Corriere La Lettura 9.9.18
M Il nome della sconfitta
Antonio Scurati in 800 pagine e oltre rilegge Mussolini e vi trova il proprio demone di autore
di Daniele Giglioli
C’è
voluto un coraggio notevole, da parte di Antonio Scurati, per scrivere
un romanzo di più di 800 pagine (M. Il figlio del secolo) in cui si
narra l’ascesa al potere di Mussolini, dalla fondazione dei Fasci di
combattimento alla capitolazione delle opposizioni dopo il delitto
Matteotti. Non inventando nulla, ricalcando scrupolosamente documenti e
testimonianze, riservando all’autore soltanto la responsabilità del
montaggio e un cantuccio per il commento, come diceva Manzoni a
proposito dei cori delle sue tragedie. Un coraggio che sarà necessario
anche al lettore, perché quella che M racconta è una storia, ma è anche
la Storia, la storia di tutti. Una brutta storia, una storia finita
male, una storia senza redenzione, una storia di sangue e di merda (alla
lettera: l’olio di ricino), una storia di violenze e più ancora di
tradimenti, di cedimenti, cecità, complicità, dove il più lucido di
tutti è anche, come l’Italia ha imparato a sue spese, un cieco che si è
messo alla guida dei ciechi. Un cieco la cui lucidità consisteva nel
saperlo: niente programmi, niente mani legate da pastoie ideologiche,
impegni d’onore, rispetti umani. Che cosa può avere spinto un romanziere
a convocare il suo strumento, che gioca sempre sulla tastiera del
possibile oltre che su quella del reale, su una materia così
mortificante?
Perché dal tono che Scurati adotta nessun equivoco è
pensabile. La vittoria di Mussolini e del fascismo non ha niente di
epico. Dell’epica ci sarebbero tutti gli ingredienti. I capi e i
gregari, le imprese e le bravate, le scene di massa (descritte con
grande vividezza) e i dilemmi del singolo, dove l’uomo e la Storia
sembrano poter trovare un momento di precaria comunicazione per il
tramite della coscienza. Ma il Mussolini di Scurati tutto sembra avere
tranne una coscienza. Non tanto nel senso di una coscienza morale, una
consapevolezza del limite, una cognizione per quanto problematica del
bene e del male. Ma proprio nel senso tecnico, filosofico del termine:
la riflessione, la flessione su di sé, la facoltà di considerare sé
stesso ed il proprio destino come qualcosa di non identico al flusso
degli eventi. Nulla del genere. Mussolini è abilissimo a comprendere gli
altri, soprattutto se questo significa intuirne le debolezze, le
esitazioni, le ambizioni, e perfino le virtù, purché servano a lui. Su
di sé non ha niente da dire.
Mussolini tradiva tutti, plagiava
tutti, copiava tutti (in primis D’Annunzio), senza che gli si alterasse
mai il battito cardiaco, come constatò con stupore un medico che gli
sentì il polso durante un duello. Non ammirava nessuno. Non gettava mai
il dado prima che la partita fosse vinta (durante la marcia su Roma era
pronto a scaricare i quadrumviri se mai le cose fossero andate storte;
nei giorni del delitto Matteotti tradisce uno sgomento e una
pusillanimità al limite della confusione mentale). Su due cose si
appoggia, come Scurati mostra benissimo. La prima è il puntare sul
peggio. Tanto peggio tanto meglio, perché il peggio è il banco e il
banco vince sempre. Il peggio che era possibile ricavare dalla
tradizione risorgimentale, dalla Grande guerra, dagli umori dei reduci,
dai rancori dei socialisti, dalla codardia dei liberali, dalle passioni
tristi come il risentimento, la paura, il piacere di distruggere,
odiare, minacciare, umiliare, insultare, sfondar crani e toraci prima a
parole e poi a manganellate. Il peggio gli appare, come dire?,
necessario. Una necessità della Storia, il suo senso, la sua direzione.
Nessun residuo in lui, che strumentalizzerà e poi abbandonerà i
futuristi, dell’ottimismo che aveva caratterizzato ciò che fu chiamato
lo stupido XIX secolo. Il peggio è ciò che deve accadere. Perché è nella
natura umana, è la natura umana.
E qui, secondo pilastro, nel
maneggiare il peggio lui è il migliore su piazza, ovvero tutti sono
peggiori di lui (convinzione che accomuna tutte le personalità
autoritarie). E i fatti gli danno ragione. Quali sono le leve che ha in
mano? Violenza e cinismo. Ma mica le ha solo lui. La violenza sarebbe a
rigore appannaggio del movimento socialista, che dopo il 1917 blatera di
rivoluzione a ogni comizio ma non prende mai l’iniziativa anche quando
stravince tutte le elezioni, amministrative e politiche. Non portano il
colpo (anche perché molti non hanno fatto la guerra), non sono
abbastanza intrinseci alla violenza nella sua vera natura. E il cinismo?
In quello nessuno avrebbe pensato di battere le vecchie volpi del ceto
liberale, che si convincono, da Giolitti a Croce, da Einaudi a
Albertini, di poter usare e poi buttar via il manganello fascista per
far tornare all’ordine i rapporti di classe, e finiranno beffati come
sappiamo, e come meritano. A puntare sul peggio si trova sempre qualcuno
che è peggio, questo almeno lo abbiamo imparato. Chiedersi come sarebbe
andata se in Italia ci fosse stato un Trotskij o un re più decente è un
esercizio di fantastoria cui Mussolini ha avuto la chiaroveggenza di
non indulgere mai. È andata come doveva andare.
E con ciò torniamo
al fatto che M è un romanzo, non un libro di storia. Il romanzo storico
ha da sempre assolto a due compiti. Inquadrare uno stato di fatto
presente additandone allegoricamente le cause nel passato (la Lombardia
asservita alla Spagna di Manzoni, per esempio). E ripercorrere a
contropelo la Storia mostrando che in essa si annidavano anche altre
possibilità, perdenti, censurate, sommerse, ma che il futuro potrebbe
incaricarsi di riprendere. M non fa nulla del genere. È di necessità,
non di possibilità che si tratta. Radicalizzando una postura già
presente nella sua produzione passata, Scurati sembra aver messo il
mondo umano sotto il governo di un cattivo demiurgo, un arconte gnostico
che maneggia una materia di fango, fango antico, fango primordiale.
Dallo
stile, dalle immagini, dalle metafore ciò emerge di continuo. Per
Mussolini l’autore non mostra alcuna condiscendenza, non si dice
ammirazione; e chi volesse parlare di fascinazione dovrebbe ricordare
che si contemplano affascinati anche le cose che fanno orrore. Dov’è
avvenuto allora l’incontro tra l’autore e l’eroe? A me pare che
Mussolini abbia fornito a Scurati il più perfetto modello, insieme
storico e paradigmatico, del cattivo demiurgo che ossessiona il suo
corpus di romanziere. Con M Scurati ha raggiunto la maturità artistica
di chi guarda finalmente in faccia il suo demone e può una buona volta
chiamarlo per nome: Mussolini, il nome della nostra sconfitta.