel 2011, e cioè ricerche. È una enorme miniera di scienza, manoscritti e lettere». Salvatore Ricciardo ha trovato qui la pepita d’oro della sua vita, l’originale lettera eretica di Galileo: il professore ha 40 anni, una laurea in filosofia all’Università di Milano ed è assegnista di ricerca per l’ateneo di Bergamo.
Emozionato?
«È il mio mestiere. Mi sono specializzato in Storia della Scienza nell’Inghilterra del 1600 e mi sono trovato tra le mani parecchi scritti autografi di secoli fa, in particolare di Robert Boyle, il chimico scettico, figura interessante, tanto che ci ho scritto un libro. Più che emozione, direi che mi è presa una certa eccitazione».
Ma come è arrivato a Galileo? Racconti la scoperta.
«Nell’ambito di un progetto nazionale di ricerca, la mia università ha in carico un segmento di approfondimento sulla diffusione delle sue teorie proprio nell’Inghilterra del ‘600. Quella mattina ho preso il mio pc e sono andato in biblioteca. Mi sono seduto in una delle 10 postazioni e ho digitato il nome di Benedetto Castelli, un monaco, fisico e matematico bresciano, il suo collaboratore numero uno. Si è aperto l’archivio on line con una “stringa”; una lettera datata 1613. Che strano mi sono detto. La Royal Society sarebbe stata fondata solo 47 anni dopo. Che ci fa qui una lettera di decine di anni prima? Anche la data di stesura era stata interpretata 21 ottobre, ma in realtà è stata scritta il 21 dicembre di quell’anno».
L’hanno riesumata per lei dagli archivi.
«Diamogli un’occhiata, ho pensato, magari è una delle copie già in circolazione, una di quelle 12 missive in versione edulcorata. Quando però mi hanno messo in mano quei sette fogli, ho avuto subito il sospetto che non si trattasse di una di quelle copie».
La scoperta era sotto i suoi occhi.
«Sì, ma io non me ne sono reso conto subito. Ho scattato foto e fatto scansioni. Poi ho chiamato il professor Franco Giudice a Bergamo. Guardi ho trovato questa lettera, magari è di Galileo, ma non ne sono sicuro».
Lei è uomo di scienza, servono prove certe.
«Prima della fine di agosto è arrivata la conferma. Ci siamo resi conto dalle perizie grafologiche e dalle varianti d’autore dell’autenticità del manoscritto».
Il senso del ritrovamento?
«Ci porta a rivedere l’interpretazione delle vicende che portarono alla messa all’indice del libro di Copernico e all’ammonizione di Galileo da parte del cardinale Bellarmino. Per secoli si pensò che Lorini avesse inoltrato al Sant’Uffizio una copia spuria della lettera inviata da Galileo a Castelli. In realtà l’autografo, al netto delle interpolazioni e cancellazioni, rivela che il testo della lettera inviata da Lorini ricalca l’originale stesura di Galileo».
Il più bel complimento?
«Quello della mia compagna. Sono un tipo insicuro, ma lei mi sprona: “fai sempre di testa tua che hai sempre fatto bene”».

Corriere 23.9.18
Andrea Carandini, 80 anni, archeologo e divulgatore
Il presidente Fai: la mia educazione familiare fu durissima
«A nove anni sognai l’inferno: ero destinato all’archeologia Ora racconterò la borghesia»
di Paolo Conti


Il presidente Fai: la mia educazione familiare fu durissima
Andrea Carandini, 80 anni, archeologo e divulgatore, conosce ogni metro quadrato del Palatino dopo averlo scavato per decenni. Ha firmato, con Paolo Carafa e col suo gruppo di lavoro dopo più di vent’anni di studi e ricerche, lo sterminato «Atlante di Roma antica», ormai punto di riferimento accademico internazionale.
Cosa vuol dire per lei «essere italiano»?
«Sono legato all’idea dell’Unità d’Italia, così come la immaginarono i miei avi, perché ci avevano creduto. È essenziale per me l’antifascismo. Mio nonno paterno, Francesco Carandini, perse nel 1924 il suo posto di prefetto perché antifascista. Mio nonno materno, Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, venne cacciato da Mussolini... E poi c’è un altro legame».
Quale?
«Non c’è altro luogo al mondo, come l’Italia, in cui affondino così le radici della civiltà occidentale. Ovviamente Roma, poi il cristianesimo. Le stesse prime forme di capitalismo sono nate sia a Roma che a Venezia. In più è un luogo di strepitosa bellezza. Ecco perché vogliono venire tutti qui. In troppi».
Troppi chi?
«Troppi immigrati, troppi turisti, troppi barbari dal basso».
Intende noi stessi che abitiamo in Italia?
«Purtroppo anche noi ci stiamo imbarbarendo. Insomma, sono tante le ragioni che mi legano al mio, al nostro Paese».
Le radici ricordano l’idea di scavo. Dunque l’archeologia. È qui, nelle radici, il senso della sua scelta di vita?
«Come motivazione generale forse sì... In realtà verso i miei 9 anni ebbi due sogni che poi si rivelarono profetici moltissimo tempo dopo. In uno cercavo mio padre, non lo trovavo, affrontavo una discesa agli inferi, in uno scenario di fatto archeologico. Ho trovato la mia strada tardi: prima volevo laurearmi in filologia, poi in arte antica. Solo nei primi anni 60 ho individuato la mia via. Sono riuscito, a fatica, a riconquistare un’unità complessiva del mio essere. E quindi, lo ammetto, ad approdare alla felicità».
Da giovane archeologo lei si soffermò sulle immondizie rintracciate negli scavi, suscitando l’ironia di molti...
«Nella mia ottica, trasmessa alla mia scuola, l’archeologia si basa sull’idea di contesto, di sistema, di insieme. Perché tutto si tiene. L’immondizia, lo vediamo anche oggi, è testimonianza involontaria di una civiltà: quali merci si consumano, le abitudini alimentari e igieniche, il gusto di un’era. Una discarica è una lezione di economia».
Lei è un Grande Borghese, viste le sue radici familiari. Le sue origini sono state un peso o una scorciatoia?
«L’educazione familiare mi ha pesato moltissimo. Era concepita come un continuo allenamento, un lavoro massacrante in vista di un futuro risultato che poteva arrivare o meno, come avviene per gli atleti. L’apprendistato fu durissimo. Questo mirare in alto, oggi non esiste più. L’uomo massa è soddisfattissimo di ciò che è. Per questo inneggia alla volgarità e all’insipienza. Provo una grande tristezza...»
Nel vedere cosa, dopo tanto allenamento?
«Non si tutela e si imita più il buono del passato e, insieme, non c’è l’aspirazione a puntare più in alto, a cercare un “nuovo” migliore. Se manca una simile tensione, una civiltà decade proprio perché è il frutto di continui sforzi secolari, millenari. Oggi rischiamo di allontanarci a grandi passi dalla civiltà moderna senza abbracciare un nuovo modello. Vedo sintomi allarmanti. L’uomo massa appare sempre più forte nel mondo e di fatto dice: “La civiltà crolla? Facciamone a meno!”. E facciamo anche a meno della mediazione dell’offerta politica, basta con i dibattiti, i compromessi. Meglio le azioni immediate. Meglio chi non ha nemmeno la più pallida idea di cosa sia una Costituzione liberaldemocratica, che tempera e impedisce la dittatura della maggioranza. Perché c’è anche quella, di dittatura...»
Santo cielo. Sta per caso alludendo all’Italia di oggi?
«Io sto rileggendo con attenzione “La ribellione delle masse” che il grande filosofo spagnolo José Ortega y Gasset scrisse nel 1929 quando erano al potere Primo de Rivera e Benito Mussolini. Lì già c’è tutto ciò che stiamo vivendo e vedendo negli Stati Uniti, in Europa, o in Italia. Una descrizione profetica strepitosa. Insomma, il discorso vale per tutti nel mondo: non esistono “democrazie illiberali”. O una democrazia è liberale, e anche per certi versi socialista, o semplicemente non è».
Se una civiltà crolla, cosa accade?
«Si torna indietro nella Storia. A uno stadio anteriore. Siamo sommersi dalle immagini, ci si fotografa anche nei momenti più intimi, privati, perfino — almeno un tempo — imbarazzanti. La scrittura e la lettura, dunque l’apprendimento e lo studio, sembrano non avere più senso. Nel Medioevo si era ricchi di immagini proprio perché erano tutti analfabeti».
Andiamo verso un Neo-Medioevo supportato dalla Rete?
«Temo di sì. Diciamo un VII-VIII secolo dopo Cristo ma on line, senza l’alba di una nuova civiltà».
Lei sta scrivendo un nuovo saggio. Il titolo?
«Eccolo: “L’ultimo della classe”. Intendo l’ultimo della classe borghese, cioè io. Nessuno leggerà più i Buddenbrook di Thomas Mann... o le conversazioni di Eckermann con Goethe... Proverò a ricapitolare un pezzo di storia personale perché il nesso col passato non si spezzi. Racconterò le vicende di quel gruppo quasi gentilizio di famiglie borghesi, una è la mia, che non si piegò al fascismo nemmeno in nome dei propri interessi».
A chi pensa?
«Ovviamente ai Croce, ai Cattani, ai Ruffini, a noi Carandini... tutti poi confluiti nella tribù de “Il mondo” nell’ambito del liberalismo di sinistra e del primissimo Partito radicale. È una ricapitolazione importante per me, ma penso lo possa essere anche per molti altri».
Lei ha recentemente firmato per Laterza il fortunato «Io, Agrippina». Perché calarsi nei panni di una donna?
«Ho studiato talmente a lungo Roma e il Palatino da sapermi muovere in quei luoghi come nemmeno gli imperatori forse sapevano fare, perché ignoravano l’esistenza di tanti ambienti... A quel punto mi sono chiesto: perché non mettere in scena i racconti di Tacito lì dove si sono svolti? Ma occorreva un punto di vista. E quale migliore prospettiva di quella di una donna nipote, moglie e madre di imperatori, un unicum in tutta la Storia?»
Non c’è il pericolo che la fiction prenda la mano?
«Tutte le mie considerazioni nascono dalle fonti e dai fatti. Agrippina scrisse dei Commentari, veri e propri diari e resoconti che poi vennero appunto usati come fonte, per esempio, da Tacito. Poi, certo, ci sono le narrazioni: una libertà non immaginabile in un articolo scientifico ma che apre spazi di ricerca critica. Ogni tanto l’abbandonarsi all’interpretazione può essere magari pericoloso ma anche lungimirante...»
Il prossimo 3 novembre lei avrà 81 anni. Che rapporto ha con l’età?
«Da una parte è una fatica improba dal punto di vista fisico: il corpo ti sorregge meno, ti stanchi più facilmente. Però in compenso si maneggiano le cose umane con maggiore sapienza, minore intemperanza e dunque si evitano numerosi errori che in passato si sarebbero commessi. E per fortuna c’è la passione del lavoro, dello studio che arriva lì dove i muscoli meno possono...»
Dal 2013 lei è presidente del Fondo Ambiente Italiano ed è stato da poco confermato per il prossimo quinquennio. Una bella scommessa, vista l’età...
«Io non so se riuscirò a completare il secondo mandato fino alla fine ma trovo esaltante accompagnare il Fai nella sua riforma, nel mettere a punto il nuovo piano strategico, unendo la managerialità alla cultura. Sembra una contraddizione, un po’ come addomesticare uno scoiattolo, ma è possibile aziendalizzare un’offerta culturale: è una scommessa altamente civile, appassionante, possibile solo in una realtà privata non profit che può liberamente sperimentare. E poi amo i momenti di incontro con la rete dei volontari, quando posso immergermi in quella élite diffusa nel Paese che ama e sostiene il nostro Patrimonio culturale».
Lei prima parlava di felicità. È anche questo?
«Certo! È una gioia pari a quando, per esempio, pochi anni fa, proprio scavando sul Palatino, vinsi la mia personale scommessa scientifica: sapevo che sotto un tempio del II secolo dopo Cristo c’era altro, ben più antico. E trovammo capanne, con tombe di bambini, dell’VIII secolo avanti Cristo. In pochi metri, individuammo le tracce dell’inizio della nostra Storia. Una gioia immensa».
E cosa la rattrista?
«La condizione complessiva dell’Italia. Non si merita tutto questo. Anzi: non ce lo meritiamo. A partire dal decadimento della scuola, dove non si insegna più l’Educazione civica. Ovvero le fondamenta del nostro stare insieme: del nostro Stato...»

Repubblica Robinson 23.9.18
E ho aiutato l’invasor
Tutti colpevoli? Il premio Goncourt Eric Vuillard ricostruisce i colloqui tra Hitler e i dirigenti austriaci nel ’33. Perché, spiega, sono "i piccoli dettagli che portano alle grandi catastrofi". Una lezione del passato che conviene tener presente?
di Paolo Di Paolo


"Le più grandi catastrofi si annunciano spesso a piccoli passi". L’ordine del giorno di Eric Vuillard – romanzo vincitore dell’ultimo Premio Goncourt – incamera l’eco quasi impercettibile di quei passi. Sono i passi di finanzieri, uomini politici, figure stinte sul fondale della Storia, gente che pare non aver lasciato traccia, né in bene né in male – e che tuttavia c’era, era là quando l’inevitabile era ancora evitabile. Quando l’ascesa del peggiore era ancora "resistibile". Vuillard, per riprodurre sulla pagina il lungo istante prima della catastrofe nazista, aggira le convenzioni del romanzo storico. È impressionante: con tocchi rapidissimi, frasi secche, stilettate, ricostruisce non tanto un’epoca – i cupi anni Trenta in Europa – ma la voragine suicida che in essa si scava; e il contributo, più o meno diretto, più o meno cosciente, fornito alla causa hitleriana da comprimari di varia natura. Nessuno è innocente. Non il signor von Ribbentrop, diplomatico tedesco e ministro degli Esteri fra il 1938 e il 1945 – che mentre si annuncia l’invasione dell’Austria chiacchiera di tennis e di vini francesi. Non i ventiquattro imprenditori e uomini d’alta finanza che approvano silenziosamente le promesse del braccio destro di Hitler, Hermann Göring: se il partito nazista ottiene la maggioranza, saranno le ultime elezioni per i prossimi dieci anni. 20 febbraio 1933, "il compromesso inaudito con i nazisti", è – racconta Vuillard – in fondo un episodio abbastanza ordinario della vita affaristica, "una banale raccolta di fondi". Banale, sì – aggettivo fin troppo ricorrente nel bilancio storiografico dei totalitarismi. Vuillard rende visibile, e inquietante, una sequenza di atti inoffensivi solo in apparenza: colpevoli? Di sicuro parecchio ambigui, legati a valutazioni erronee, storte, in ogni caso determinanti.
La voce narrante – una terza persona sottilmente ironica – ragiona sulla possibilità di pietrificare quei personaggi, di bloccarne i movimenti: "Si dice che la letteratura consenta tutto. Potrei quindi farli girare all’infinito sulla strada di Penrose, non riuscirebbero più a scendere né a salire".
L’effetto di una moviola inceppata. Vuillard però non ci tiene a fare la storia con i se: tutto è andato come è andato – male, malissimo – e il punto è che la cortina fumogena di ogni evento immane rischia di oscurare una quantità di eventi minimi. Un uomo si slaccia un bottone, si allarga il solino, un altro abbassa i grossi occhiali rotondi sul naso, un altro ancora si spazzola col guanto il viso rubicondo e "scatarra religiosamente nel fazzoletto, è raffreddato". Sono tutti lì in attesa di Hitler. Quelli che non l’hanno mai incontrato sono curiosi di vederlo. "Era sorridente, rilassato, niente affatto come lo immaginavano, affabile, addirittura cordiale, molto più cordiale di quel che pensavano".
Non ci vuole molto per fare la storia, nemmeno te ne accorgi, a volte basta trovarsi lì dove passa e lasciarla passare, non fare la differenza.
È straordinario Vuillard nella selezione dei dettagli. "La verità è dispersa in ogni genere di polveri": il minimo, l’insignificante, ciò che non lascia traccia per definizione – mano sudaticcia, cielo grigio del mattino, fiocco di brina, fumo di pipa – qui risalta, lampeggia.
Risalta come risaltano, nello studio di Hitler, le poltrone tappezzate di stoffa volgare, i cuscini mosci, i paralumi ornati da nappine.
La stanza è solo una stanza, una stupida stanza con una finestra affacciata sul cielo invernale del febbraio 1938, e al signor Schuschnigg, capo di governo austriaco, pare all’improvviso troppo grande, mentre si sente addosso gli occhi pallidi di Hitler. "Per il momento Hitler lo chiama ‘signore’ e Schuschnigg, imperturbabile, continua a chiamarlo ‘cancelliere’. Hitler l’ha trattato come uno zerbino e lui, per giustificarsi, si è vantato di fare una politica tedesca".
Invece di girare i tacchi e chiuderla lì – fa notare maliziosamente il narratore – il povero Kurt von Schuschnigg, cancelliere d’Austria, "piccolo aristocratico razzista e timorato", cerca di placare il conterraneo naturalizzato tedesco, cavando dalla memoria esempi di utilità della piccola Austria al Reich. A un certo punto, se ne esce citando Beethoven.
Spera di aver colpito nel segno. "Beethoven non è austriaco", replica Hitler. "È tedesco".
Può il progetto di invasione nazista dell’Austria essere connesso a un colloquio tanto ridicolo e insulso? Sì. Solo a patto di non trascurare il disagio di Schuschnigg, che fuma nervosamente, di non sottovalutare il tempo uggioso e il caffè servito a fine pranzo da giovani SS. I viennesi, un mese dopo, "erano così impazienti di essere invasi" che si accontentarono dei primi tre soldatini tedeschi entrati in città per portarli subito in trionfo. Con un lieve ghigno, il narratore ci informa che l’oroscopo del 12 marzo ’38 fu splendido per Bilancia, Cancro e Scorpione, "mentre per il resto dell’umanità era nefasto". E aggiunge che solo l’oscuro caporedattore di un giornale locale farà uscire quel giorno un breve articolo "di resistenza". In mattinata le squadracce naziste si presentano al giornale per picchiare impiegati e redattori.
"Eppure al Neus Wiener Tagblatt non sono di sinistra, non hanno detto una parola quando il parlamento si è dissolto nel nulla, hanno approvato docilmente il cattolicesimo autoritario…". L’eroismo, commenta Vuillard, è una cosa strana, "relativa".

Repubblica Robinson 23.9.18
Sarfatti

Il Duce e l’amica troppo geniale
di Natalia Aspesi


Una doppia mostra al Mart di Rovereto e al Museo del 900 di Milano racconta l’ascesa e la caduta di Margherita Sarfatti: anima intellettuale del primo fascismo poi scaricata da Mussolini. E infine costretta all’esilio: perché ebrea
L’ombra che oscura la figura di Margherita Sarfatti e che lei stessa aveva cercato di allontanare scrivendo nel 1955 Acqua passata, dopo il ritorno in Italia dal lungo esilio, è parte essenziale della sua storia ma non è tutta la sua storia: che due mostre contemporanee e congiunte, (fino al 24 febbraio, catalogo Electa), al museo del ‘900 di Milano (curata da Anna Maria Montaldo e Danka Giacon) e al Mart di Rovereto (curata da Daniela Ferrari), cercano di ricostruire oltre quell’ombra il suo ruolo di importante critica d’arte, di collezionista, di organizzatrice di mostre in Italia e all’estero. E pure ricordando il suo celebre salotto milanese di corso Venezia, dove ogni mercoledì si incontravano politici, poetesse, futuristi, galleristi, novecentisti, celebrità varie.
Femministe. Socialisti.
Bolsceviche. Fascisti. Un giovanotto dagli occhi prensili, un poeta seduttore, Mussolini e D’Annunzio. Ma si può davvero separare Margherita Sarfatti da Benito Mussolini, la ricca, audace, colta (sa perfettamente tedesco, inglese, francese) signora dal rustico figlio di un fabbro romagnolo, colei che insegnò come indossare le ghette e scegliere il capello, da chi imporrà anni dopo una stupida divisa a tutti, dai figli della lupa alle maestre? Forse sì, è possibile restituire Margherita Sarfatti a séstessa, oltre l’avventura fascista con il suo ‘devotissimo selvaggio’: che prima delle Marcia su Roma le scrive qualcosa come, “Mio amore, il mio pensiero, il mio cuore ti accompagnano.
Abbiamo passato ore deliziose … ti abbraccio forte, ti bacio con tenerezza violenti...”.
(citato da Antonio Scurati, in M Il figlio del secolo); e poi nel luglio del 1929, anno VII dell’era fascista, con la sua scrittura aguzza e minacciosa la cancella con livore: “Gentilissima Signora, leggo un articolo nel quale ancora una volta voi tessete l’apologia del cosiddetto ‘900, facendovi alibi del Fascismo e del sottoscritto. Lo disapprovo nella maniera più energica …”.
Questa e altre decine di lettere, fotografie, documenti, manifesti, libri, per la maggior parte del fondo Sarfatti conservato al Mart, intrecciano le vicende politiche con la ricchezza dell’arte di quei primi decenni del secolo scorso, di cui la signora è certo protagonista: i ‘suoi’ artisti formano il gruppo ‘900 e sono Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Oppi, Sironi, Marussig le cui opere si ritrovano nelle due mostre come autori dei suoi tanti ritratti, come parte della sua collezione privata, come immagini di quel tempo artisticamente vivo, in quella Milano al centro di ogni tumulto politico. Le fotografie di inaugurazioni mostrano la signora, unica donna in mezzo a decine di uomini con i baffi, le palandrane e il capello. Sono anni in cui le donne si stanno imponendo: a Milano ci sono la socialista Anna Kulishoff che combatte per il suffragio femminile, Angelica Balabanoff vicedirettrice dell’Avanti! quando direttore è Mussolini, Ersilia Maino presidente della Lega Femminile, Ada Negri che è arrabbiata per non aver ricevuto il Nobel, le operaie che precederanno gli uomini negli scontri di piazza contro i fasci. Margherita è irrefrenabile, scrive sull’Avanti! dove ha conosciuto
Mussolini e poi sul Popolo d’Italia da lui fondato; dirige Gerarchia, la rivista ideologica del fascismo, cresce tre figli, perde in guerra Roberto, 17 anni, resta vedova, scivola spesso a Palazzo Venezia come tante altre signore, gira l’Italia e il mondo per i suoi artisti e per il duce. I collezionisti privati e pubblici sono sempre meno inclini a prestare le loro opere, e infatti Milano e Rovereto hanno dovuto rinunciare ad alcune importanti: ma tra le quasi 200 opere esposte ci sono i nudi femminili dalle cosce possenti di Casorati e Bacci, le signore annoiate sotto i cappelini ai tavoli dei caffè di Marussig e Borra, le nature morte di Oppi e Morandi, gli autoritratti di Dudreville e Funi, i paesaggi di Soffici e Salletti, le tozze madonne simili alle stupefatte massaie rurali di Tozzi e Saetti, i muratori d Campigli, i pastori di Sironi. E i tanti Mussolini scolpiti da Wildt, Thayat, Bertelli, la foto da divo del cinema prima della marcia su Roma, poi travestito da Napoleone con la scritta «una fisionomia storica che ritorna, il pallido corso – il fiero romagnolo», in divisa e a cavallo, con pennacchio bianco sul copricapo; e i ritratti più fascinosi e privati con dedica alla colta e utile amante. Nel 1932 Margherita viene allontanata dal Popolo d’Italia,
è l’anno in cui in uno sfrecciare di macchine sulla strada Roma Ostia, Mussolini alla guida di una Alfa Granturismo Zagato sorpassa quella su cui viaggia la signorina Claretta Petacci: lui ha trent’anni più di lei e tre anni meno di Margherita, cui nel 1936 viene proibito l’ingresso a Palazzo Venezia.
Non solo l’antica amante è diventata fastidiosa, ma è anche ebrea: nel 1938 anno delle leggi razziali, lei sa che non sarà risparmiata e può solo fuggire. Torna nel 1947, appestata dal suo passato, abbandonata dagli ex amici, insultata anche in strada.
Muore nella sua casa di campagna nel Comasco nel 1961, a 81 anni.

Il Sole Domenica 23.9.18
Bella scoperta. Ritrovato l’autografo della celebre lettera galileiana inviata a Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613, all’origine dello scontro con la Chiesa
L’autocensura di Galileo è riemersa a Londra
di Paolo Galluzzi

Direttore del Museo Galileo

Di Galileo si pensa di conoscere ormai tutto o quasi. E con alle spalle una tradizione storiografica più di tre secoli, non ci si aspetta certo di trovare nuovi documenti che illumino episodi importanti delle sue vicende biografiche. Ma le ricerche d’archivio riservano talvolta sorprese, facendo riemergere testi che si consideravano irrimediabilmente perduti. Ed è proprio quello che è accaduto alcune settimane fa quando alla Royal Society Library di Londra è stato rinvenuto l’autografo della celebre Lettera di Galileo a Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613. Un documento di inestimabile valore – la prima delle celeberrime Lettere Copernicane – che è in realtà un breve trattato in forma epistolare, nel quale Galileo espone per la prima volta la propria visione dei rapporti tra scienza e religione, rivendicando la piena autonomia della ricerca scientifica dalla teologia, e difende il sistema copernicano dalle accuse di inconciliabilità con la Sacra Scrittura.
La scoperta di questo autografo – una delle acquisizioni più rilevanti degli ultimi decenni per quanto attiene agli studi galileiani – è il frutto delle ricerche intraprese grazie al PRIN (Progetto di rilevante interesse nazionale) «Scienza e il mito di Galileo in Europa tra il XVII e il XIX secolo», finanziato dal MIUR e coordinato da Massimo Bucciantini dell’Università di Siena, che vede coinvolti studiosi di diverse università italiane in collaborazione con il Museo Galileo di Firenze. In tale contesto, l’unità locale dell’Università di Bergamo, responsabile delle indagini sulla fortuna di Galileo nell’Inghilterra del XVII secolo, ha incaricato Salvatore Ricciardo, assegnista in quell’Ateneo, di verificare se nelle edizioni di opere galileiane possedute da British Library e Royal Society fossero presenti glosse marginali, commenti o note di lettura.
Ricciardo ha notato che nel catalogo dei manoscritti della Royal Society era segnalata una lettera di Galileo a Castelli, datata 21 ottobre 1613. Ottenuto in consultazione il documento, si è accorto che la data in calce era diversa: 21 dicembre 1613, perfettamente coincidente con quella della lettera copernicana al Castelli. Vi ha inoltre verificato la presenza di numerose cancellature e correzioni della medesima mano. Ricciardo si è affrettato a inviarne una riproduzione fotografica a Franco Giudice e a Michele Camerota, responsabili rispettivamente delle unità locali dell’Università di Bergamo e di quella di Cagliari, oltre che direttori, insieme a Massimo Bucciantini, di «Galilaena», la rivista internazionale del Museo Galileo specializzata in studi galileiani. Dopo accurati controlli, anche di tipo grafologico, i tre studiosi sono giunti alla conclusione che la lettera della Royal Society è senza dubbio di mano galileiana.
L’esistenza di questo importantissimo documento non è stata mai segnalata in precedenza, nonostante fosse registrato nel catalogo dei manoscritti della Royal Society fin dal 1840, e sia indicato nel catalogo online della prestigiosa istituzione britannica. Finora la Lettera a Castelli era conosciuta soltanto attraverso copie manoscritte: i dodici testimoni collazionati da Antonio Favaro per l’edizione critica del documento pubblicata, nel 1895, nel quinto volume dell’Edizione Nazionale delle Opere di Galileo.
Il ritrovamento dell’autografo rappresenta molto più di una mera acquisizione documentaria, poiché obbliga a riconsiderare non solo la dinamica di stesura del testo, ma, soprattutto, la storia della sua immediata ricezione e la funzione decisiva che recitò nel motivare le autorità ecclesiastiche ad assumere un atteggiamento di risoluta opposizione nei confronti delle novità celesti galileiane. La Lettera a Castelli è infatti all’origine delle vicende che porteranno nel 1616 alla sospensione del De revolutionibus di Copernico e all’ammonizione del cardinale Bellarmino a Galileo ad abbandonare la dottrina copernicana.
L’autografo della Lettera permette di ricostruire anche il modo nel quale Galileo reagì alla notizia che la missiva al Castelli era finita nelle mani degli occhiuti censori. Vivamente preoccupato dalla vasta circolazione del documento, il 7 febbraio 1615, il domenicano fiorentino Niccolò Lorini ne aveva infatti inviata copia a Roma, denunciando come «sospette e temerarie» le teorie espostevi da Galileo; il quale – prese cura di sottolineare – «seguendo le posizioni di Copernico» ardiva presentare come vera un’opinione «in tutto contraria alle Sacre Lettere». Una settimana più tardi, Galileo inviò a Roma al fidato amico Monsignor Piero Dini la versione della Lettera redatta «nel modo giusto che l’ho scritta io», manifestando il sospetto che «forse chi l’ha trascritta può inavvertitamente aver mutata qualche parola», facendo «apparire le cose molto diverse dalla mia intenzione». Galileo chiese a Dini di far leggere la versione “autorizzata” della Lettera al matematico gesuita Christoph Grienberger e soprattutto al cardinale Bellarmino, il principale teologo del Sant’Uffizio.
Rispetto agli altri testimoni pervenutici, la copia trasmessa a Roma da Lorini, conservata presso l’Archivio Segreto Vaticano (contrassegnata dalla sigla Pr), contiene un significativo numero di varianti, che evidenziano il ricorso a espressioni più dirette e perentorie sulla mancanza di autorità delle Scritture Sacre nelle questioni naturali. Favaro segnalò quelle varianti, ma, giudicando l’esemplare vaticano lontano dalla «lezione genuina», esemplò la propria edizione sugli altri testimoni. Esattamente come Galileo, Favaro sospettava che Lorini avesse interpolato il testo della Lettera per farne risaltare maggiormente le pericolose implicazioni teologiche.
L’autografo appena riemerso dal lungo oblio racconta una storia diversa. Anzi, capovolge i termini stessi della ricostruzione fin qui dominante. Le numerose parole e intere frasi cancellate ed emendate nel manoscritto della Royal Society trovano infatti corrispondenza speculare nella copia trasmessa a Roma da Lorini. A titolo di esempio, Galileo aveva originariamente scritto che la Bibbia contiene «molte proposizioni false quanto al nudo senso delle parole». Tale espressione, che ricorre tale e quale in Pr, venne successivamente sostituita da quella, meno censurabile teologicamente, tramandata dal resto della tradizione manoscritta: «molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero».
L’accurato esame dell’autografo induce a concludere che Pr rappresenta una copia fedele del testo inviato a Castelli da Galileo, il quale, venuto a conoscenza della denuncia, si preoccupò di moderare le espressioni che temeva potessero urtare la sensibilità degli inquisitori. Il documento della Royal Society impone dunque non solo di riconsiderare il processo di compilazione della Lettera a Castelli, ma getta nuova luce sulle vicende che nel marzo 1616 portarono alla condanna del copernicanesimo.
La scoperta fornisce solida base documentaria alla tesi formulata da Mauro Pesce in un saggio del 1992 apparso su «Filologia e critica», nel quale contestò che Pr fosse stato artatamente manipolato da Lorini. Pesce vi sostenne – oggi possiamo dire a ragione – che il codice dell’Archivio Segreto conteneva la copia fedele della stesura originaria della Lettera a Castelli modificata successivamente da Galileo. L’autografo spiega, tra l’altro, perché, nonostante le pressanti richieste degli inquisitori, Benedetto Castelli non consegnò mai l’originale della lettera galileiana in suo possesso: avrebbe infatti dovuto spedire ai censori un testo identico a quello trasmesso a Roma da Niccolò Lorini.
Camerota, Giudice e Ricciardo pubblicheranno a breve una nuova edizione critica e un dettagliato studio storico sull’autografo della Lettera a Castelli, che lascia intravedere promettenti prospettive di approfondimento delle ricostruzioni tradizionali dei drammatici eventi innescati dalla trasmissione alle autorità ecclesiastiche romane della copia della lettera galileiana del dicembre 1613.

Il Sole Domenica 23.9.18
Quando la religione si trasforma in politica
di Armando Torno


Gli studi sul monoteismo di Raffaele Pettazzoni (1883-1959), uno dei massimi storici delle religioni, sono ancora preziosi. Le sue ricerche restano un riferimento: non soltanto i saggi dedicati ai primitivi, ma anche quelli sui culti cosiddetti superiori. Libri quali Dio: formazione e sviluppo del monoteismo (Società Editrice Athenaeum, 1922) o L’onniscienza di Dio (Einaudi 1955) contengono osservazioni non superate dalle ultime tesi sull’origine di questa concezione religiosa. Ora le questioni si sono ampliate. L’egittologo tedesco Jan Assmann indaga i rapporti fra monoteismo e violenza; l’antropologo francese René Girard scrisse nel libro Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (tradotto da Adelphi nel 1983): «Il sacro è la violenza”.??????
Non è il caso di riportare tutte le supposizioni sull’origine di politeismo o monoteismo, basterà aggiungere che il faraone Amenofi IV (o Amenhotep IV, vissuto nel XIV secolo prima di Cristo), in onore al dio unico volle chiamarsi Akhenaton. Recuperò una divinità, la stessa che al tempo delle grandi Piramidi figurava tra quelle secondarie; la trasformò nel culto centrale del Pantheon egizio, fino a farle reggere una religione monoteistica. Aton, il disco solare, dall’essere uno dei tanti dei, si ritrovò Dio. Il faraone andò oltre, diventando il solo tramite tra Lui e gli uomini, portando alle estreme conseguenze lo scontro con la potente casta sacerdotale del vecchio dio Amon.
A tali vicende, qualcuno aggiunge che è il caso di confrontare la forte corrispondenza tra l’inno ad Aton (considerato di mano dello stesso faraone) e il salmo 104 della Bibbia. Chi scrive, tuttavia, preferisce ritornare a Pettazzoni: di lui, a cura di Giovanni Casadio, è stata pubblicata da Mimesis una raccolta di saggi dal titolo Storia delle religioni e mitologia. Un breve testo qui presente, uscito a Tubinga nel 1930, è intitolato Monoteismo e politeismo.
Riportiamo la conclusione di Pettazzoni: «I meravigliosi destini di Jahve come rappresentante di un monoteismo etico sono forse contenuti in germe nell’aspetto vindice e punitore di un essere celeste primitivo, svoltosi poi in un dio supremo del cielo manifestantesi nella tempesta. Anche Allah, datore della pioggia (Sura 29, 63) ed onnisciente (Sura 58,8; 57,3 sgg), è verosimilmente un antico iddio del cielo preesistente a Maometto. I fondatori delle grandi religioni monoteistiche non rivelarono ex novo i rispettivi iddii, ma - a parte Gesù, sorto in un ambiente già monoteistico – sublimarono al grado di iddii assolutamente unici quelli che negli antecedenti politeismi erano già degli iddii supremi perché erano iddii del cielo, alla lor volta risalenti verosimilmente a primitivi esseri celesti pre-politeistici».
Che aggiungere? Semplicemente che la tesi di Pettazzoni aiuta a comprendere attuali ripensamenti sul politeismo, inteso come religione di alto profilo, oltre che fede tollerante. Al tempo di Gesù, a Roma, convivevano centinaia di culti e tutti si potevano praticare, se non violavano le leggi dell’impero. Da qualche giorno anche in Italia è uscita la traduzione del saggio di Catherine Nixey Nel nome della croce (Bollati Boringhieri), dedicato alla distruzione operata dal cristianesimo, a cominciare dal IV secolo, del mondo classico e della religione greco-romana. Questa studiosa, formatasi a Cambridge, descrive il momento in cui i cristiani diventarono persecutori e intolleranti. Del resto, quando una fede tramonta (con la sua civiltà) spunta la violenza, che consente a un’altra di occuparne il posto. La religione si trasforma sempre in politica. Allora come oggi.
Storia delle religioni e mitologia Raffaele Pettazzoni Mimesis, Milano, pagg. 280, € 24

Il Sole Domenica 23.9.18
Luciana Castellina
Resistenza intessuta di passioni
di Eliana Di Caro


C’è un filo rosso che unisce la vicenda del poeta Nâz?m Hikmet, e i versi che illuminano il suo amore per la Turchia, agli eroici guerriglieri che lottano a Creta nel secondo dopoguerra, ai comunisti americani che sfidano le leggi maccartiste e si battono per la conquista dei diritti civili, contro l’apertheid dei neri.
È un filo che, oltre al colore politico comune dei protagonisti di queste storie, riguarda l’identificazione della propria esistenza con gli ideali per i quali ci si batte. Di più: è l’impossibilità di vivere rinunciando ai valori in cui si crede. Luciana Castellina lo racconta con grande intensità in Amori comunisti (Nottetempo), un libro di memoria e di passioni, ma anche un manifesto politico sulla difesa della democrazia e sulla Resistenza, in cui il lettore è portato in un’altra epoca, e non è solo questione di tempo. C’è la forza dei personaggi, la stra-ordinarietà delle loro esperienze, la capacità di rimanere uniti e non cedere a una sorte avversa.
«Per chi si fa coinvolgere dalla Storia fino in fondo, la vita privata e quella pubblica sono così strettamente intrecciate che a volte si scambiano e si confondono», scrive nel Prologo l’autrice, che da militante e giornalista ha conosciuto direttamente le persone di cui narra, raccogliendone diretta testimonianza. La storia di Münevver Andaç e Nâzim Hikmet si dipana nella tormentata Turchia del primo Novecento.
Quello che sarà uno dei poeti più amati e celebrati del mondo sente presto la cappa asfissiante del nazionalismo e la rifiuta, diventando un nemico della Repubblica Turca: verrà incarcerato decine di volte, spesso con pretesti insignificanti, passando la vita a sfuggire ai militari e nel frattempo scrivendo e rivendicando un destino diverso per il popolo turco. Amando, anche, le tante donne che subiscono il suo fascino, ammaliate dall’uomo e dal personaggio. Münevver, la madre di suo figlio Mehmet - compagna di fughe, clandestinità, separazioni forzate - su tutte.
Lo stesso impeto, su uno scenario diverso e tragico, con decimazioni e persecuzioni feroci, guida Nikos Kokovlìs e Arghirò Polichronaki a Creta. Si incontrano, entrambi “compagni”, sulle montagne nel 1948 in piena guerra civile (la cui memoria è oggi sbiadita) e già allora scocca una scintilla. Ma solo nel 1963 a Taskent, in Unione Sovietica, potranno vivere davvero come una coppia. Nel mezzo, ricostruisce Castellina, c’è la lotta, la Resistenza durissima , mentre attorno a loro cadevano o venivano arrestati uno dopo l’altro decine di guerriglieri.
Interessante ed esemplare di come funzionavano le cose in quella stagione il racconto del passaggio in Italia degli ultimi sei clandestini (inclusi Nikos e Arghirò) che riescono a eludere le maglie della sicurezza e approdano a Otranto, accolti dai compagni italiani. I quali, in realtà, non aspettavano “questi greci”, ma - una volta ottenute le informazioni e rassicuratisi sull’autenticità del loro resoconto - si prodigano e li aiutano a raggiungere l’Est.
Con Sylvia Berman e Robert Thompson si va dall’altra parte dell’Atlantico, negli Stati Uniti d’America. Le storie sulla segregazione razziale, sul periodo maccartista, sul buio del Ku Klux Klan forse si conoscono tristemente di più, anche grazie a un presidente afroamericano che mai si sarebbe creduto potesse arrivare alla Casa Bianca, proprio perché solo 70 anni prima ci si doveva nascondere per spendersi a favore dei diritti dei niggers (allora, sottolinea l’autrice, non si diceva blacks).
Resta una testimonianza preziosa, offerta come le altre senza retorica, che restituisce il clima di quegli anni. E, oggi, c’è da rimanere vigili.
eliana.dicaro@ilsole24ore.com
Amori comunisti, Luciana Castellina
Nottetempo, Roma, pagg. 266, € 16. L’autrice presenterà il libro con Silvia Neonato domenica 30 settembre a Genova, a Book pride, alle 17 nella Sala Storia Patria

Il Sole Domenica 23.9.18
Cosmologia. L’universo in un saggio del fisico e divulgatore Jim Al-Khalili
In viaggio tra i prodigi dello spazio-tempo
di Vincenzo Barone


Ci sono regali di compleanno che lasciano il segno. In occasione dei settant’anni di Albert Einstein, nel 1949, il grande logico matematico Kurt Gödel decise di rendere omaggio al padre della relatività, suo compagno di passeggiate e di meditazioni a Princeton, con un singolare lavoro scientifico, contenente un nuovo modello cosmologico. Gödel era convinto che il tempo fosse un’illusione e pensò di dimostrarlo concependo un universo perfettamente coerente con le leggi della relatività generale ma dotato di una caratteristica inaudita: la possibilità di viaggiare indietro nel tempo, visitando il proprio passato.
L’universo di Gödel è molto diverso da quello che conosciamo: per esempio, non si espande, ma ruota. Nessuna legge fisica, però, lo vieta, e se fosse reale, creerebbe non pochi problemi. Provate a immaginare che cosa potrebbe succedere se foste in grado di tornare indietro nel tempo. Il paradosso più eclatante in cui incorrereste è quello del nonno: supponete che, viaggiando nel passato, decidiate di uccidere vostro nonno prima che abbia la possibilità di conoscere vostra nonna e di concepire i vostri genitori. Non sareste quindi potuti nascere; ma, d’altra parte, se non foste nati, non potreste oggi tornare nel passato e uccidere vostro nonno.
Come ricorda il fisico e divulgatore Jim Al-Khalili in Buchi neri, wormholes e macchine del tempo, che esce ora in un’edizione italiana aggiornata, l’articolo di Gödel segnò il momento in cui i viaggi nel tempo, in precedenza appannaggio solo della letteratura di fantasia, conquistarono il palcoscenico della fisica. Era l’inizio dell’investigazione scientifica dei territori estremi ed esotici, ma ammissibili, dello spazio-tempo. C’era stato, a dire il vero, un precedente: lo stesso Einstein, assieme a Nathan Rosen, aveva immaginato nel 1935 un modo per connettere, attraverso una sorta di scorciatoie cosmiche, due universi paralleli. I«ponti di Einstein-Rosen» sono gli antesignani dei wormholes, i cunicoli spazio-temporali che collegano regioni lontane dello stesso universo (invece che universi distinti, come nella proposta di Einstein e Rosen).
A inaugurare la moderna ricerca su queste intriganti strutture cosmologiche è stato negli anni Ottanta del secolo scorso un fisico di grande ingegno, Kip Thorne, su richiesta dell’amico Carl Sagan, il famoso astronomo e scrittore, che intendeva introdurre i wormholes nella trama del suo romanzo Contact. Sagan aveva bisogno di wormholes stabili, sufficientemente grandi e percorribili nei due sensi, in modo da dare la possibilità a una missione terrestre di entrare in contatto con una civiltà aliena e di tornare indietro. Thorne si mise al lavoro e, con sua grande sorpresa, scoprì che lo spazio-tempo relativistico ammetteva effettivamente collegamenti di questo genere.
L’intreccio tra scienza e finzione si è ripetuto di recente ancora con Thorne, il quale ha contribuito come soggettista e produttore esecutivo alla realizzazione di Interstellar, uno dei più interessanti film di fantascienza degli ultimi anni, diretto da Christopher Nolan. I “protagonisti” scientifici del film sono – in una cornice fantastica – gli stessi del libro di Al-Khalili: un buco nero supermassiccio, simile a quelli che popolano i centri di molte galassie (compresa la nostra), un wormhole, che si apre improvvisamente vicino a Saturno, e, soprattutto, una macchina del tempo. Quest’ultima è pensata da Thorne come un ipercubo che si muove in una quinta dimensione, ma, come spiega Al-Khalili, in linea di principio si possono concepire macchine del tempo anche nel nostro solito universo, senza aver bisogno quindi di dimensioni extra o di modelli di tipo gödeliano: basta (si fa per dire) che si combinino opportunamente dei wormholes attraversabili, nella speranza che non sia vero quanto congetturato da Stephen Hawking, e cioè che non si scopra qualche nuova legge della natura a protezione del corso ordinario degli eventi.
Curiosamente, tra tutti i prodigi spazio-temporali, in Interstellar ne mancava uno, di cui abbiamo oggi evidenza diretta: le onde gravitazionali. Sebbene non fossero state ancora osservate, Thorne le aveva inserite nel soggetto originario del film, risalente al 2004, ma alla fine il regista aveva deciso di eliminarle. Ironia della sorte, appena un anno dopo l’uscita del film, all’inizio del 2016, l’esperimento statunitense Ligo e l’omologo italo-francese Virgo hanno annunciato la scoperta delle prime onde gravitazionali (per questo risultato Thorne, co-fondatore e responsabile teorico di Ligo, è stato insignito l’anno scorso del premio Nobel per la fisica assieme ai colleghi Rainer Weiss e Barry Barish).
In cosmologia, come si vede, l’osservazione e l’invenzione si rincorrono e si sostengono a vicenda, disegnando un’immagine dell’universo a dir poco stupefacente. Quella che è in corso sotto i nostri occhi, e che ci regala quotidianamente sorprese, è una straordinaria avventura, che Al-Khalili racconta con la sua riconosciuta abilità divulgativa, accompagnando il lettore tra i più misteriosi abitatori del cosmo e nelle pieghe nascoste del tempo, in un viaggio vertiginoso ma sempre sul solido terreno della scienza.
vincenzo.barone@uniupo.it
Questo articolo è una versione modificata della prefazione di Vincenzo Barone a Jim Al-Khalili, Buchi neri, wormholes e macchine del tempo (Dedalo, Bari, pagg. 320, € 13,60) nei prossimi giorni in libreria