domenica 9 settembre 2018

La Stampa 9.9.18
Mussolini, figlio del suo secolo
La tragica parabola del capo del fascismo Il Ventennio nero in un romanzo storico
di Antonio Scurati


Un vasto lavoro di documentazione
Anticipiamo qui sopra un brano del nuovo romanzo di Antonio Scurati M. Il figlio del secolo (Bompiani, pp. 840, € 22) che sarà in libreria da mercoledì. L’opera, nata da un vasto lavoro di documentazione, verrà presentata dall’autore insieme con Paolo Mieli a «Pordenonelegge» sabato 22 settembre.

Un cadavere in stato di putrefazione è stato ripescato nelle acque del naviglio. Pare si tratti di Benito Mussolini.
Due righe in cronaca. L’ Avanti!, il giornale dei socialisti che lui ha diretto per anni, non ha concesso alla sua catastrofe più di due righe in cronaca. Ma due righe velenose. In prima pagina, sotto alla testata, a caratteri cubitali, si proclama invece il loro trionfo: «È nata l’Italia della rivoluzione!».
Nel minuscolo studio del direttore de Il Popolo
d’Italia giunge dalla strada il vociare della folla accorsa ai suoi funerali. La salma di Mussolini viene portata in processione tra le vie sozze del Bottonuto. S’intonano a squarciagola canti funebri su stridenti frequenze di giubilo. Le puttane, provvisoriamente disoccupate a causa della cagnara che scoraggia i clienti, si affacciano disinibite alle soglie dei bordelli.
Nella sua miserabile stanzetta il Mussolini vivente si aggira con riflessi da belva in gabbia. La percorre in lungo e in largo ma non scorge nessuna breccia nel muro dell’ostilità universale. Ogni volta che qualcuno bussa alla porta, incassa la testa nelle spalle per ridurre la superficie corporea e si volta di scatto mosso dall’istinto della preda aggredita. Poi, non appena si accorge di avere un pubblico, fosse anche solo un fattorino, riguadagna la padronanza di sé e ostenta noncuranza. A chiunque si venga ad accertare sulle condizioni di salute del morto vivente concede qualche spacconata. «Voti ne abbiamo ottenuti pochi, sì, in compenso di revolverate ne abbiamo sparate parecchie». O roba del genere. Sghignazza perfino quando gli riferiscono la battuta che già circola per Milano: «Con un maestro d’orchestra come Toscanini in lista, la sonata non poteva essere che eccezionale».
La verità è che lo scacco per i fascisti è stato micidiale, lo smacco personale per lui che già s’immaginava come «il deputato di Milano» bruciante. Quelle del 16 novembre sono state elezioni «rosse». Sui socialisti si sono rovesciati 1.834.792 voti, pari a 156 parlamentari eletti. Un risultato trionfale, un presagio di rivoluzione. L’insuccesso della lista fascista è stato, per proporzione inversa, totale: su circa 270.000 votanti della circoscrizione di Milano, i fascisti hanno raccolto soltanto 4657 voti. Mussolini ha ottenuto soltanto 2427 voti preferenziali. Nessuno dei candidati fascisti è stato eletto. Nessuno. Nemmeno lui. È stato un fiasco completo.
Agli altri mente, ma alla moglie lo ha confessato: «Una sconfitta totale. Non abbiamo ottenuto nemmeno un seggio. In Galleria la gente si è scatenata contro di noi». È stato costretto a chiamare Rachele per cercare di tranquillizzarla quando gli hanno riferito che il beffardo corteo funebre inscenato dai socialisti si era appostato anche sotto la loro casa in Foro Bonaparte. La gente gridava: «Ecco il cadavere di Mussolini» e picchiava sulla porta d’ingresso. Dietro alla sua bara, altri due feretri vuoti accoglievano idealmente le salme di Marinetti e di D’Annunzio. Rachele, a sua volta,gli ha confessato di essersi rifugiata in soffitta con i bambini. Pare che la piccola Edda sia stata colta da una crisi di nervi.
I visitatori, proprio come a un funerale, continuano ad affluire alla sede del giornale. Inutile cercare di tenere la porta chiusa. Quando in strada stanno seppellendo la tua ombra, la gente ti viene a cercare.
Per mostrarsi inalterato, lui si è fatto portare un bicchiere di latte. Siede al suo tavolino da lavoro nella stanza spoglia e manda a chiamare Arturo Rossato, un suo redattore, perché scriva in bella grafia gli indirizzi del cardinale Ferrari e di Caldara, il sindaco socialista di Milano, da apporre a due pacchi rotondi avvolti in carta di giornale. Attorno alla scrivania, l’ambiente dà l’idea di un trasloco imminente. Sul muro si accampa soltanto una carta d’Italia con una bandierina tricolore appuntata in corrispondenza di Fiume. Sullo scrittorio campeggia, invece,soltanto il grosso bicchiere di latte e una vecchia monumentale pistola da furiere. Le grida dei socialisti dalla strada si alzano minacciose, Mussolini rimescola il latte con studiata lentezza, lo centellina, goccia dopo goccia, lo ripone e torna a mescolarlo. Le onde di bianco viscoso fanno contrasto con il metallo immobile, bruno, dell’arma: «Urlano, gridano, fanno un finimondo di fracasso ma sopprimi i cravattoni, le bandiere e resta un branco di scemi. Non la faranno mai la rivoluzione. Se questi rivoluzionari a chiacchiere non pagano la loro cambiale, il popolino la protesterà e allora saranno pasticci… come si diceva in trincea. Ci sono vittorie che valgono come una sconfitta.»
Arturo Rossato, il redattore venuto a consegnare le buste con gli indirizzi, non può che acconsentire alle spacconate del capo con un moto impercettibile della testa. Dalla strada le urla dei socialisti salgono ancora di un’ottava.
«E non credere che vengano qui perché, vedi, io sono morto. Sono oramai un uomo senz’ombra».
Benito Mussolini s’interrompe qualche secondo per lasciare al redattore il tempo di farsi invadere dallo sgomento. Rimescola il latte, poi riprende: «Mi hanno spacciato per morto ma proprio per questo loro sanno che, se vengono su, con questa pistola almeno un paio li atterro. E a Milano, se non lo sai, non ci sono fra gli iscritti al Partito socialista due, dico due eroi che sappiano affrontare il pericolo. Un branco di scemi. Sono un branco di scemi. Perciò… io bevo il latte.»