Il Fatto 9.9.18
Le 3 pesti all’assalto della democrazia
di Salvatore Settis
Tre
pesti infettano la democrazia in Italia, e dunque la nostra libertà e
la nostra vita. Sono germi di ceppi diversi, eppure convergono in un
unico gioco al massacro. Il massacro della democrazia. La prima
patologia è di moda ai nostri giorni: dando per scontato lo svuotamento
delle istituzioni rappresentative, se ne sbandiera cinicamente un
qualche estemporaneo sostituto.
Indizio recente e solo in
apparenza minimo, il preteso referendum sull’ora legale: vi ha
partecipato una percentuale infima della popolazione europea, eppure se
ne discute come fosse necessario tenerne conto. Noi italiani possiamo
stupircene meno di chiunque altro: non è forse da noi che bastano poche
centinaia, se non decine, di volenterosi o velleitari votanti per
“approvare” un programma (o “contratto”) di governo, la scelta di un
leader o di un sindaco, l’alleanza con una forza politica estranea anzi
ostile? E non è dalla stessa parte politica (uscita dalle urne del 4
marzo come il primo partito italiano) che vengono voci irresponsabili
che proclamano la fine del Parlamento e la sua sostituzione con
piattaforme informatiche buone a creare effimere maggioranze senza
quorum? Così mentre ci stracciamo le vesti per l’incompetenza di chi fa
crollare i ponti non ci avvediamo di propugnare la generalizzata
incompetenza di chi dovrebbe governare il Paese. E anzi di indicare
nell’inesperienza (meglio se totale) la panacea di tutti i mali.
Accanto
a questo, il bacillo dell’astensionismo elettorale. Anzi, della nostra
tendenza a rimuoverlo dalla coscienza. Fu evidente già nel 2014, quando
un Renzi al suo meglio come imbonitore degli ingenui e dei distratti
proclamava la vittoria del Pd alle Europee con il 40,81%: percentuale
drogata, giacché non teneva nel minimo conto il 49,63% di italiani che a
quelle elezioni non votò, o votò scheda bianca. Se quel 49,63% non sono
cittadini di seconda classe, il preteso 40,81% al Pd valeva la metà
(20,40%). Eppure la percentuale drogata viene ancora oggi richiamata,
anche da chi definisce Renzi un ciarlatano. E mentre l’astensionismo
cresce (il 37,71% di votanti alle Regionali dell’Emilia-Romagna non
basta come ammonimento?), l’afasia della sinistra e le incertezze sulla
tenuta dell’attuale governo allontaneranno altri cittadini dalle urne. È
in questo vuoto che cresce un’irresponsabile xenofobia, cavallo di
battaglia della Lega da Bossi a Salvini.
Terzo agente patogeno, il
diffuso nominalismo, l’uso di mere etichette in luogo di argomenti, di
nomi anziché dati. Basta accusare qualcuno di sovranismo, populismo,
antipolitica, per condannarne ogni idea senza guardarci dentro; e
(simmetricamente) per mettere alla gogna gli avversari basta accusarli
di connivenza con la finanza internazionale, con la Banca centrale
europea, con il Fondo monetario internazionale. Vengono così screditate e
irrise prima ancora di esser formulate ipotesi opposte: per esempio,
che una qualche tesi etichettata come liberista possa mai aver qualcosa
di buono, o per converso che sia giusto ricordarsi dell’art. 1 della
Costituzione secondo cui la sovranità appartiene al popolo. Questo
scontro muro contro muro impedisce alla stragrande maggioranza dei
cittadini di farsi un’idea propria sui termini dei problemi che il Paese
deve comunque affrontare. Ma gli astratti princípi, giusti o sbagliati
che siano, non si trasformano da soli in concrete azioni di governo.
Perciò, mentre più d’uno elogia l’incompetenza come virtù suprema, un
radicalismo fatto non di meditati progetti ma di improvvisate e
generiche petizioni di principio può naufragare miseramente alla prova
dei fatti (il caos vaccini insegni). E la parola torna fatalmente ai
veri o presunti “addetti ai lavori”, quelli che a torto o a ragione
dicono di saperla lunga, facendo leva sugli errori degli altri più che
sulla propria competenza e fedeltà alle istituzioni.
Un’ultima
pennellata è necessaria, mentre già traguardiamo verso le prossime
elezioni europee. Delle due forze di governo una (M5S) è, almeno in
linea di principio, portatrice di cambiamenti radicali, di una sorta di
immaginazione al potere, ma intanto, nonostante qualche buona mossa come
l’insistenza sul principio costituzionale della dignità, mostra la
corda arroccandosi su slogan post-elettorali e dando spazio alla
svalutazione del Parlamento. L’altro partito è la Lega, che non viene
dal nulla né è alla prima esperienza di governo. Per essere precisi
governò, con Berlusconi presidente e ministri come Bossi o Calderoli in
primissima linea, in quattro governi di tre legislature, senza contare
più o meno confessabili appoggi esterni e patti dietro le quinte. In
questo scenario, e traguardando verso le Europee, la Lega si presenta
come il partito che sta dalla parte dei veri “addetti ai lavori”, perché
le competenze da spendere dice di averle: sotto la salsa piccante di
una rampante xenofobia, è questo il piatto che ci viene quotidianamente
servito. Questo (vero o presunto) “realismo” della Lega rispetto al M5S
spiega la sua crescita nei sondaggi, una malcerta procedura statistica
che nell’opinione pubblica ormai soppianta i meccanismi elettorali
voluti dalla Costituzione vigente. L’attivismo di Salvini e le gaffes di
Grillo, Casaleggio, Di Maio stanno regalando alla Lega la patente di
primo partito d’Italia anche se non fu certo questo il responso delle
urne. Eppure in quelle forse astratte petizioni di principio, in quel
radicalismo, in quella disordinata ma autentica voglia di cambiamento
fermenta un’altra idea d’Italia, un’altra ipotesi progettuale che non ha
ancora preso forma (la parola “cambiamento” non basta). Questo è il
banco di prova del governo Conte, di cui ancora non sappiamo se servirà
da cavallo di Troia per imporre al Paese la Lega di Salvini, o come
ponte verso una maggiore autocoscienza del M5S, o almeno di quella sua
parte che viene dalla sinistra. Domande come queste interessano ben poco
ai Soloni del Pd, occupati come sono a contemplare l’ombelico dei
propri insuccessi e ormai soffocati dall’indigestione di pop-corn.