La Stampa 9.9.18
La foto del Duce esposta al bar non è apologia di fascismo
di Fabio Albanese
Una foto di Benito Mussolini appesa a una parete di un bar di Modica con annessa frase del Duce: «Non ho paura del nemico che mi attacca ma del falso amico che mi abbraccia». La protesta di una giovane cliente, modicana che vive al Nord e rientrata in Sicilia per le ferie, offesa per vedere esaltato un personaggio negativo della storia del Paese. Il sequestro dell’immagine da parte dei carabinieri corredato da una denuncia per apologia del fascismo. Era il 10 agosto scorso. Ieri, la decisione del Tribunale del riesame di Ragusa che riporta indietro le lancette: non è apologia del fascismo e dunque l’immagine di Mussolini nel bar va dissequestrata. Il Riesame cita due sentenze della corte di Cassazione, la numero 1 del 1957 e la numero 28 del 2016, secondo le quali la manifestazione del pensiero non si può limitare, tanto più che è garantita dalla Costituzione. L’episodio non ha nulla a che vedere con un eventuale pericolo di ricostituzione e riorganizzazione del partito fascista, vietato. Il giudice di Ragusa ritiene pure che la foto del Duce nel bar Fucsia di Modica non ravvisi «nemmeno l’astratta considerabilità del reato di apologia del fascismo».
Quando scattarono denuncia e sequestro, il titolare del bar, Giuseppe Spadaro, si era detto stupito e dispiaciuto. Ora aggiunge: «Non ho ancora deciso se rimettere sulla parete la foto di Mussolini. Ma la mia non era una scelta politica. Anzi posso dire che non ho simpatie politiche per nessuno. E di Mussolini so solo quello che mi raccontava mio nonno». Sulla frase del duce inserita nella foto, e che un mese fa aveva spiegato di aver preso da un sito internet, ora dice: «L’ho scelta solo perché mi era piaciuta».
Dal canto suo, la giovane di 24 anni che ha denunciato la presenza della foto nella zona tabacchi del bar, già allora aveva «postato» su Facebook la sua indignazione: «Mi vergogno di tornare nella mia terra quando succedono cose come questa. Un noto bar di Modica espone al pubblico, e sottolineo l’essere esposta alla fruizione di tutti, l’immagine di Mussolini accompagnata da una citazione. Ho chiesto se nessuno si vergognasse per quell’immagine e alla mia richiesta di spiegazioni mi è stato detto con tanta leggerezza quanta superficialità: “E che problema c’è? Mica è esposta”». Ai titolari del bar aveva offerto assistenza legale l’associazione «Ragusa in Movimento» perché la denuncia «mette a rischio i dieci posti di lavoro del bar».
La Stampa 9.9.18
Mussolini, figlio del suo secolo
La tragica parabola del capo del fascismo Il Ventennio nero in un romanzo storico
di Antonio Scurati
Un vasto lavoro di documentazione
Anticipiamo qui sopra un brano del nuovo romanzo di Antonio Scurati M. Il figlio del secolo (Bompiani, pp. 840, € 22) che sarà in libreria da mercoledì. L’opera, nata da un vasto lavoro di documentazione, verrà presentata dall’autore insieme con Paolo Mieli a «Pordenonelegge» sabato 22 settembre.
Un cadavere in stato di putrefazione è stato ripescato nelle acque del naviglio. Pare si tratti di Benito Mussolini.
Due righe in cronaca. L’ Avanti!, il giornale dei socialisti che lui ha diretto per anni, non ha concesso alla sua catastrofe più di due righe in cronaca. Ma due righe velenose. In prima pagina, sotto alla testata, a caratteri cubitali, si proclama invece il loro trionfo: «È nata l’Italia della rivoluzione!».
Nel minuscolo studio del direttore de Il Popolo
d’Italia giunge dalla strada il vociare della folla accorsa ai suoi funerali. La salma di Mussolini viene portata in processione tra le vie sozze del Bottonuto. S’intonano a squarciagola canti funebri su stridenti frequenze di giubilo. Le puttane, provvisoriamente disoccupate a causa della cagnara che scoraggia i clienti, si affacciano disinibite alle soglie dei bordelli.
Nella sua miserabile stanzetta il Mussolini vivente si aggira con riflessi da belva in gabbia. La percorre in lungo e in largo ma non scorge nessuna breccia nel muro dell’ostilità universale. Ogni volta che qualcuno bussa alla porta, incassa la testa nelle spalle per ridurre la superficie corporea e si volta di scatto mosso dall’istinto della preda aggredita. Poi, non appena si accorge di avere un pubblico, fosse anche solo un fattorino, riguadagna la padronanza di sé e ostenta noncuranza. A chiunque si venga ad accertare sulle condizioni di salute del morto vivente concede qualche spacconata. «Voti ne abbiamo ottenuti pochi, sì, in compenso di revolverate ne abbiamo sparate parecchie». O roba del genere. Sghignazza perfino quando gli riferiscono la battuta che già circola per Milano: «Con un maestro d’orchestra come Toscanini in lista, la sonata non poteva essere che eccezionale».
La verità è che lo scacco per i fascisti è stato micidiale, lo smacco personale per lui che già s’immaginava come «il deputato di Milano» bruciante. Quelle del 16 novembre sono state elezioni «rosse». Sui socialisti si sono rovesciati 1.834.792 voti, pari a 156 parlamentari eletti. Un risultato trionfale, un presagio di rivoluzione. L’insuccesso della lista fascista è stato, per proporzione inversa, totale: su circa 270.000 votanti della circoscrizione di Milano, i fascisti hanno raccolto soltanto 4657 voti. Mussolini ha ottenuto soltanto 2427 voti preferenziali. Nessuno dei candidati fascisti è stato eletto. Nessuno. Nemmeno lui. È stato un fiasco completo.
Agli altri mente, ma alla moglie lo ha confessato: «Una sconfitta totale. Non abbiamo ottenuto nemmeno un seggio. In Galleria la gente si è scatenata contro di noi». È stato costretto a chiamare Rachele per cercare di tranquillizzarla quando gli hanno riferito che il beffardo corteo funebre inscenato dai socialisti si era appostato anche sotto la loro casa in Foro Bonaparte. La gente gridava: «Ecco il cadavere di Mussolini» e picchiava sulla porta d’ingresso. Dietro alla sua bara, altri due feretri vuoti accoglievano idealmente le salme di Marinetti e di D’Annunzio. Rachele, a sua volta,gli ha confessato di essersi rifugiata in soffitta con i bambini. Pare che la piccola Edda sia stata colta da una crisi di nervi.
I visitatori, proprio come a un funerale, continuano ad affluire alla sede del giornale. Inutile cercare di tenere la porta chiusa. Quando in strada stanno seppellendo la tua ombra, la gente ti viene a cercare.
Per mostrarsi inalterato, lui si è fatto portare un bicchiere di latte. Siede al suo tavolino da lavoro nella stanza spoglia e manda a chiamare Arturo Rossato, un suo redattore, perché scriva in bella grafia gli indirizzi del cardinale Ferrari e di Caldara, il sindaco socialista di Milano, da apporre a due pacchi rotondi avvolti in carta di giornale. Attorno alla scrivania, l’ambiente dà l’idea di un trasloco imminente. Sul muro si accampa soltanto una carta d’Italia con una bandierina tricolore appuntata in corrispondenza di Fiume. Sullo scrittorio campeggia, invece,soltanto il grosso bicchiere di latte e una vecchia monumentale pistola da furiere. Le grida dei socialisti dalla strada si alzano minacciose, Mussolini rimescola il latte con studiata lentezza, lo centellina, goccia dopo goccia, lo ripone e torna a mescolarlo. Le onde di bianco viscoso fanno contrasto con il metallo immobile, bruno, dell’arma: «Urlano, gridano, fanno un finimondo di fracasso ma sopprimi i cravattoni, le bandiere e resta un branco di scemi. Non la faranno mai la rivoluzione. Se questi rivoluzionari a chiacchiere non pagano la loro cambiale, il popolino la protesterà e allora saranno pasticci… come si diceva in trincea. Ci sono vittorie che valgono come una sconfitta.»
Arturo Rossato, il redattore venuto a consegnare le buste con gli indirizzi, non può che acconsentire alle spacconate del capo con un moto impercettibile della testa. Dalla strada le urla dei socialisti salgono ancora di un’ottava.
«E non credere che vengano qui perché, vedi, io sono morto. Sono oramai un uomo senz’ombra».
Benito Mussolini s’interrompe qualche secondo per lasciare al redattore il tempo di farsi invadere dallo sgomento. Rimescola il latte, poi riprende: «Mi hanno spacciato per morto ma proprio per questo loro sanno che, se vengono su, con questa pistola almeno un paio li atterro. E a Milano, se non lo sai, non ci sono fra gli iscritti al Partito socialista due, dico due eroi che sappiano affrontare il pericolo. Un branco di scemi. Sono un branco di scemi. Perciò… io bevo il latte.»
Corriere La Lettura 9.9.18
M Il nome della sconfitta
Antonio Scurati in 800 pagine e oltre rilegge Mussolini e vi trova il proprio demone di autore
di Daniele Giglioli
C’è voluto un coraggio notevole, da parte di Antonio Scurati, per scrivere un romanzo di più di 800 pagine (M. Il figlio del secolo) in cui si narra l’ascesa al potere di Mussolini, dalla fondazione dei Fasci di combattimento alla capitolazione delle opposizioni dopo il delitto Matteotti. Non inventando nulla, ricalcando scrupolosamente documenti e testimonianze, riservando all’autore soltanto la responsabilità del montaggio e un cantuccio per il commento, come diceva Manzoni a proposito dei cori delle sue tragedie. Un coraggio che sarà necessario anche al lettore, perché quella che M racconta è una storia, ma è anche la Storia, la storia di tutti. Una brutta storia, una storia finita male, una storia senza redenzione, una storia di sangue e di merda (alla lettera: l’olio di ricino), una storia di violenze e più ancora di tradimenti, di cedimenti, cecità, complicità, dove il più lucido di tutti è anche, come l’Italia ha imparato a sue spese, un cieco che si è messo alla guida dei ciechi. Un cieco la cui lucidità consisteva nel saperlo: niente programmi, niente mani legate da pastoie ideologiche, impegni d’onore, rispetti umani. Che cosa può avere spinto un romanziere a convocare il suo strumento, che gioca sempre sulla tastiera del possibile oltre che su quella del reale, su una materia così mortificante?
Perché dal tono che Scurati adotta nessun equivoco è pensabile. La vittoria di Mussolini e del fascismo non ha niente di epico. Dell’epica ci sarebbero tutti gli ingredienti. I capi e i gregari, le imprese e le bravate, le scene di massa (descritte con grande vividezza) e i dilemmi del singolo, dove l’uomo e la Storia sembrano poter trovare un momento di precaria comunicazione per il tramite della coscienza. Ma il Mussolini di Scurati tutto sembra avere tranne una coscienza. Non tanto nel senso di una coscienza morale, una consapevolezza del limite, una cognizione per quanto problematica del bene e del male. Ma proprio nel senso tecnico, filosofico del termine: la riflessione, la flessione su di sé, la facoltà di considerare sé stesso ed il proprio destino come qualcosa di non identico al flusso degli eventi. Nulla del genere. Mussolini è abilissimo a comprendere gli altri, soprattutto se questo significa intuirne le debolezze, le esitazioni, le ambizioni, e perfino le virtù, purché servano a lui. Su di sé non ha niente da dire.
Mussolini tradiva tutti, plagiava tutti, copiava tutti (in primis D’Annunzio), senza che gli si alterasse mai il battito cardiaco, come constatò con stupore un medico che gli sentì il polso durante un duello. Non ammirava nessuno. Non gettava mai il dado prima che la partita fosse vinta (durante la marcia su Roma era pronto a scaricare i quadrumviri se mai le cose fossero andate storte; nei giorni del delitto Matteotti tradisce uno sgomento e una pusillanimità al limite della confusione mentale). Su due cose si appoggia, come Scurati mostra benissimo. La prima è il puntare sul peggio. Tanto peggio tanto meglio, perché il peggio è il banco e il banco vince sempre. Il peggio che era possibile ricavare dalla tradizione risorgimentale, dalla Grande guerra, dagli umori dei reduci, dai rancori dei socialisti, dalla codardia dei liberali, dalle passioni tristi come il risentimento, la paura, il piacere di distruggere, odiare, minacciare, umiliare, insultare, sfondar crani e toraci prima a parole e poi a manganellate. Il peggio gli appare, come dire?, necessario. Una necessità della Storia, il suo senso, la sua direzione. Nessun residuo in lui, che strumentalizzerà e poi abbandonerà i futuristi, dell’ottimismo che aveva caratterizzato ciò che fu chiamato lo stupido XIX secolo. Il peggio è ciò che deve accadere. Perché è nella natura umana, è la natura umana.
E qui, secondo pilastro, nel maneggiare il peggio lui è il migliore su piazza, ovvero tutti sono peggiori di lui (convinzione che accomuna tutte le personalità autoritarie). E i fatti gli danno ragione. Quali sono le leve che ha in mano? Violenza e cinismo. Ma mica le ha solo lui. La violenza sarebbe a rigore appannaggio del movimento socialista, che dopo il 1917 blatera di rivoluzione a ogni comizio ma non prende mai l’iniziativa anche quando stravince tutte le elezioni, amministrative e politiche. Non portano il colpo (anche perché molti non hanno fatto la guerra), non sono abbastanza intrinseci alla violenza nella sua vera natura. E il cinismo? In quello nessuno avrebbe pensato di battere le vecchie volpi del ceto liberale, che si convincono, da Giolitti a Croce, da Einaudi a Albertini, di poter usare e poi buttar via il manganello fascista per far tornare all’ordine i rapporti di classe, e finiranno beffati come sappiamo, e come meritano. A puntare sul peggio si trova sempre qualcuno che è peggio, questo almeno lo abbiamo imparato. Chiedersi come sarebbe andata se in Italia ci fosse stato un Trotskij o un re più decente è un esercizio di fantastoria cui Mussolini ha avuto la chiaroveggenza di non indulgere mai. È andata come doveva andare.
E con ciò torniamo al fatto che M è un romanzo, non un libro di storia. Il romanzo storico ha da sempre assolto a due compiti. Inquadrare uno stato di fatto presente additandone allegoricamente le cause nel passato (la Lombardia asservita alla Spagna di Manzoni, per esempio). E ripercorrere a contropelo la Storia mostrando che in essa si annidavano anche altre possibilità, perdenti, censurate, sommerse, ma che il futuro potrebbe incaricarsi di riprendere. M non fa nulla del genere. È di necessità, non di possibilità che si tratta. Radicalizzando una postura già presente nella sua produzione passata, Scurati sembra aver messo il mondo umano sotto il governo di un cattivo demiurgo, un arconte gnostico che maneggia una materia di fango, fango antico, fango primordiale.
Dallo stile, dalle immagini, dalle metafore ciò emerge di continuo. Per Mussolini l’autore non mostra alcuna condiscendenza, non si dice ammirazione; e chi volesse parlare di fascinazione dovrebbe ricordare che si contemplano affascinati anche le cose che fanno orrore. Dov’è avvenuto allora l’incontro tra l’autore e l’eroe? A me pare che Mussolini abbia fornito a Scurati il più perfetto modello, insieme storico e paradigmatico, del cattivo demiurgo che ossessiona il suo corpus di romanziere. Con M Scurati ha raggiunto la maturità artistica di chi guarda finalmente in faccia il suo demone e può una buona volta chiamarlo per nome: Mussolini, il nome della nostra sconfitta.
Il Fatto 9.9.18
Le 3 pesti all’assalto della democrazia
di Salvatore Settis
Tre pesti infettano la democrazia in Italia, e dunque la nostra libertà e la nostra vita. Sono germi di ceppi diversi, eppure convergono in un unico gioco al massacro. Il massacro della democrazia. La prima patologia è di moda ai nostri giorni: dando per scontato lo svuotamento delle istituzioni rappresentative, se ne sbandiera cinicamente un qualche estemporaneo sostituto.
Indizio recente e solo in apparenza minimo, il preteso referendum sull’ora legale: vi ha partecipato una percentuale infima della popolazione europea, eppure se ne discute come fosse necessario tenerne conto. Noi italiani possiamo stupircene meno di chiunque altro: non è forse da noi che bastano poche centinaia, se non decine, di volenterosi o velleitari votanti per “approvare” un programma (o “contratto”) di governo, la scelta di un leader o di un sindaco, l’alleanza con una forza politica estranea anzi ostile? E non è dalla stessa parte politica (uscita dalle urne del 4 marzo come il primo partito italiano) che vengono voci irresponsabili che proclamano la fine del Parlamento e la sua sostituzione con piattaforme informatiche buone a creare effimere maggioranze senza quorum? Così mentre ci stracciamo le vesti per l’incompetenza di chi fa crollare i ponti non ci avvediamo di propugnare la generalizzata incompetenza di chi dovrebbe governare il Paese. E anzi di indicare nell’inesperienza (meglio se totale) la panacea di tutti i mali.
Accanto a questo, il bacillo dell’astensionismo elettorale. Anzi, della nostra tendenza a rimuoverlo dalla coscienza. Fu evidente già nel 2014, quando un Renzi al suo meglio come imbonitore degli ingenui e dei distratti proclamava la vittoria del Pd alle Europee con il 40,81%: percentuale drogata, giacché non teneva nel minimo conto il 49,63% di italiani che a quelle elezioni non votò, o votò scheda bianca. Se quel 49,63% non sono cittadini di seconda classe, il preteso 40,81% al Pd valeva la metà (20,40%). Eppure la percentuale drogata viene ancora oggi richiamata, anche da chi definisce Renzi un ciarlatano. E mentre l’astensionismo cresce (il 37,71% di votanti alle Regionali dell’Emilia-Romagna non basta come ammonimento?), l’afasia della sinistra e le incertezze sulla tenuta dell’attuale governo allontaneranno altri cittadini dalle urne. È in questo vuoto che cresce un’irresponsabile xenofobia, cavallo di battaglia della Lega da Bossi a Salvini.
Terzo agente patogeno, il diffuso nominalismo, l’uso di mere etichette in luogo di argomenti, di nomi anziché dati. Basta accusare qualcuno di sovranismo, populismo, antipolitica, per condannarne ogni idea senza guardarci dentro; e (simmetricamente) per mettere alla gogna gli avversari basta accusarli di connivenza con la finanza internazionale, con la Banca centrale europea, con il Fondo monetario internazionale. Vengono così screditate e irrise prima ancora di esser formulate ipotesi opposte: per esempio, che una qualche tesi etichettata come liberista possa mai aver qualcosa di buono, o per converso che sia giusto ricordarsi dell’art. 1 della Costituzione secondo cui la sovranità appartiene al popolo. Questo scontro muro contro muro impedisce alla stragrande maggioranza dei cittadini di farsi un’idea propria sui termini dei problemi che il Paese deve comunque affrontare. Ma gli astratti princípi, giusti o sbagliati che siano, non si trasformano da soli in concrete azioni di governo. Perciò, mentre più d’uno elogia l’incompetenza come virtù suprema, un radicalismo fatto non di meditati progetti ma di improvvisate e generiche petizioni di principio può naufragare miseramente alla prova dei fatti (il caos vaccini insegni). E la parola torna fatalmente ai veri o presunti “addetti ai lavori”, quelli che a torto o a ragione dicono di saperla lunga, facendo leva sugli errori degli altri più che sulla propria competenza e fedeltà alle istituzioni.
Un’ultima pennellata è necessaria, mentre già traguardiamo verso le prossime elezioni europee. Delle due forze di governo una (M5S) è, almeno in linea di principio, portatrice di cambiamenti radicali, di una sorta di immaginazione al potere, ma intanto, nonostante qualche buona mossa come l’insistenza sul principio costituzionale della dignità, mostra la corda arroccandosi su slogan post-elettorali e dando spazio alla svalutazione del Parlamento. L’altro partito è la Lega, che non viene dal nulla né è alla prima esperienza di governo. Per essere precisi governò, con Berlusconi presidente e ministri come Bossi o Calderoli in primissima linea, in quattro governi di tre legislature, senza contare più o meno confessabili appoggi esterni e patti dietro le quinte. In questo scenario, e traguardando verso le Europee, la Lega si presenta come il partito che sta dalla parte dei veri “addetti ai lavori”, perché le competenze da spendere dice di averle: sotto la salsa piccante di una rampante xenofobia, è questo il piatto che ci viene quotidianamente servito. Questo (vero o presunto) “realismo” della Lega rispetto al M5S spiega la sua crescita nei sondaggi, una malcerta procedura statistica che nell’opinione pubblica ormai soppianta i meccanismi elettorali voluti dalla Costituzione vigente. L’attivismo di Salvini e le gaffes di Grillo, Casaleggio, Di Maio stanno regalando alla Lega la patente di primo partito d’Italia anche se non fu certo questo il responso delle urne. Eppure in quelle forse astratte petizioni di principio, in quel radicalismo, in quella disordinata ma autentica voglia di cambiamento fermenta un’altra idea d’Italia, un’altra ipotesi progettuale che non ha ancora preso forma (la parola “cambiamento” non basta). Questo è il banco di prova del governo Conte, di cui ancora non sappiamo se servirà da cavallo di Troia per imporre al Paese la Lega di Salvini, o come ponte verso una maggiore autocoscienza del M5S, o almeno di quella sua parte che viene dalla sinistra. Domande come queste interessano ben poco ai Soloni del Pd, occupati come sono a contemplare l’ombelico dei propri insuccessi e ormai soffocati dall’indigestione di pop-corn.
Repubblica 9.9.18
Fake-news e social network
Ai giovani va insegnata l’analisi critica
di Valentina Della Seta
La verità è il contrario della certezza. È il "So di non sapere" di Socrate: «È la grande invenzione della filosofia greca e della tradizione filosofica nel suo complesso», dice Daniele Francesconi, al suo secondo mandato da direttore del FestivalFilosofia. «In questa edizione ragioneremo su usi e pratiche di verità, come ad esempio la testimonianza o la confessione. Ci soffermeremo a riflettere sui luoghi in cui la verità assume regimi particolari, come archivi, tribunali, laboratori. E ovviamente il web, che per certi versi è il campo principale delle questioni di verità contemporanee». Tra lezioni magistrali, spettacoli, mostre e concerti, il festival, da un po’ di anni, sembra intercettare un’Italia diversa da quella che si nutre di odio e cuoricini su internet. Trasversale, composta di persone di ogni età che hanno il desiderio di sedersi e ascoltare discorsi autorevoli su temi complessi e avvincenti: «Non facciamo divulgazione, la consideriamo una parola offensiva nei confronti dei destinatari», dice Francesconi. «La cultura è un bene comune, noi stiamo solo cercando di trovare nuove forme di comunicazione». A partire dal rinnovamento delle voci: «In questa edizione ci saranno ventiquattro nuovi relatori», spiega. «Che non vuol dire rinunciare ai grandi nomi e ai grandi protagonisti, ma allargare il perimetro delle prospettive ad autori di ogni età, italiani e stranieri, che abbiano un punto di vista significativo sul tema della verità». Come Anna Maria Lorusso, che insegna Semiotica all’Università di Bologna e ha da poco pubblicato con Laterza il saggio Postverità: «Il mio intervento sarà rivolto al tema dell’accuratezza.
Oggi il problema delle fake-news è avvertito come rilevante», dice Lorusso. «Sembra che l’unica soluzione possibile sia il fact-checking, la verifica dei fatti, delle cifre e dei nomi propri. La mia posizione è un po’ critica. Penso che sia molto più importante dare peso alle competenze, ristabilire le gerarchie di verità, indebolite, molto prima dell’arrivo dei social network, dalla televisione dei reality e delle opinioni urlate. Bisognerebbe insegnare ai ragazzi la consapevolezza critica, istituire dei corsi scolastici di educazione ai media. Mi sembra che la società si sia evoluta senza darci il tempo di sviluppare anticorpi». Anche il teatro può raccontare il presente. Il drammaturgo Stefano Massini, che dopo il successo della Lehman Trilogy si è messo nei panni di Sigmund Freud con L’interpretatore dei sogni (Mondadori), spiegherà cosa ha imparato studiando la vita e il lavoro del medico che ha capito per primo il valore rivelatore dei sogni: «Crediamo di parlare di verità oggettive», dice. «In realtà parliamo sempre di noi stessi. Cerchiamo noi stessi ovunque, ci rispecchiamo in tutti coloro che ci circondano, poniamo le stesse domande in cerca di agognate risposte. La verità non esiste: è solo una metafora. E il sogno è la metafora più sincera, perché spietata e dichiarata».
Il Fatto 9.9.18
Immigrazione, perché è un’ossessione
di Furio Colombo
Inutile fingere. Persino i complicati percorsi economici che legano e oppongono uno Stato ad altri Stati, in una combinazione nuova e difficile come l’Unione Europea, sono scuse e pretesti. I Paesi dell’Unione non languono, e in molti di essi (la maggior parte dei membri originari e tutti i rancorosi arrivati per ultimi), non hanno mai conosciuto un simile livello di vita e l’accesso così facile al resto del mondo.
La questione su cui si sta giocando tutto, e che gradatamente ha raggiunto livelli molto alti di contrapposizione e di dissenso, è l’immigrazione. Da “non possiamo accoglierli tutti” si è arrivati a dire francamente “non ne vogliamo nessuno”. Lo scontro, fra risposte e ipotesi diverse, si divide in tanti modi, il falso e il vero, il meglio e il peggio, il vantaggio e il pericolo, soprattutto il pericolo. Se li lasciamo fare, arrivano. Non c’è teorico dell’immigrazione che, a un certo punto del discorso, dica che 500 mila stanno per venire, no, in un milione, forse cinque milioni. Prima o poi, tutta l’Africa. Quando accade di sentir dire in televisione la ormai famosa frase del cittadino di Rocca di Papa che esclama: “E adesso a quei poveretti (gli immigrati della nave Diciotti appena arrivati, ndr) gli tocca pure di trovare ’sti rompicoglioni dei fascisti” si capisce che non sono in gioco cultura e classe sociale (i radical chic) come tante volte si è detto. Molti capiscono tutto comunque, a qualunque livello di istruzione, molti no, o sono indottrinati diversamente. Il problema è di capire perché gruppi di adulti, che non sono nè incolti nè stupidi, decidono di presentarsi col tricolore come segno di rifiuto. Da quando la bandiera di un Paese libero dice no? Ma la questione che stiamo affrontando o è troppo piccola (in realtà non c’è stata alcuna invasione) o è troppo grande, in una visione che è stata preparata con cura, non solo in Italia, e ben sopra la Lega. Non l’invasione. La leggenda dell’invasione. Toccherà a tutti coloro che si oppongono al razzismo e devono respingerlo, occuparsi della seconda ipotesi. La prima è solo inganno o illusione. Niente può più risolversi a metà strada: meno profughi, più accoglienza e un po’ di condivisione fra Stati. Non accade e non accadrà. C’è dunque un mercato italiano della paura, un partito aiutato dalle disattenzioni e dal modesto impegno dei partiti di centrosinistra per molti anni. Maroni, ministro leghista dell’Interno per due legislature, ha fatto la sua parte di danni, puntando presto sul blocco dei migranti tramite Libia e dando vita alla legge Bossi Fini. Ha inventato i clandestini, che non possono esserci (non si arriva a nuoto in Italia, non ci sono percorsi segreti) e inventa il reato di clandestinità, che si crea quando ti negano i documenti dovuti. Eppure tutto ciò è solo un indizio di ebrezza politica ai livelli bassi della vita pubblica italiana. L’esplosione del razzismo aperto (aggressioni di strada e iniziative politiche da un lato, lotta senza quartiere alle navi di salvataggio Ong dall’altro). In più l’invenzione del finanziere ebreo Soros che investe, ti dicono, immensi capitali, per la sostituzione dei popoli, svuotando ogni Paese bianco, togliendo loro il lavoro, la fede, i valori; episodi grotteschi come quello delle donne polacche che difendono dagli islamici la loro frontiera col rosario in mano, la formazione triste e cupa del patto di Visegrad (a cui ora si aggiunge Salvini e la sua metà del governo italiano). O la imposizione all’Italia del motto “prima gli italiani”, che è un modo di stabilire il razzismo come principio. Tutto è avvenuto dopo l’elezione di Donald Trump negli Usa e la conferma perpetua al vertice russo di Vladimir Putin.
Entrambi sono circondati da un brulicare di personaggi di una estrema destra sconosciuta, legati a una causa che rimane oscura e che sembra preparare una svolta non immaginabile. La strana inclinazione di Trump a imporre di tanto in tanto ordini disumani (separare i bambini dei migranti dai genitori) è la stessa di Putin, intorno al quale si intravedono strane morti e veleno. Trump non è amico di nessuno, neppure del suo Paese. Il suo è un patriottismo arido, senza affetti. Anche Putin è isolato e arido. Come Trump, non è amico di nessuno. E come Trump accetta vassalli ma non amici e appare pronto. Pronto per cosa? Ai piani bassi della politica di destra italiana si notano assestamenti, come se qualcuno sapesse. La decisione di Salvini di incontrare Orban, l’idea di legarsi a Orban, uomo che ha falcidiato la libertà nel suo Paese, e vuole solo frontiere chiuse e potere assoluto, può spiegare la vicenda assurda e crudele della nave Diciotti. Ed è un brutto presagio. Sembra segnalare idee ed eventi che molti di noi non vorrebbero vedere o hanno già visto. Serviva una grande paura, debitamente manovrata, per arrivare a questo punto. Ora ci siamo.
Corriere 9.9.18
Inciviltà italiane
Il Belpaese è diventato Brutto
di Ernesto Galli della Loggia
È bene che ce lo diciamo per primi noi stessi: l’Italia sta diventando un Paese invivibile. Un Paese incolto nel quale ogni regola è approssimativa, il suo rispetto incerto, mentre i tratti d’inciviltà non si contano. Basta guardarsi intorno: sono sempre più diffusi e sempre meno sanzionate dalla condanna pubblica l’ignoranza, la superficialità, la maleducazione, la piccola corruzione, l’aggressività gratuita. Una discussione informata è ormai quasi impossibile: in generale e specie in pubblico l’italiano medio sopporta sempre meno di essere contraddetto e diffida di chi prova a farlo ragionare, mostrandosi invece disposto a credere volentieri alle notizie e alle idee più strampalate. Non è un ritratto esagerato: è l’immagine che sempre più dà di sé il nostro Paese.
La verità è che nel costume degli italiani è intervenuta una frattura che ha inevitabilmente modificato anche la qualità della cultura civica della Penisola e quindi di tutta la nostra vita collettiva a cominciare dalla vita politica. Il cui degrado non comincia a Montecitorio, comincia quasi sempre a casa nostra.
Ho parlato di frattura perché le cose non sono andate sempre così. È vero che al momento della sua nascita lo Stato repubblicano non ha potuto certo contare su cittadini istruiti e tanto meno su un diffuso senso civico o su una vasta acculturazione di tipo democratico.
I nizialmente, infatti, la cultura civica del Paese fu limitata in sostanza a quella delle sue élite politiche e del sottile strato di persone a esse in vario modo vicine (e dio sa con quali e quante contraddizioni!). Ma a compensare in qualche misura queste carenze, e quindi a rendere possibile la crescita di una vita pubblica più o meno consona ai nuovi tempi democratici, valse almeno il fatto che nel tessuto italiano continuavano pur sempre a esistere una tradizionale civiltà di modi, una costumatezza delle relazioni sociali, un antico riguardo per le forme e per i ruoli, un generale rispetto per il sapere e per l’autorità in genere.
Fu su questo terreno che nel corso del primo mezzo secolo di vita della Repubblica ebbero modo di mettere radici e di consolidarsi una non disprezzabile educazione civica e politica, una discreta consuetudine alle regole della convivenza e della libera discussione. Contò naturalmente l’innalzamento del reddito e delle condizioni di vita, ma una parte decisiva ebbero altri fattori. Innanzitutto l’esistenza di una politica fondata sulle grandi organizzazioni di massa — i partiti e i sindacati con le loro scuole, come quella del Partito comunista alle Frattocchie, dove poté svolgersi l’esperienza su vasta scala di una socialità discorsiva bene o male fondata sull’argomentazione razionale e sulla conoscenza dei problemi e delle possibili soluzioni — ; ma contò moltissimo la presenza nel Paese di quattro fondamentali agenzie di socializzazione: la Chiesa, la leva militare, la scuola e la televisione pubblica.
N el dopoguerra per milioni di italiani avviati a uscire da un mondo rurale spesso primitivo, la parrocchia, l’oratorio, furono una palestra di acculturazione civile, di una certa appropriatezza di modi, di rispetto delle competenze e dei ruoli, di avviamento alle regole di una non belluina convivenza. Opera in parte analoga svolse la scuola. Ancora sicura di sé, della sua funzione e del suo buon diritto a esercitarla, la scuola istruì, valse a sottolineare senza remore l’indiscutibile centralità della cultura e dello studio, educò alle forme basilari della modernità e delle istituzioni dello Stato così come alla disciplina e al rispetto dell’autorità. A un dipresso le medesime cose fece l’esercito di leva, in più addestrando in molti casi al valore della competenza, alla coesione in vista di un traguardo collettivo, alla solidarietà di gruppo, al carattere inevitabile di una gerarchia. Infine vi fu la televisione pubblica. Padrona monopolistica dell’immaginario del Paese, essa si propose di esserne la grande pedagoga. E lo fu: in un modo che oggi fa sorridere ma lo fu. Divulgò la lingua nazionale, diffuse un’informazione sapientemente calibrata, cercò d’ispirarsi per tutto il resto alla buona cultura, al «sano» divertimento, ai «buoni» sentimenti, a una morale cautamente in equilibrio tra vecchio e nuovo. Il tutto all’insegna della compostezza e delle buone maniere: perfino i conduttori dei telequiz si rivolgevano alla «signora Longari» chiamandola per l’appunto signora.
Intendiamoci, non è che l’Italia d’allora fosse una specie di idilliaco piccolo mondo antico: tutt’altro. Ma fino agli anni 80 la nostra rimase comunque una società strutturata intorno a istituzioni formative consistenti: ciascuna animata a suo modo dalla consapevolezza di avere un compito da svolgere e decisa a svolgerlo. Un compito — questo mi sembra oggi molto importante — svincolato nel suo perseguimento e per i suoi obiettivi sia dal mercato sia dai desiderata del pubblico. In questo senso, infatti, né la Chiesa, né la scuola, né l’esercito, né la televisione di Bernabei potevano certo dirsi istituzioni democratiche: tanto meno del resto pensavano di doverlo essere.
Ma proprio perciò esse assolvevano un compito prezioso per la democrazia liberale. La quale, per l’appunto, sopravvive solo se esistono degli ambiti della società che non obbediscono alle sue regole. Se esistono degli ambiti, delle istituzioni, dove non vigono né il principio del consenso dal basso né la regola della maggioranza. Solo a queste condizioni, infatti, possono aversi due conseguenze decisive: da un lato la produzione di un sapere realmente libero, — fatto cioè di analisi, di idee e valori condizionati solo dalla personale ricerca della verità — e dall’altra la formazione di vere élite del merito. Solo a queste condizioni si crea un ambiente sociale e un’ atmosfera psicologica dove di regola l’ultima parola non l’abbiano, da soli o coalizzati, chi alza più la voce, chi possiede più ricchezze o chi ha dalla sua il maggior numero. Un ambiente sociale e un’atmosfera dove al potere della politica e dell’economia (o della demagogia e della corruzione che sono i loro frequenti sottoprodotti) siano in grado di contrapporsi gerarchie diverse. Dove al potere della politica e della ricchezza fanno da contrappeso il condizionamento della formazione culturale, i vincoli dell’etica, il giudizio dell’opinione pubblica informata.
Come invece sono andate le cose si sa. L’Italia ha visto quelle istituzioni di cui dicevo sopra — per varie ragioni e in vari modi, ma più o meno nello stesso giro di anni, a partire dagli anni 80-90 — scomparire. Scomparire, intendo, nelle forme che esse avevano un tempo (o come la leva cancellate del tutto), per essere sostituite dalle forme nuove richieste dai «gusti del pubblico», dagli «indici di ascolto», dai sindacati, dai «movimenti», dalle «attese delle famiglie», dalle «comunità di base», dalla «pace», dai «tempi della pubblicità», dai «bisogni dei ragazzi», dal desiderio dei vertici di non dispiacere a nessuno.
È così da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale. Coltivando un’idea fasulla di modernità e di libertà l’Italia ha assistito, addirittura compiaciuta, al progressivo smantellamento di istituzioni che alimentavano la democrazia con il flusso vitale del sapere disinteressato, della tradizione, della possibilità dell’autoriconoscimento collettivo. Ci siamo avviati in tal modo ad essere una società senza veri legami, spesso selvatica e analfabeta, ogni volta che convenga frantumata in un individualismo carognesco e prepotente. L’Italia di oggi insomma, illusa e inconsapevole del brutto Paese che essa ormai sta diventando.
Corriere 9.9.18
«Violentatori minorenni: niente processo»
Napoli, la vittima di 12 anni trasferita al Nord. I tre aggressori fuori dal carcere, l’istanza di messa alla prova
di Fabio Postiglione
NAPOLI Nella stanza al piano terra del giudice del Tribunale dei Minori di Napoli ci sono già le istanze di «messa alla prova». Hanno chiesto di studiare la mattina e lavorare il pomeriggio, impegnandosi in progetti sociali e di assistenza a disabili e malati. Sono solo in attesa di una relazione favorevole degli assistenti sociali e degli psicologi che li seguono da tre mesi e che arriverà a breve.
In tre, in un freddo pomeriggio del 28 aprile, avevano stuprato, umiliato e minacciato una ragazzina di 12 anni, che travolta dal dolore e dalla vergogna ha poi lasciato con la famiglia Gragnano, la cittadina a 50 chilometri di Napoli, per trasferirsi in una città del nord dove proverà a ripartire e ricostruire la sua vita, lontana dalle ingiurie e dagli sguardi dei compaesani.
I tre hanno invece già lasciato il carcere e sono stati trasferiti in una comunità di recupero per minori. E da qualche giorno hanno chiesto al giudice di non essere processati, ma di essere seguiti in un percorso di recupero di due anni. Se la richiesta di «messa alla prova» dovesse essere accolta non saranno mai giudicati per quello che hanno fatto. Violenza sessuale di gruppo ed estorsione, accuse per le quali dovrebbero essere sotto processo da novembre, rischiando condanne fino a quattro anni di reclusione. Ma non con la «messa alla prova»: in tal caso il processo si estingue, così come il reato commesso, al termine del periodo di prova.
Hanno tra i 14 e i 16 anni e due di loro sono parenti di un boss della camorra della zona stabiese. Resi ancora più forti e spavaldi dal carisma criminale del capoclan che tutti chiamano «Don Mimì», dopo lo stupro di gruppo consumato in una stanza abbandonata dello stabilimento delle Terme di Castellammare di Stabia, sono arrivati a minacciarla. Quando la ragazzina li ha affrontati dicendo di volerli denunciare, le hanno mostrato un video con le scene della violenza sessuale. «Se parli lo facciamo vedere a tuo padre e tua madre», le hanno detto. Il pubblico ministero aveva definito quelle immagini «brutali», tanto chiare nel tratteggiare le personalità dei tre ragazzi che in quel frangente avevano dimostrato «assenza totale di considerazione dell’altro, che era diventato uno strumento per il soddisfacimento delle proprie voglie».
Furono arrestati dopo che la ragazzina trovò il coraggio di raccontare a sua madre l’accaduto. Dopo le indagini della squadra mobile della Questura di Napoli e del commissariato di Castellammare, il 31 maggio sono stati arrestati e portati in carcere. All’inizio hanno negato, poi ammesso parzialmente, infine confessato tutto.
Corriere 9.9.18
Il senso di una misura alternativa
di Luigi Ferrarella
Né scandalo da menare, né routine da banalizzare: l’istituto della «messa alla prova» per i minorenni autori di reati è una cosa seria. Se viene fatta seriamente. E se, prima, viene spiegata seriamente, soprattutto alle vittime da parte del giudice. Il punto di partenza è che la legislazione italiana, dal 1988, muove da un principio di favore per il minorenne reo, nell’assunto che in una personalità in crescita il singolo atto trasgressivo (anche il più grave) non sia di per sé indicativo di una definitiva scelta di vita deviante; e che, al contra-rio, la presa di coscienza del significato del male inflitto alla vittima e l’avvio di un processo di responsabilizzazione siano in lui più probabili non nella detenzione, ma in un rigoroso progetto di recupero fatto di studio, lavoro, volontariato, assistenza a disabili, cura di malati, nonché prescrizioni volte a ripara-re le conseguenze del reato e (laddove possibile) avvicinarsi alla conciliazione con la perso-na offesa. Quando il giudice intravede queste pre-messe, ordina la sospensione del processo (anche per reati gravi come omicidi e violenze sessuali) durante il periodo di messa alla prova del minore affidato ai servizi minorili, che può durare sino a 3 anni. All’esito della prova, se l’esito è positivo il giudice «dichiara estinto il reato» del minore, per il quale dunque non ci sarà più processo; se invece è negativo, il giudice ordina la ripresa del processo, che a quel punto sfocerà in una usuale condanna al carcere. Le messe alla pro-va, che all’inizio degli anni ‘90 erano circa 800 l’anno, ormai riguardano un minorenne ogni sei che entrano nel circuito penale, e nel 2016 si sono quasi quintuplicate a quota 3.757 (per esempio in circa 150 casi di violenze sessuali). Ma l’esito non è mai automatico: il 6% viene revocato in corso d’opera per violazioni del minore, e l’esito finale è poi negativo in media per un altro 19% di minorenni. Ma una ricerca del Ministero e dell’Università di Perugia, centrata sui nati nel 1987 entrati nel circuito penale, ha mostrato come a distanza di sei anni i minorenni usciti dalla messa alla prova fossero tornati a delinquere nel 20% dei casi, ben undici punti meno del 31% di recidivi invece tra i non messi alla prova ma puniti con detenzione ordinaria.
Corriere 9.9.18
E Di Maio disse: così cadiamo
Quell’avvertimento sulla spallata: attento, vogliono il M5S con il Pd
Le parole del vicepremier pentastellato all’alleato leghista: fermati o io non reggo
di Tommaso Labate
ROMA «Tu lo sai già che io sono d’accordo con te, come lo sono quasi sempre. Ma smettiamola di pensare che la questione ora riguardi me, te, la Diciotti, l’immigrazione, i magistrati... L’abbiamo capito entrambi che qua è in corso un’operazione seria per dare la spallata al nostro governo e spingere il Movimento Cinque Stelle a fare una maggioranza col Pd sull’onda dell’emergenza per approvare la legge di stabilità e per tranquillizzare l’Europa... Se andiamo avanti di questo passo, quella manovra riuscirà. Io così non reggo più». Mentre viaggia verso Cernobbio — dove proverà a tamponare mediaticamente i toni furibondi dell’assalto alla magistratura di ieri l’altro — Matteo Salvini pensa e ripensa alle parole che, nella notte tra venerdì e sabato, ha ascoltato dalla viva voce di Luigi di Maio.
Lo scenario
Stavolta non c’entrano le fronde interne, l’area pur in espansione del dissenso parlamentare guidata da Roberto Fico, i segni più e meno nei sondaggi che oggi premiano la Lega a scapito dei grillini. Nell’accorato appello a «fermare questa escalation», che ha ascoltato da quel «collega vicepremier» che il leader leghista considera niente di più e niente di meno che «una persona leale e un amico», c’è la certezza — almeno Di Maio l’avrebbe messa in questi termini — che nel giro di poco tempo uno tsunami interno è in grado di sovvertire lo schema di governo.
I dossier aperti
Troppi, nella lettura del capo politico, sono i dossier aperti che rischiano di provocare una rivoluzione interna alla creatura di Grillo: dai tarantini inferociti per l’esito finale della partita sull’Ilva ai mille dubbi sulla fattibilità immediata di quel reddito di cittadinanza per come è stato promesso in campagna elettorale. E troppe sono le persone che potrebbero farsi avanti per dire basta. A cominciare da Alessandro Di Battista, che domani sera tornerà a far sentire la sua voce, ospite di Lilli Gruber nella prima puntata della nuova stagione di Otto e mezzo su La7, per finire a Beppe Grillo in persona.
Quello che bisogna evitare, e questo Di Maio lo spiega a chiare lettere a Salvini, è l’inasprimento dei toni contro la magistratura palermitana. D’altronde, e i fedelissimi del ministro dello Sviluppo economico l’hanno sottolineato a più riprese, «che cosa succede se anche i magistrati come Davigo, quelli di cui abbiamo portato avanti le battaglie, iniziassero a dire che siamo alleati con uno che fa peggio di Berlusconi?».
Lo scenario della «spallata» convince Salvini. Il leader della Lega, ascoltati i pareri della cerchia ristretta, si convince che il piano per sostituirlo col Pd nella maggioranza potrebbe presto finire sul tavolo da gioco. «E a quel punto, per evitare di mandarci al voto con questi sondaggi alle stelle — dice un leghista del governo — né Renzi né altri si metterebbero di traverso come hanno fatto in primavera. Firmerebbero immediatamente, in bianco». La scelta di ingranare la retromarcia contro i giudici, messa a punto nella notte di venerdì, si materializza plasticamente nel discorso di Cernobbio. «Nessun golpe giudiziario», scandisce il leader della Lega associandolo a messaggi rassicuranti indirizzati all’Europa tipo che «il governo punta a una crescita rispettosa dei vincoli europei» o la garanzia che «faremo l’impossibile per rispettare i vincoli esterni».
Lo schema
A Palazzo Chigi, l’indefessa macchina della comunicazione gialloverde aveva messo a punto una sceneggiatura ad hoc che tenesse insieme l’ennesima giornata bollente del governo Conte. Limano tutto nei dettagli. La frase con cui Di Maio dirà di essere stato l’artefice della retromarcia di Salvini («Gli ho detto io di non attaccare i pm»); l’ultima uscita del guardasigilli Bonafede – quella di venerdì sera aveva fatto letteralmente infuriare Salvini – consegnata a L’Intervista con Maria Latella («Il mio non era un attacco a Salvini ma una precisazione»); le parole di Salvini a Cernobbio. Il solito schema in cui una volta vince l’uno e una volta l’altro, uno schema che finora ha tenuto insieme due elettorati molto diversi. Ma a Palazzo, adesso, vedono un baratro. E il rischio di finirci dentro sembra sempre più alto.
Corriere 9.9.18
«Una vittoria per Bannon»
«Vittoria per Steve Bannon»: così titola il New York Times nel raccontare come il leader della Lega Matteo Salvini, definito «la figura più potente nel nuovo governo populista italiano», si sia unito a The Movement, il gruppo fondato dall’ex stratega di Donald Trump (incontrato due giorni fa a Roma) che mira a creare un fronte unico populista in grado di conquistare l’ Europa. Salvini, spiega il Nyt, aiuterà quindi a portare avanti la sfida dei sovranisti in vista delle elezioni Ue a primavera. «Per Bannon — si legge ancora — è il primo grande acquisto in grado di legittimare il suo progetto e di attirare altri leader euroscettici e populisti».
Repubblica 9.9.18
La tempesta perfetta
di Sergio Rizzo
Il messaggio di fiducia per i sostenitori dell’Europa viene recapitato con una domanda. Chiede un giovane imprenditore in platea al sovranista Geert Wilders, fondatore del Partito per la libertà olandese, alleato di Matteo Salvini e Marine Le Pen, che con loro vorrebbe smontare l’Ue: «Noi abbiamo girato il mondo e non sappiamo cosa siano i confini nazionali. Lei è consapevole che fra vent’anni, quando toccherà a noi, tutto questo non avrà senso?». Resta solo da capire che cosa ne sarà di questo continente da qui a vent’anni. Di sicuro sappiamo che per il 2019 si prepara la tempesta politica perfetta. Dagli albori dell’Europa unita non si è mai verificata una tale concentrazione di eventi così cruciali in uno spazio temporale tanto ristretto. Per la fine di maggio sono previste le elezioni del Parlamento europeo, dove il fronte sovranista che sta dilagando nei sondaggi di tutto il continente, a cominciare dall’Italia, conta di fare bottino pieno. E magari, sfruttando la sponda delle loro quinte colonne nel Ppe come il Fidesz di Victor Orbán, conquistare addirittura la maggioranza di Strasburgo. Si verificherebbe così la circostanza inedita e surreale di un Parlamento europeo controllato da un’alleanza politica fra forze antieuropee.
A quel punto l’autunno diverrebbe non caldo, ma incandescente. Le nomine del presidente della Commissione europea e del presidente della Banca centrale europea, previste per allora, non sarebbero altro che l’occasione per l’assalto finale. «La sfida fra chi vuole distruggere e chi difendere i valori» dell’Unione europea, per usare l’immagine evocata ieri al Forum Ambrosetti di Cernobbio dal vicepresidente della Commissione Frans Timmermans, potrebbe raggiungere toni al calor bianco. Con un esito non troppo difficile da prevedere. Nonostante Salvini assicuri di condividere «gli spiriti originari dell’Europa» ( benché «non quelli di questa Unione europea » ) e il premier Giuseppe Conte garantisca che il governo «non vuole uscire dall’Europa » né «dal sistema monetario » , Wilders non cessa di ripetere che l’obiettivo è «riconquistare la sovranità » . Il suo proclama: «Io sono stato eletto dagli olandesi e devo fare il loro interesse. E il loro soltanto » . A completare lo scenario con il quale tutti saremo costretti a fare i conti, ecco la Brexit: data prevista, il 29 marzo. Come antipasto delle elezioni dell’Europarlamento, altra benzina possibile per il fronte sovranista. Nell’anno del grande cambiamento un grande Paese, il primo, che abbandona l’Ue. Eppure proprio le probabili ricadute della Brexit dovrebbero indurre a riflettere sulle conseguenze di una tempesta perfetta. Secondo uno studio preparato per l’appuntamento di Cernobbio da The European house Ambrosetti, elaborando i dati contenuti nelle principali stime sugli effetti dello shock britannico, l’uscita dall’Ue "hard", cioè senza accordo sui futuri rapporti, di un Paese che rappresenta il 15% del Pil continentale e il 13% della sua popolazione metterebbe a rischio mezzo milione di posti di lavoro nel Regno Unito, e 1,2 milioni nel resto dell’Unione. A causa dei dazi doganali e delle altre barriere non tariffarie, che graverebbero pesantemente su una quota fino al 27% dell’export inglese, il costo per le imprese britanniche raggiungerebbe 30 miliardi di euro con punte drammatiche in alcuni settori, per esempio in quello dell’automotive. La Honda importa ogni giorno nel Regno Unito due milioni di pezzi dagli altri Paesi europei, il 75% dei quali attraverso la ferrovia sotto la Manica. Oggi arrivano in un tempo previsto fra 5 e 24 ore; dal 29 marzo potrebbero impiegare anche 9 giorni, e con 60 mila dichiarazioni doganali aggiuntive. Non meglio per la Bmw, che produce le auto nei quattro stabilimenti inglesi con il 90% dei componenti importati. Senza contare le conseguenze sul settore finanziario, il vero motore economico del Regno Unito. Il conto finale sarebbe devastante: la distruzione del 4,5% del prodotto interno lordo britannico e dell’1,5% di quello europeo nel solo settore manifatturiero. Ma al di là dei possibili sviluppi commerciali futuri, la Brexit ha già lasciato qualche segno profondo. Fra il giugno 2017 e la fine del 2017 i valori immobiliari a Londra sono calati mediamente del 15,7 per cento. Nello scorso anno, per le incertezze causate dall’uscito dall’Ue, hanno lasciato il territorio britannico ben 130 mila cittadini europei. Mentre 12.994 cittadini britannici hanno eletto la propria residenza in altri Paesi dell’Unione: l’anno prima, quello del referendum, erano stati 6.555, contro i 2.478 del 2015. Per non parlare di un altro settore strategico, quello dell’istruzione. Quest’anno le università britanniche hanno già registrato un calo del 9% degli studenti europei iscritti a corsi post laurea. Se il buongiorno si vede dal mattino…
il manifesto 9.9.18
Da Napoli alle europee, Pap si organizza
Je so’ pazzo festival . Due giorni di dibattiti per «resistere all’assedio» della destra. E aggiornare il confronto con il sindaco De Magistris. Alle elezioni del 2019 con Mélenchon, Podemos, il Bloco de Ezquerda. E forse Diem 25
Napoli, un'assemblea di Potere al popoo nell’Ex Opg Je so' pazzo
di Domenico Cirillo
NAPOLI «Come resistere a un assedio?» è la domanda che ha aperto la quarta edizione dello Je so’ pazzo festival, organizzato a Napoli dall’Ex Opg, la prima con il progetto Potere al popolo in campo. L’interrogativo è stato posto da Chiara Capretti (candidata di Pap alle scorse elezioni) all’apertura della due giorni (che si è conclusa ieri), per aggiornare il confronto con il sindaco Luigi de Magistris e tutte le realtà di movimento partenopee. Come si può spezzare un’offensiva fatta di debiti che strozzano gli enti locali, tagli ai servizi pubblici, circolari ministeriali che impongono politiche di destra su accoglienza e povertà, di lavoro in nero perché tanto l’Ispettorato del lavoro è stato svuotato? «Se non puoi resistere – ribatte Capretti – allora ti devi organizzare su scala nazionale contro lo sfondamento a destra sulla pelle degli ultimi. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, con i funerali delle vittime del ponte Morandi in corso, sfruttava i migranti a bordo della Diciotti per distrarre l’opinione pubblica». Il 20 ottobre a Roma ci sarà la manifestazione «Nazionalizzare qui e ora» organizzata da Pap, Usb, Eurostop, Prc e le realtà che si sono battute contro «la truffa delle privatizzazioni e delle grandi opere».
VENERDÌ IL FOCUS era su Napoli. Le circolari di Salvini che impongono una stretta alle richieste di asilo e spingono per gli sgomberi degli spazi occupati possono avere un effetto dirompente in città (dove si stimano almeno 8mila abitazioni occupate). «Non sono provvedimenti esecutivi – commenta Viola Carofalo, portavoce nazionale di Pap – perciò invitiamo i destinatari a disobbedire. Non applicate le circolari Salvini. Il leader leghista le giustifica con la necessità di legalità e sicurezza ma producono l’effetto contrario: più persone sul territorio senza un regolare titolo e più gente per strada nel caso delle abitazioni, perché tanto un’altra soluzione non c’è. Anzi, l’esperienza di Napoli ci dice che le occupazioni hanno rivitalizzato il tessuto sociale, aumentando così la sicurezza percepita nei quartieri». Sul tema de Magistris spiega: «Sul diritto alla casa si misurerà la nostra esperienza amministrativa, sulla capacità di usare il patrimonio immobiliare del comune ai fini della valorizzazione sociale e contro le interpretazioni monetaristiche, che ne vorrebbero la svendita».
AL CENTRO DEL DIBATTITO il caso Vasto, il quartiere popolare accanto alla Stazione centrale con il maggior insediamento di Cas, la zona dove la sera del 3 agosto due migranti sono diventati il bersaglio di ragazzi armati sullo scooter. Il Movimento migrati e rifugiati si è presentato nel quartiere lo scorso martedì: hanno ripulito le aiuole, piantato fiori, realizzato panchine con materiale riciclato provando a stringere un patto tra nuovi e vecchi residenti. «La prossima settimana faremo uno spettacolo in piazza, una produzione del Teatro popolare dell’Ex opg – racconta Abdel -. Sfideremo così il coprifuoco imposto dalla camorra perché il problema del Vasto non sono i migranti, è la povertà, i tagli ai servizi, i clan. La Lega sta provando a radicarsi in zona portando messaggi di odio che prima non esistevano».
Al Vasto emergono tutte le spinte speculative in campo: «Abbiamo lavorato con i migranti per stilare un’inchiesta sui Cas – spiega Capretti -, l’abbiamo consegnata in prefettura chiedendo un intervento contro gli sfruttatori, per un reale inserimento sociale. Quattro strutture sono state chiuse ma il sistema è rimasto intatto con relativa bomba sociale innescata. Poi il 3 agosto sparano sui ragazzi e la prefettura, dopo qualche giorno, ordina un’ispezione ai centri: a 150, trovati fuori dai centri dopo le 22, viene revocata l’accoglienza. Una rappresaglia. Salvini manda le circolari e Grandi stazioni è contenta, così può gentrificare il quartiere senza più i migranti».
IERI SI È DISCUSSO di elezioni europee. Pap ha già scelto come compagni di viaggio La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, gli spagnoli di Podemos e il Bloco de Ezquerda in Portogallo, interlocuzioni in corso con de Magistris e Diem 25 di Yanis Varoufakis. Agli incontri, prima della pausa estiva, ha partecipato anche Sinistra italiana ma lo schieramento unitario non è certo. Il dibattito di ieri tra Viola Carofalo, Klemen Miklavic (rappresentate di Sinistra unita slovena), Bénédicte Monville (La France insoumise) e lo storico Giuseppe Aragno è servito a proseguire il confronto per costruire «un terzo campo, differente da quello liberista/europeista e liberista/nazionalista – spiega Carofalo -. Un campo che metta al centro la redistribuzione della ricchezza, la partecipazione attiva dei cittadini. Mentre la sinistra tradizionale affonda, punita per la guerra che ha condotto contro le classi popolari, crescono i consensi per nuove forze capaci di farla finita con compatibilità, moderazione, appoggio al neoliberismo».
Repubblica 9.9.18
Intervista a Fukuyama
"Barack ha capito che alle prossime elezioni la democrazia rischierà È l’ora di fermare Trump"
di Antonello Guerrera
«Le elezioni di medio termine di novembre sono tra le più importanti della storia degli Stati Uniti. Per questo Obama è sceso in campo. Se vince Trump sarà un disastro».
Per il partito democratico, intende?
«Non solo, dico per gli Stati Uniti e la democrazia americana. Per tutti».
Perché, professor Fukuyama?
«Qualora il partito repubblicano di Trump dovesse conservare la maggioranza sia alla Camera dei Rappresentanti che al Senato, con la maggioranza di giudici che già ha alla Corte Suprema, il Presidente si sentirebbe legittimato dal voto popolare e potrebbe scatenare tutta la sua potenza di fuoco: potrebbe licenziare il ministro della Giustizia Jeff Sessions, e poi il procuratore speciale del Russiagate Robert Mueller, e poi insabbiare la stessa inchiesta sui rapporti pericolosi con Mosca.
Barack Obama lo ha capito e per questo si è esposto in maniera così esplicita».
Francis Fukuyama, il celebre storico e politologo americano, professore a Stanford, allievo del teorico dello "Scontro di civilità" Samuel Huntington ed ex intellettuale neocon vicino a Bush junior poi passato a posizioni più moderate, parla dalla sua casa di campagna in California. Guarda caso, lo stato americano dove Obama ieri sera ha praticamente iniziato la sua personale campagna elettorale per azzoppare Donald Trump alle elezioni di "mid-term". Obiettivo: fargli perdere più seggi possibili al Congresso e renderlo appunto "un’anatra zoppa" negli ultimi due anni del suo mandato. La prima contea toccata ieri dal primo presidente afroamericano è stata l’Orange County.
Un distretto elettorale storicamente repubblicano, ma nel 2016 "conquistato" da Hillary Clinton. Perché Obama parte da qui, Fukuyama?
«Perché sa che è importante ogni singolo voto, anche quello più scontato. L’elettorato afroamericano, per esempio, non ha sostenuto in massa Hillary Clinton alle ultime presidenziali, anche se tutti pensavano il contrario».
Obama scende in campo per riconquistare la comunità nera?
«Certo. Ma non solo. Obama vuole sensibilizzare l’elettorato, soprattutto i più giovani, sull’importanza massima di questo voto. Inoltre, vuole riavvicinare il centro, la classe media e i moderati americani al Partito democratico.
Lui in questo è sempre stato molto efficace e anche stavolta sarà sicuramente utile, soprattutto perché in questo momento il Partito democratico americano si sta spostando molto a sinistra, trainato dai suoi interpreti più giovani, come la promettente ma radicale Alexandria Ocasio-Cortez a New York».
È un grande ritorno quello di Obama o una bruciante sconfitta per un partito democratico americano da tempo in crisi di idee e protagonisti convincenti?
«Entrambi, ma è difficile dirlo adesso, mancano oltre due anni alle prossime elezioni presidenziali e i democratici nel frattempo potrebbero anche trovare un ottimo candidato.
Certo, la scelta di Hillary Clinton nel 2016 ha rafforzato le correnti radicali all’interno del partito e queste dureranno a lungo. Non si può dire che cosa succederà nel Partito democratico nei prossimi anni. Ma certo, Obama vuole dare una linea chiara , e una bella sveglia, al partito».
Obama ha criticato espressamente, citandolo per nome, il suo successore Trump. Ora sta facendo addirittura campagna contro di lui. È una cosa rarissima, se non unica negli Stati Uniti, dove l’imparzialità degli ex presidenti è quasi sacra. È preoccupato di questa deriva?
«No e non mi sorprende».
Perché?
«Perché è stato Trump a rompere per primo ogni convenzione e regola istituzionale degli Stati Uniti. Ha affossato la dignità del dibattito politico in America. Ha criticato in maniera malvagia e violenta i suoi avversari, ma anche i privati cittadini. Contro i suoi oppositori si è servito di metodi simil-mafiosi e ha usato ogni tattica non convenzionale, come le teorie complottiste, per attaccare Obama, alludendo alla sua fantomatica nascita in Africa. Sta smantellando tutta l’eredità politica di Obama, con ogni mezzo. E ora davvero vogliamo scandalizzarci di Obama che lo critica apertamente?».
il manifesto 9.9.18
Il convegno inaugurale di Patria e Costituzione in Campidoglio
Fassina celebra «Patria e Costituzione» e Badoglio
Annunciato ma non ricevuto il videomessaggio della presidente dei rossobruni tedeschi, Sarah Wagenknecht
di Rachele Gonnelli
È nata ufficialmente ieri nella sala della Protomoteca in Campidoglio, che contiene al massimo un centinaio di persone, l’associazione intitolata «Patria e Costituzione» di Stefano Fassina. La data dell’8 settembre, ha più volte precisato lui, non è stata casuale: si voleva proprio celebrare l’8 settembre di 75 anni fa, con la firma dell’armistizio del disonore e il varo del governo Badoglio che lasciava in piedi la monarchia sabauda complice del fascismo, quella data per Fassina va intesa invece come atto di «rinascita della patria». Del resto in tutta la giornata, negli interventi che si sono succeduti, più volte è stato citato, più o meno fuori contesto, Palmiro Togliatti che con la svolta di Salerno di lì a sei mesi piegando il Cln all’accettazione di Badoglio iniziò la sua real politik tricolore.
A battezzare il nuovo soggetto, esplicitamente «sovranista», i due dioscuri ex pd Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre. Le loro due relazioni iniziali non hanno chiarito con quale collocazione intendono porsi in rapporto agli altri soggetti della sinistra di cui pure fanno parte (LeU e Sinistra italiana di cui Fassina è oltre che deputato anche unico rappresentante in Campidoglio) né tanto meno quale sia l’intento finale del nuovo nato, a parte sdoganare alcuni termini e idee abitualmente appannaggio della destra e accentuare la propria connotazione euroscettica come «cesura» con il passato recente, incluso non aver avversato il pareggio di bilancio in Costituzione con l’articolo 81 nel 2012.
«Non intendiamo dare vita all’ennesimo micro partito», ha detto l’ex vice ministro dell’Economia del governo Letta, preoccupato soprattutto del fatto che «solo le destre sovraniste e populiste abbiano colto la rottura del nesso tra nazionale e internazionale» e capito il bisogno di protezione, comunità, identità che secondo lui si genera attraverso l’evocazione di un nuovo «patriottismo costituzionale».
D’Attorre, dei due il più cattivista, ha incentrato la sua relazione attaccando «un’opposizione antitaliana con la quale non vogliamo avere niente a che fare» che «cerca di rifarsi una verginità a piazza San Babila o sul molo di Catania senza fare autocritica», leggi il Pd. Ha poi bollato «i no border» di ingenuità definendoli «una foglia di fico dei liberisti progressisti» e sostenuto che per battere xenofobia e razzismo non si può negare che l’immigrazione, vissuta come problema dai ceti popolari abbandonati dalla sinistra, non sia solo una percezione dovuta a ignoranza. La tesi è che gli immigrati contribuiscano a svalutare i salari italiani.
D’Attorre, da filosofo non si preoccupa di citare studi autorevoli a suffragio e non lo fa neanche il bocconiano Fassina, per il semplice fatto che non ne esistono: gli immigrati, così come altre fasce di popolazione più deboli (le donne, i giovani..), deprimono la contrattazione salariale nella misura in cui sono semplicemente più ricattabili e lo sono attraverso il calvario della legge Bossi-Fini. Per altro, come ha detto anche Massimo D’Antoni e come ha insistito a spiegare Vladimiro Giacché, con i cambi fissi l’unica svalutazione che resta è quella salariale: dunque il problema sono i trattati europei e l’euro, tutte cose che ai badogliani non piacciono affatto anche se confermano che «non sono riformabili».
È toccato all’unico pd salito sul palco, Lionello Cosentino, segnalare come non sia stato il vincolo esterno dell’euro a impedire una politica a maggior tutela del lavoro o diversa dalle privatizzazioni selvagge. E ad Antonio Floridia ricordare come non è evocando il sovranismo, per altro non per forza democratico e popolare, che finiscono interdipendenze economiche e fenomeni migratori o climate change.
La ciliegina sulla torta – il video messaggio di Sarah Wagenknecht della costola rossobruna che si è scissa dalla Linke, Aufstehen – non c’è stata. Da lei solo una letterina di generici auguri «ai compagni italiani».
La Stampa 9.9.18
“Il nascondiglio di Putin?
È nella casa di Trump”
di Paolo Mastrolilli
«Donald Trump ha un rapporto diretto con la mafia russa, e quindi con gli apparati del governo di Mosca da cui essa dipende, che risale agli anni Ottanta. Senza i loro soldi e il loro aiuto non sarebbe mai diventato presidente, e li ricambia condividendo il progetto di demolire il sistema occidentale. Lui sostiene di non aver commesso reati, o di non sapere chi fossero i suoi interlocutori, ma questa è la vera collusione sviluppata nel corso degli anni, fino all’elezione alla Casa Bianca come asset di Putin. Ciò finirà per emergere dalle inchieste in corso». È la versione di Craig Unger, descritta nel suo libro Casa di Trump, Casa di Putin, che esce ora in Italia per La Nave di Teseo.
Quando nasce il presunto rapporto di Trump con la mafia russa?
«La chiave è capire che la mafia russa è diversa da quella italiana. È un apparato dello stato. Oleg Kalugin, ex capo del controspionaggio di Mosca, mi ha detto che dipendeva dal Kgb, e ora dai nuovi servizi segreti, quindi da Putin. L’elezione di Trump è stata dunque la più grande operazione di intelligence mai condotta, senza sparare un colpo. I primi contatti risalgono al 1984, quando Trump incontrò David Bogatin. Era un esponente della mafia, che comprò da lui 5 appartamenti per 6 milioni di dollari, l’equivalente di 15 milioni di oggi. Secondo il ministro della Giustizia di New York erano denaro sporco. Così comincia l’uso delle proprietà di Trump da parte della mafia russa per il riciclaggio. Il rapporto è durato oltre tre decenni, e io ho individuato almeno 59 intermediari russi che hanno interagito con Trump da allora ad oggi. Se si considera il legame tra la mafia russa e l’intelligence, si comprende anche perché quella che era nata come un’operazione finanziaria è diventata poi politica».
Kalugin le ha detto che già nel 1987 Trump era stato in Russia, e durante la visita i servizi avevano raccolto materiale compromettente su di lui di natura sessuale. Ha le prove?
«Sono voci. Kalugin non ha visto il materiale, ma ne ha sentito parlare, ed era una persona molto informata».
Lei scrive che diversi capi della mafia russa come Vjaceslav Ivankov, inviato in America del boss Semen Mohylevyc, hanno operato dalla Trump Tower. Esiste la prova che lui lo sapesse?
«È difficile provare cosa sapesse Trump, però nella sua carriera ha concluso circa 1.300 vendite di proprietà in circostanze apparenti di riciclaggio, ossia contante e società anonime. Se fai una cosa 1.300 volte è difficile che non sai di cosa si tratta».
Lei scrive che il rapporto più importante in tempi recenti è stato quello con la Bayrock e il suo direttore Felix Sater. Perché?
«Negli anni ‘90 Trump era in bancarotta, a causa delle operazioni fallite ad Atlantic City. Aveva oltre 4 miliardi di debiti e nessuna banca occidentale, a parte Deutsche Bank, era disposta a fargli credito. Nel 2002 la Bayrock si stabilì al 24esimo piano della Trump Tower e gli propose un nuovo modello di business: noi mettiamo i soldi per la costruzione delle proprietà, e tu ci metti il nome. In cambio, ti paghiamo tra il 18 e il 25% di diritti. Così Trump è rinato. Ma i rapporti di Bayrock con le istituzioni di Mosca sono provati, e i soldi venivano da FL, banca islandese nota per il riciclaggio di denaro sporco russo».
Lei sostiene che collaborando con Bayrock Trump forniva informazioni di intelligence a Putin, perché gli consentiva di sapere cosa facevano gli oligarchi con i soldi portati fuori dalla Russia. Era cosciente di essere una spia del Cremlino?
«È difficile provarlo. Però durante una deposizione negò di conoscere Sater, e questa era una bugia. Perché la disse?».
Il rapporto Steele sostiene che i russi ripresero Trump che compiva atti sessuali perversi. Ci sono le prove?
«Io ho parlato con persone nel mondo del crimine organizzato, e credono che esista».
Se Trump aveva rapporti così buoni con Mosca, perché non è mai riuscito a costruire nulla in Russia?
«Perché se vuoi riciclare soldi, li porti fuori dalla Russia».
Il rapporto era finanziario, e poi è diventato politico?
«In realtà già al ritorno del viaggio del 1987 Trump aveva acquistato pagine di pubblicità su giornali come il New York Times, per prendere posizioni filo russe e contro il sistema occidentale. La politica estera di Trump favorisce Putin perché condivide l’obiettivo di distruggere le allenze occidentali».
L’incontro del giugno 2016 alla Trump Tower con emissari russi che offrivano materiale imbarazzante su Hillary prova la collusione?
«A quell’incontro in casa sua parteciparono il figlio Don, il genero Kushner, e il manager della campagna Manafort: vi pare possibile che Trump non ne sapesse nulla?».
Lui può sostenere che non conosceva la provenienza dei soldi della mafia russa investiti nelle sue proprietà.
«Ma aveva creato una struttura per vendere senza fare domande. Negli Usa esiste il principio legale della cecità volontaria, e io credo che in questo caso un buon procuratore potrebbe provarla».
Può rispondere che non conosceva i legami tra Bayrock e Mosca.
«Quando disse di non conoscere Sater, il New York Times aveva scritto che Felix era un criminale condannato, ma Donald aveva continuato a fare profitti con lui. È difficile provare cosa sapesse, ma si potrebbe, attraverso i suoi ex collaboratori che hanno accettato di collaborare col procuratore Mueller, come l’avvocato Cohen e il commercialista Weisselberg».
Può dire che non sapeva di dare informazioni a Putin.
«Il presidente degli Stati Uniti ha ospitato agenti russi nella sua Trump Tower per 35 anni, senza saperne nulla?».
Lui dice che non c’è stata collusione, e Mueller non ha prove.
«L’intera operazione, dagli anni Ottanta ad oggi, è la collusione. Senza i soldi dei russi, e l’aiuto di Mosca durante la campagna elettorale, Trump non sarebbe diventato presidente».
Putin non potrebbe averlo sostenuto a sua insaputa?
«E l’incontro alla Trump Tower con gli emissari russi non aveva fatto suonare alcun allarme? Perchè il figlio Don aveva scritto in una mail che voleva le loro informazioni? Il procedimento legale si svilupperà come un domino, chiarendo tutto».
Pensa che Mueller incriminerà Trump, o pubblicherà un rapporto?
«L’inchiesta è un treno che sta correndo contro un muro, finirà male. O lo stato di diritto prevarrà, e Trump sarà costretto a lasciare, oppure potrebbe reagire con atti incostituzionali, per trasformare gli Usa in un regime autoritario».
La Stampa 9.9.18
Geert Wilders: “Insieme a Salvini e Orban per gli Stati sovrani”
di Marco Zatterin
«L’apertura di Salvini a Orban per la creazione di un’alleanza fra i partiti che credono nella loro patria è una ottima mossa, noi siamo pronti a vedere cosa si può fare insieme». Il consenso di Geert Wilders per «l’amico Matteo» è netto. L’olandese, il primo a lanciare una crociata contro l’Islam in difesa delle radici cristiane dei Paesi Bassi dove «ci sono sempre più olandesi che non riescono più a sentirsi a casa», vede nel successo dell’alleato lombardo la conferma delle sue teorie. Un partner e un leader. «Dobbiamo parlarne», assicura, anche se l’impressione è che a questo punto della storia Wilders sembri rincorrere il vicepremier leghista, che lavora su messaggi meno manichei, più «attuali» e ricchi di sfumature. «Lo incontrerò al più presto», assicura. Ieri, in riva al lago, c’è però stata solo una stretta di mano.
Per essere uno costretto da una decina di anni a circolare scortato per aver detto che il Corano è come il «Mein Kampf» di Hitler, il guru dell’ultranazionalista Partito per la Libertà, socio di Salvini a Strasburgo, di persona è gentile e garbato. «Noi ci conosciamo, vero?», sorride mentre sfila sotto la veranda di Villa D’Este in una pausa del Forum Ambrosetti. Cortese e di buona memoria, così si ferma a parlare di quello che ci sta intorno, con una idea precisa da condividere. Quella di spiegare che «un’Europa di stati sovrani che cooperino» è una formula che potrebbe accettare, a patto che fosse «eliminata ogni ambizione federale». Perché è proprio il sogno di integrazione che «oggi costringe i cittadini a pagare il prezzo della crisi».
È questo il primo passo verso una Alleanza populista per le elezioni europee?
«È un progetto che ci interessa, però non è ancora il momento di impegnarsi. Al Parlamento europeo abbiamo il gruppo “Europa della Libertà e della Democrazia” del quale fanno parte la Lega e il Front National. Il punto di partenza non può che essere questo. Ogni opzione che renda più rilevante la nostra unione trova la porta aperta».
Il candidato del partito popolare alla Commissione Ue, Manfred Weber, ha aperto al dialogo con Orban e Salvini. Le interessa?
«Non sono al corrente di questo progetto».
Orban è nel Ppe. Se portasse con sé la Lega, lei sarebbe isolato.
«Abbiamo molti punti in comune su cui agire, però non sono certo di volere un candidato unico per governare a Bruxelles. Magari è più interessante l’obiettivo contrario».
Siete uniti nell’offensiva per arginare il flusso dei migranti. Come pensa che uno Stato da solo possa riuscire a controllare un flusso che ha radici lontane e un respiro planetario?
«Partiamo dal punto di vista che l’azione dell’Unione europea si è dimostrata un fallimento e che in città come Amsterdam la comunità dei migranti rappresenta un terzo della popolazione. L’effetto dell’occupazione è un attentato alla nostra identità nazionale, favorita dall’Unione europea che invece un’identità non ce l’ha. Ogni Stato, come ogni cittadino, deve avere la possibilità di chiudere la porta di casa e lasciare fuori chi è indesiderato, senza dover accettare una politica di apertura imposta oltreconfine. Ad andare avanti così, non potrà che peggiorare».
Mettiamo anche che sia possibile. Ma come fate da soli?
«Non sto dicendo che si deve farlo da soli, ma che la cooperazione con altri deve essere decisa dai singoli Stati e non da altri. Io credo in un’Europa che metta insieme Stati indipendenti che lavorino insieme ognuno esercitando la propria sovranità».
Questo le ha portato accuse di xenofobia. Come lo spiega?
«Non siamo xenofobi. Il mio partito, come molti altri partiti in Europa, è votato da gente perbene che sta perdendo la speranza e vede la propria identità nazionale scomparire lentamente davanti ad una cultura come quella musulmana che è dominante».
Lei difende le radici cristiane. Ma l’insegnamento è che siamo tutti uguali, no?
«No. Non tutte le culture sono uguali».
Corriere 9.9.18
Le tesi di Wilders: «Noi diversi ma uniti Lottiamo tutti contro l’islamizzazione»
intervista di Federico Fubini
CERNOBBIO (COMO) Geert Wilders, 55 anni, capo del Partito della libertà olandese, sa cosa vuol dire finire in tribunale facendo politica. Due anni fa è stato condannato per aver incitato alla discriminazione contro gli immigrati. In questi giorni è al Forum Ambrosetti, dove ha incrociato il vicepremier Matteo Salvini.
Salvini si è appena unito a The Movement, la fondazione di Steve Bannon per portare il programma trumpiano alle elezioni europee del 2019. Entrerà anche lei?
«Ancora non so. Bannon mi ha contattato, verrà all’Aia. Mi piace l’iniziativa per il modo in cui cerca di unire le forze di tutti questi movimenti per il 2019. Ancora non ci siamo parlati, ma di sicuro plaudo all’iniziativa».
Le europee saranno una sfida fra i pro europei e i nazionalisti come lei, Salvini, Marine Le Pen e Viktor Orbán e la destra radicale svedese, austriaca e tedesca?
«Salvini, io stesso, Le Pen, il nostro collega austriaco Heinz-Christian Strache siamo partiti cinque anni fa. Abbiamo formato un gruppo nell’Europarlamento, gran parte dei nostri partiti si sono rafforzati: noi siamo secondi in Olanda, in Svezia sono in crescita, Le Pen ha preso dieci milioni di voti, mentre Salvini, Orbán e Strache governano. È una lotta per la sovranità, l’identità e contro l’immigrazione di massa. Alcuni di noi sono anti Ue, altri sono critici dell’Europa. Ma tutti siamo per l’identità nazionale e contro l’islamizzazione».
In Olanda non più del 5% della popolazione si dichiara di religione musulmana. Perché tanta paura di quella che lei chiama «islamizzazione»?
«È un problema enorme. Non dico che tutti i musulmani siano gente poco raccomandabile, ma oggi abbiamo un milione di musulmani su 17 milioni di abitanti in Olanda. Non dico siano pericolosi. Ma il 70% dei musulmani crede che le leggi dell’Islam siano più importanti delle leggi fatte dal Parlamento. E l’11%, secondo l’Università di Amsterdam, è disposto a usare la violenza per difendere l’ideologia islamica».
Anche se i suoi sondaggi fossero corretti, questi abitanti di fede musulmana rispettano la legge olandese. Dov’è il problema?
«Sono sovrarappresentati in tutte le statistiche sui reati e la dipendenza dal welfare».
Ma in Olanda una quota importante di occupati è fatta di stranieri: pagano tasse e contributi e pochi fra loro sono già in pensione. Perché lei non ne parla mai?
«Quelli sono i figli o i nipoti di immigrati».
Le statistiche sbagliano?
«Paghiamo ogni anno 7 miliardi di euro per sostenere gli stranieri in disoccupazione. Ci sono dei somali da noi che non fanno nulla da decenni».
Lei dice che dev’esserci in Olanda e Europa una cultura dominante. Quale? I cristiani sono il 36%, gli atei il 50%.
«Io stesso sono agnostico, ma sottoscrivo i valori giudaico-cristiani. Non devi essere cristiano per sostenere i valori cristiani sui quali si basa la nostra cultura. Devi avere una cultura dominante. Sono contro la Ue e l’idea di uno stato sopranazionale che ci toglie l’identità. Il problema dell’islamizzazione è esistenziale. Quelli non vogliono integrarsi. Sono qui non per assimilarsi, ma per dominare e soggiogare. E guardi, la popolazione africana passerà da un miliardo e mezzo a più del doppio in questo secolo e almeno un terzo di loro vorrà venire in Europa».
L’Europa potrà gestire questi fenomeni se ogni Paese gioca da solo?
«Io sono per cooperare, ma non in un’unione politica. Il mio partito ha sostenuto un governo di minoranza del premier attuale, Mark Rutte, per due anni. L’accordo era che avremmo avuto una politica migratoria più dura, ma quando Rutte è andato a Bruxelles non gliel’hanno permesso. Non abbiamo più le chiavi della porta di casa nostra».
È per la libertà politica?
«Certo!»
Come fa a ammirare Orbán, che ha ridotto le libertà politiche?
«Non ci credo. Conosco Orbán da molto tempo, lo incontro più volte l’anno. Quello che dicono di lui è falso, lui per primo conosce i danni del totalitarismo. È uno dei pochi leader che affronta il tema dell’identità nazionale, è un esempio per il resto d’Europa».
Corriere 9.9.18
Nuove diplomazie a Milano e quei ricordi del maggio 1939
di Sergio Romano
Milano ospita frequentemente incontri e convegni internazionali dedicati alle materie e alle questioni in cui ha un primato riconosciuto: la moda, l’economia, la finanza l’educazione, la scienza. Più rari e occasionali, invece, sono gli incontri politici e diplomatici come quello del 28 agosto fra Viktor Orbán, primo ministro dell’Ungheria, e Matteo Salvini, vice presidente del Consiglio italiano, nel palazzo della Prefettura in corso Monforte. Mentre andavo alla ricerca di qualche precedente mi sono imbattuto tuttavia in un altro incontro milanese. Ha avuto luogo il 6 e il 7 maggio del 1939 fra il ministro degli Esteri del Regno d’Italia, Galeazzo Ciano, e il ministro degli Esteri del Terzo Reich, Joachim von Ribbentrop. Dovevano discutere la possibilità di un accordo tripartito (Germania, Giappone, Italia) e finirono per accordarsi su un accordo bipartito (Italia e Germania) che verrà firmato a Berlino il 22 maggio e passerà alla storia come il Patto d’acciaio. I due Paesi non avevano gli stessi interessi, e Mussolini ne dette una dimostrazione in settembre, dopo l’invasione tedesca della Polonia, quando dichiarò la non belligeranza e il Paese tirò un breve sospiro di sollievo. Ma i due regimi avevano posizioni comuni. Condividevano una sorta di altezzoso disprezzo per le grandi democrazie occidentali, credevano che allo Stato spettasse il compito di intervenire pesantemente nella economia della nazione, non perdevano occasione per proclamare il diritto del loro Paese e a un più grande «spazio vitale» e praticavano entrambi (la Germania dal 1933, l’Italia dal 1938) una politica razziale.
Conosciamo il seguito. La non belligeranza durò sino al giugno del 1940, quando Mussolini, abbagliato dalle vittorie di Hitler in Europa, temette di non partecipare alla divisione delle spoglie e gettò il Paese in un conflitto a cui era impreparato. Uno storico delle politica estera italiana, Mario Toscano, concluse la sua analisi del Patto d’acciaio scrivendo: «Si trattò di un patto fra due regimi, il quale, senza che i suoi autori se ne rendessero allora conto, segnò l’inizio della fine di entrambe le dittature».
Ogni confronto storico tra l’incontro milanese del maggio 1939 e quello dell’agosto 2018 sarebbe improprio e forzato. Ma esistono alcune inquietanti coincidenze. Orbán e Salvini parlano della Europa di Bruxelles in termini non troppo diversi da quelli che Mussolini e Hitler usavano per l’Europa delle democrazie. Durante una conferenza stampa, alla fine dell’incontro di Milano, Salvini dava l’impressione di auspicare un patto della Lega con l’Ungheria di Orbán; e i due partiti che governano l’Italia hanno un nemico comune (l’Europa), ma interessi diversi. Non mi spingo sino a sospettare che abbiano simpatie fasciste o naziste, ma «sovranismo» è soltanto la più recente definizione di nazionalismo: una forza politica che nel 1923 divenne una costola del Partito nazionale fascista.
il manifesto 9.9.18
Svezia, la destra avanza insieme alle diseguaglianze
Oggi al voto. Il partito xenofobo Sd punta il dito contro i migranti e sale nei sondaggi. Socialisti dati in forte calo, cresce invece la sinistra radicale che punta al 10%
Malmö, manifestazione contro le deportazioni di profughi in Iraq e Afghanistan, sotto il corteo del 1 maggio di Vänsterpartiet
Cristiano Lanzano e Cecilia Navarra
UPPSALA Gli occhi dei media internazionali sono puntati sulla Svezia, che oggi vota per eleggere il nuovo parlamento, oltre che i consigli regionali e comunali. Mentre Fox News e Russia Today insistono nel rappresentare il paese scandinavo come in preda al caos sociale, in Svezia la campagna elettorale ha mantenuto toni più sfumati.
Dagli ultimi sondaggi, di cui molti preferiscono ormai diffidare, emergono almeno alcune tendenze di massima. Socialdemocratici e verdi, al governo negli ultimi quattro anni, sono in forte calo (i socialdemocratici potrebbero scendere sotto il 25%, un risultato estremamente negativo per un partito che è stato il perno storico della vita politica svedese), così come i Moderati, principale partito dell’opposizione di centro-destra. È invece quasi certa un’avanzata importante dei Democratici di Svezia, il partito di destra nazionalista che negli ultimi anni ha cercato di mettere in sordina la propria origine neonazista e di presentarsi agli elettori con un programma più “moderato”, abbandonando riferimenti espliciti al razzismo biologico ed ergendosi a difensore dell’identità nazionale svedese contro il multiculturalismo. Rispetto al risultato positivo delle ultime elezioni nel 2014, quando i Democratici di Svezia avevano guadagnato il terzo posto con più del 12% dei voti, la loro progressione risulta difficile da prevedere: a seconda dei sondaggi, potrebbero ottenere tra il 16 e più del 20% dei consensi, avvicinandosi pericolosamente ai livelli dei socialdemocratici.
L’entità reale delle tendenze anticipate dai sondaggi determinerà, nei giorni dopo il voto, le possibilità di coalizione per la formazione di un nuovo governo. In ogni caso, tutti i partiti dichiarano ufficialmente – ricambiati – di non volersi alleare con la destra radicale, ma negli ultimi tempi sembrano emergere dalla leadership dei Moderati ambigui segnali di apertura.
Come è stato possibile che un paese “civilizzato” e “umanista” (termini ricorrenti nel discorso pre-elettorale dei partiti tradizionali), noto per il suo progressismo e il suo modello consensuale di risoluzione del conflitto sociale, si ritrovi oggi un elettorato sempre più polarizzato e incline a votare per un partito di estrema destra? La risposta varia notevolmente a seconda della prospettiva politica.
La crescita dell’immigrazione, e l’apertura dimostrata dal governo svedese in una prima fase della “crisi dei rifugiati” del 2015, è indicata come principale motivo dello scontento dell’elettorato nel discorso politico dei Democratici di Svezia, che insistono sul costo dell’accoglienza, sulle difficoltà di integrazione e sull’aumento della criminalità. In realtà il governo, dopo alcuni mesi di apertura, già alla fine del 2015 ha annunciato una stretta sulla concessione dell’asilo e ha ripristinato i controlli alle frontiere con la Danimarca. Il numero di richiedenti asilo è così drasticamente calato (dai 163mila del 2015 ai 23mila previsti quest’anno). Lo scorso maggio, inoltre, il primo ministro socialdemocratico Stefan Löfvén ha annunciato un pacchetto immigrazione ancora più restrittivo, finalizzato a una ulteriore riduzione degli arrivi e a limitazioni nell’accesso al welfare: in seguito a numerose critiche, incluse quelle della base socialdemocratica, il governo ha però fatto marcia indietro almeno sull’annunciata esclusione dalle scuole dei bambini con genitori senza permesso di soggiorno.
Se dunque la fase di “apertura delle frontiere” è durata molto meno di quanto si pensi, quanto c’è di vero nella rappresentazione dei Democratici di Svezia, che additano l’immigrazione come principale causa della crisi del modello svedese e del peggioramento nella qualità dei servizi pubblici? Di certo, gli scenari da scontro di civiltà che paventano la creazione di no-go zones e l’instaurazione della legge coranica nei quartieri a maggioranza musulmana sono puro frutto della propaganda nazionalista.
Per quanto riguarda le politiche di integrazione, sicuramente c’è strada da fare sul fronte della discriminazione lavorativa: seppure in calo, la disoccupazione tra i nati all’estero resta molto più alta che tra la popolazione attiva nata in Svezia (21% contro 4% a febbraio 2018).
Si può, in definitiva, dire che l’immigrazione è stata finora la causa principale del voto ai Democratici di Svezia? No, ci suggeriscono i risultati di un recente studio. L’ascesa del partito di estrema destra non è un fenomeno nuovo: in particolare ha un’impennata, passando dal 2,9% al 12,9%, tra il 2006 e il 2014, quindi prima della “crisi dei rifugiati”. Gli studiosi non identificano nessuna correlazione tra la presenza di immigrati a livello comunale (e di collegio) e l’aumento dei consensi per l’estrema destra. Rilevano, invece, un forte collegamento tra quest’ultimo e due variabili economiche: l’aumento della disuguaglianza e la proporzione di lavoratori “vulnerabili” (meno qualificati e più esposti agli effetti della crisi). Più aumenta la disuguaglianza tra chi ha un lavoro stabile e chi invece deve fare ricorso a qualche forma di sostegno al reddito, più è grande il guadagno di voti dell’estrema destra. Questa misura della disuguaglianza non è scelta a caso, ma rispecchia quello che è avvenuto tra il 2002 e il 2014 con una serie di riforme degli allora governi conservatori (riduzione delle tasse e della spesa sociale, per «incentivare l’occupazione») che hanno nettamente approfondito il divario tra i due gruppi.
Anche se rimane un paese relativamente egualitario, la Svezia uno dei paesi Ocse in cui la disuguaglianza aumenta di più a partire dalla metà degli anni Ottanta: la quota di reddito dell’1% più ricco è tornata ad aumentare (dopo che era costantemente in calo dagli anni venti), i redditi da capitale giocano un ruolo sempre più importante, mentre gli effetti redistributivi del fisco si sono ridotti a causa delle riforme degli anni Novanta. Proprio sul tema delle disuguaglianze economiche, si levano le principali voci critiche all’interno della sinistra svedese. «La Svezia ha sempre ricevuto immigrati e richiedenti asilo, ma il punto di svolta dopo il quale questo è diventato un problema politico è stato la crisi finanziaria del 2008», dicono Åsa Linderborg e Göran Greider, editorialisti e autori di un discusso Manifesto populista recentemente pubblicato, in cui fanno appello ai partiti di sinistra a recuperare radicalità nell’azione politica e a tornare a parlare ai lavoratori concentrandosi sul miglioramento delle loro condizioni materiali: «Alla radice dei problemi oggi non c’è l’immigrazione, ma le crescenti differenze di classe». Katalys, un think tank vicino ai sindacati di sinistra, ha pubblicato a ridosso della campagna elettorale una serie di studi intitolata, in modo eloquente, La classe in Svezia, dove si analizzano in profondità i diversi livelli in cui si concretizzano le disuguaglianze di classe, per concludere che «in presenza di una classe lavoratrice orientata a sinistra e favorevole a politiche redistributive (e di una classe media con simili orientamenti), in Svezia lo spazio per politiche progressiste resta ampio, ma riprendere posto al centro del dibattito politico e riguadagnare la fiducia della classe lavoratrice non sarà semplice».
Il Fatto 9.9.18
Svezia
Estrema destra, attrazione fatale
Il Paese Ue che accoglie il maggior numero di rifugiati oggi alle urne: le difficoltà d’integrazione spingono nei sondaggi i Democratici Svedesi (SD), dati al 20%di Giampiero Gramaglia
Con dieci milioni di abitanti – un sesto dell’Italia – e con una superficie una volta e mezzo l’Italia – la Svezia è da sempre e di gran lunga il Paese Ue che accoglie il maggior numero di rifugiati ed è pure in testa alle classifiche della redistribuzione dei migranti dall’Italia – dati pro capite -. Ma difficoltà d’integrazione emerse negli ultimi tempi e sfociate in episodi di criviolenza, specie a Malmoe e a Stoccolma, strumentalizzati dalla destra xenofoba e neo-nazista, hanno inciso sul clima sociale e possono oggi cambiare, alle urne, il quadro politico. S’avverte anche l’influenza di quanto avviene nei Paesi vicini: ci sono i Veri Svedesi, come i Veri Finlandesi, e c’è un’Alternativa per la Svezia, come l’Alternativa per la Germania.
Il punto di svolta è stato il 2015, l’anno che il flusso di migranti verso l’Ue fu maggiore, l’anno che Angela Merkel aprì le porte della Germania a un milione di siriani: i 163 mila rifugiati accolti allora in Svezia hanno spinto una parte dell’elettorato svedese verso i Democratici svedesi (SD), un partito che ha radici in movimenti neo-nazisti. Il leader Jimmie Akesson ha però cercato di ammorbidirne l’immagine, pur rompendo i tabù sottaciuti nei discorsi pubblici su immigrazione e integrazione. Il Riksdag, il parlamento, può uscire ‘terremotato’ dal voto odierno: l’SD , radicali di destra populisti e anti-immigrazione, sono accreditati dai sondaggi del 20% dei suffragi – e c’è chi li dà addirittura in testa -. In calo, in un voto i cui risultati potrebbero essere più frammentati del solito, sia i socialdemocratici (Sap) del premier Stefan Lovfen, che da oltre un secolo sono il primo partito svedese, che i Moderati. Nel Riksdag uscente, il Sap ha 113 seggi, il centro 84, l’SD 49.
Uno scenario del genere, nella Svezia campione europeo e mondiale di tolleranza e di accoglienza, crea allarme a Bruxelles, ma anche a Parigi e a Berlino, specie in proiezione delle elezioni europee del maggio 2019, perché la galassia euro-scettica e xenofoba, nazionalista e sovranista, s’allarga: l’asse Le Pen – Salvini ha sponde in Belgio e Olanda, in Germania e Austria, in Svezia e al Nord, nei Paesi di Visegrad e in Croazia, e intacca anche famiglie politiche tradizionalmente europeiste: Fidesz, il partito del premier ungherese Viktor Orban è nel Partito popolare europeo della Merkel. Il programma politico degli SD prevede, fra l’altro, un referendum ‘all’inglese’ per uscire dall’Ue, la Swexit, e il dirottamento dei soldi per l’accoglienza al sistema sanitario nazionale, la priorità degli elettori, abituati a un welfare modello di riferimento mondiale. Difficile che gli SD approdino al governo: nessuno dei partiti tradizionali è disponibile ad allearsi con loro. Ma difficile pure mettere insieme una maggioranza di centro-destra o di centro-sinistra. Si va forse verso un governo di minoranza, in un Paese mai così polarizzato, nonostante la crescita economica sia buona e il tasso di disoccupazione basso, al 6%.
Corriere 9.9.18
Alby, la piccola Bagdad svedese dove anche la polizia ha paura
Viaggio in una «no go zone» di Stoccolma: qui la socialdemocrazia ha fallito
reportage di Francesco Battistini
ALBY (Svezia) Era una bella Saab. «L’avevo comprata coi soldi che m’aveva lasciato mio padre». Una sera gliel’hanno incendiata proprio sotto casa, dietro il piazzale dell’Alby Centrum. «Ci sono stati degli scontri con la polizia». Dalla finestra, l’impiegata di banca Tove Friedriksson ha visto tutto: le proteste degli iracheni, le molotov, i lampeggianti blu, le cariche casco&manganello, gli arresti. «Non sono uscita di casa, perché ho avuto paura. Ma la mattina dopo, sì. Vado a fare la denuncia dei danni. E siccome all’assicurazione servono i dettagli, chiedo qualcosa degli arrestati». Niente nomi, dice la polizia. «E quelli dei loro avvocati?». Niente. «Ma sono stati gli arabi o gli africani?». È a quel punto che il poliziotto alza gli occhi: che razza di domanda, «l’etnia non possiamo comunicarla». Vietato chiedere: «Ho rischiato una denuncia per razzismo e xenofobia. Dichiarare che è stato un immigrato a bruciare l’auto, è un’informazione impropria. Va contro la legge».
Se domattina vi chiederete perché la Svezia alle urne ha castigato dopo un secolo i socialdemocratici della tolleranza totale, premiando la destra intollerante, Tove ha qualche risposta. Indovinate oggi per chi vota lei. Ad Alby fa sorridere l’altissima media nazionale d’accoglienza dei profughi, uno ogni cinque svedesi: in questo sobborgo alla penultima fermata della linea rossa, venti chilometri a ovest e migliaia d’anni luce dal centro di Stoccolma, gli svedesi-svedesi come Tove sono uno su dieci. L’11 per cento. Mosche bianche. Sperdute fra alveari marroni edificati negli anni delle guerre balcaniche, dei massacri africani, delle fughe afghane, delle agonie mediorientali. Diecimila abitanti, cinquemila appartamenti riservati ai rifugiati: Alby, Norsborg, Hallunda ormai li chiamano Little Bagdad, Little Mogadiscio, Little Sudan. La squadra di calcio del quartiere è il Konya, come la città dei dervisci, e ha la stessa divisa biancoverde del Konyaspor turco. Nella scuola elementare non si festeggia mai il Natale, per non discriminare la stragrande maggioranza musulmana. Nei fast food non si trova il bacon. E se negli anni 80 c’era un asilo no gender fiorito dalla pedagogia egualitaria e socialdemocratica, di quelli che proibiscono di fare distinzioni discriminatorie e politicamente scorrette fra maschietti e femminucce, ora in piscina si nuota separati per sesso e le mamme ci entrano velate. La disoccupazione è al 70 per cento, contro la media nazionale del sei. Un tempo, qui si veniva a fare il bagno sulle rive dell’Albysjon, a pedalare nei boschi, a vedere dove aveva la villa il signor Ericsson, quello dei telefonini. Oggi, Alby è stata dichiarata una delle otto «no go zone» vulnerabili del Paese, gang e spaccio, dove la sera i pompieri non sempre vanno se li chiamano e anche i poliziotti stanno all’occhio: «L’auto di servizio non dobbiamo mai posteggiarla lontana — dice l’agente Roger Kampe, in servizio da sette anni —, perché te la trovi danneggiata. E l’ordine è di girare sempre in due o tre, mai da soli». In un garage, a marzo è stato scoperto un deposito d’esplosivo, «roba da professionisti». Sugli ascensori dei palazzoni, le scritte in arabo inneggiano a qualche guerra santa. Un ragazzino di 16 anni è stato accoltellato in pieno giorno, un mese fa, davanti al centro commerciale: «C’erano almeno trenta testimoni, nessuno ha visto nulla».
Ad Alby, governano da sempre le sinistre. Ma stavolta non si sa. I postfascisti di Svezia Democratica, annunciati vincitori di queste elezioni politiche, qui non mettono piede. Non si vede un manifesto di Jimmie Akesson, il Salvini che vuole rispedire a casa i migranti e sull’esistenza di posti così sta costruendo la sua fortuna politica. L’imam non ha voglia di parlare coi giornalisti, da quando l’hanno messo in mezzo con una telecamera nascosta (si vede un candidato locale della sinistra garantire tremila voti sicuri a un alleato di lista, «alla preghiera l’imam convincerà i musulmani a votare te, e tu in cambio gli costruirai la nuova moschea...»: tutta acqua al mulino di Jimmie lo spaventastranieri). Venerdì sera il sobborgo era mezzo deserto, tutti a guardare Jimmie Akesson nell’ultimo confronto elettorale in tv. E sentirlo parlare di posti come Alby. Parole pesanti: «Lo sapete perché quella gente non trova lavoro? Perché non s’adattano alla Svezia. E non sono svedesi». Urla, fischi, buuu. Nessuno ad Alby voterà mai Jimmie. «Ma qui siamo in Medio Oriente», dice Tove. E fuori di qui c’è una Little Svezia che non vuole diventare una grande Bagdad.
il manifesto 9.9.18
Tsipras riparte da Salonicco, in corsa contro i sondaggi
Grecia. «La recessione è alle spalle» e le elezioni alla porte, il premier presenta i «punti forti» del programma fino al prossimo autunno: riduzione graduale della tassazione per le imprese e sostegno dei cittadini a basso reddito per gli affitti
di Teodoro Andreadis Synghellakis, Fabio Veronica Forcella
Il premier greco Alexis Tsipras ha scelto anche quest’anno Salonicco, per presentare i “punti forti” del programma del suo governo per i mesi a venire, sino alle elezioni che, secondo quanto prevede la scadenza naturale della legislatura, si concluderà nel prossimo autunno.
Il leader della sinistra greca, ha annunciato la riduzione graduale della tassazione per le imprese dal 29% al 25% e dell’Iva, il sostegno dei cittadini a basso reddito per gli affitti, ed anche la riduzione della tassa sulla casa per le famiglie meno abbienti. Un’altra delle priorità del governo di Syriza, è fornire un aiuto concreto a tutti gli uomini e le donne che hanno perso le proprie case e averi, a causa degli incendi dello scorso luglio. «Riparte la contrattazione collettiva e nel 2019 aumenterà il salario minimo», ha detto Tsipras.
«La Grecia si lascia alle spalle l’austerità e la recessione, possiamo sfruttare a pieno tutte le possibilità dell’economia greca. Il futuro appartiene a tutti coloro che hanno fatto sacrifici nel corso della crisi», ha aggiunto.
Il primo ministro greco ha sottolineato anche che bisogna sostenere le forze produttive e le nuove generazioni del paese, ora che la Grecia è uscita dal tunnel dei memorandum dei creditori. La strategia è chiara: poter sfruttare ogni possibilità, per fare in modo che i cittadini avvertano concretamente i maggiori investimenti in politiche sociali e sostegno al reddito. Ora che l’economia greca è in fase di sviluppo, ormai dai sei trimestri.
Gli ultimo dati mostrano che la disoccupazione sta continuando a scendere. A giugno di quest’anno si è ridotta al 19,1%, mentre nello stesso mese del 2017 era al 21,3%.
Ma Syriza sa bene che c’è ancora moltissimo da fare. Il centrodestra continua ad essere in vantaggio nei sondaggi, e la maggior parte dei giornali e delle tv sostiene i conservatori di Nuova Democrazia e il suo leader Kyriakos Mitsotakis.
Nel frattempo, anche la minaccia di Alba Dorata continua ad essere assolutamente presente. Nei sondaggi sfiora il 7%, ed anche ieri, a Salonicco, un gruppo di neonazisti è riuscito a infiltrarsi nella manifestazione di chi protestava contro l’accordo tra la Grecia e Skopje, per il nuovo nome della “Macedonia del Nord”. In realtà, tutta la mobilitazione è stata molto al di sotto delle aspettative degli organizzatori, visto che sono scese in strada solo alcune centinaia di persone.
In tutto questo, Tsipras deve controllare anche la questione migratoria. Visto che a Lesbo, nel campo di Moria, gli arrivi non si fermano e non è facile riuscire a ridurre il problema del sovraffollamento, che provoca tensioni tra i migranti, appartenenti a diverse nazionalità. L’estrema destra non smette di soffiare sul fuoco dell’intolleranza, anche se la maggioranza del popolo greco ha mostrato di continuare a credere nell’accoglienza.
Non è un caso, poi, che il paese ospite della Fiera Internazionale di Salonicco, quest’anno, siano gli Stati uniti, e che ieri fosse presente il ministro del commercio di Washington. Il governo di Atene, malgrado i problemi con la linea di Trump, continua a considerare di fondamentale importanza i rapporti commerciali – ma anche politici – con l’America. Una scelta strategica dettata dal bisogno di attrarre investimenti e di non rimanere isolati nello scacchiere geopolitico, in un momento di forte incertezza all’interno dell’Unione Europea. Almeno sino a quando non si deciderà di seguire realmente la strada del rafforzamento politico dell’Ue, come chiede da tempo il governo di Atene.
Corriere 9.9.18
«Italia e grandi opere, alla Cina piacerebbe investire»
L’ex governatore Xiaochuan: negli anni la presenza nel vostro sistema industriale è salita
di Giuliana Ferraino
CERNOBBIO Nell’aprile 2017 il fondo sovrano cinese Silk Road è entrato in Autostrade per l’Italia con circa il 5%. Ma vista la grande expertise nei mega progetti infrastrutturali, come il nuovo ponte da Hong Kong a Macao, forse la Cina potrebbe aiutare l’Italia a costruire ponti più sicuri e in tempi record. «Silk Road Fund è un fondo passivo, non partecipa molto alla gestione e all’operatività delle società, si tratta di un piccolo investimento finanziario, ma vediamo una forte domanda nel miglioramento delle infrastrutture. L’Italia è un’economia matura di mercato, sfortunatamente abbiamo visto che alcune infrastrutture stanno diventando vecchie. Per la Cina è una possibilità», sostiene Zhou Xiaochuan, 70 anni, fino allo scorso marzo (per 15 anni) governatore della banca centrale cinese, ora vice presidente del Boao Forum for Asia, a Cernobbio dove ha anche incontrato il premier Giuseppe Conte, con cui ha scambiato alcune battute.
Immagina un’azienda cinese costruire un ponte in Italia?
«L’industria della costruzione in Cina è molto competitiva, le nostre aziende hanno un’ottima competenza in ponti e ferrovie. Se c’è domanda, ci piacerebbe partecipare, ma credo che esista un problema di normative europee e regole di concorrenza».
Pechino continua ad avere fiducia nei Btp?
«La Cina ha un po’ meno del 60% di riserve denominate in dollari e un po’ più del 30% di titoli di Stato in euro, soprattutto tedeschi, francesi e italiani. Perciò siamo piuttosto esposti verso i Btp, anche se negli ultimi 3 anni l’investimento in Btp è sceso, ma solo perché le nostre riserve estere si sono ridotte da 4 a 3 trilioni di dollari, in proporzione anche la quota di Btp si è leggermente abbassata. Non ci sono ragioni specifiche per dubitare dell’economia italiana. Certo, sappiamo che il rapporto tra il debito pubblico e il Pil è piuttosto alto e che ci sono attriti con l’Europa e dubbi sull’euro. Ma è ancora troppo presto perché questo influenzi le nostre decisioni di investimento».
Nel suo recente viaggio, il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha sollecitato Pechino a comprare Btp?
«Non è costume per un ministro chiedere a un altro governo di investire nei propri titoli di Stato. Invece si parla sempre di altri investimenti. Negli ultimi anni gli investimenti cinesi di private equity in aziende italiane, sono gradualmente cresciuti, non solo da parte di aziende e investitori privati, ma anche di fondi sovrani. Abbiamo l’equivalente di parecchie migliaia di miliardi di dollari investiti in Made Italy, e penso che sia un trend molto positivo. Vediamo la possibilità di investire ancora, e rafforzare il legame con le piccole e medie aziende. Ma c’è bisogno di più conoscenza reciproca».
Cosa fa Pechino per ridurre il suo debito?
«Il debito totale cinese è intorno al 260% del Pil, troppo alto rispetto a molti altri Paesi. Ma il governo ha già cominciato un programma di deleverage graduale a livello centrale e governo locale, di famiglie e imprese, sia pubbliche che private, con linee guida specifiche su come ridurre la leva finanziaria. Ma quando osserviamo turbolenze sul mercato, per la guerra commerciale o la crisi sui Paesi emergenti, dobbiamo agire con attenzione».
Qual è il target, scendere al 130% come in Italia?
«La Cina è una grande economia, con un tasso di risparmio molto alto, pari al 46% del Pil. Rispetto a un Paese con un tasso di risparmio del 30%, il nostro debito può essere maggiore. Se una parte del risparmio, che oggi va a banche e assicurazioni, viene indirizzata sull’azionario, diventa equity e abbassa il debito totale».
Il Fatto 9.9.18
“Elezioni, indios candidati per salvare le loro terre”
Brasile - Sônia Bone Guajajara con il Psol mira alla vice presidenza: “La nostra alleanza è con gli ultimi per sbarrare la strada ai latifondisti”
di Giuseppe Bizzarri
Le terre indigene sono sempre più minacciate e i leader di circa cento nazioni indio si sono impegnati ad appoggiare, per la prima volta nella storia brasiliana, la candidatura di almeno 36 loro rappresentanti che concorreranno alla carica di deputato e senatore: l’obiettivo più importante è la vice presidenza e la donna che rappresenta gli indios è Sônia Bone Guajajara: corre con il Psol (Partito Socialismo e Libertà) – nel 2011 per motivi di delusione politica il Partido dos Trabalhadores (Pt) – come vice del candidato alla presidenza Guilherme Boulos, il leader del Movimento dei lavoratori senzatetto (Mtst).
Ex infermiera, laureata in lettere, è una voce ascoltata all’Onu e nella Comunità europea. Sono in molti a sostenerla, tra cui la Chiesa, i movimenti dei diritti umani artisti, come Caetano Veloso, Alicia Keys e Paula Lavigne.
Che cosa spera da queste elezioni?
Che siano democratiche, poiché tutto indica che l’élite politica brasiliana vuole fare di tutto per mantenere la presidenza.
Che relazione c’è tra il movimento indigeno e la causa del Mtst, ma anche dei quilombolas – i nuovi schiavi delle piantagioni – e i movimenti afrobrasiliani?
La lotta che gli indios fanno per ottenere la demarcazione delle terre è la stessa che conduce l’Mtst nelle città e i quilombolas nei loro territori. I temi toccati dall’Mtst sono gli stessi che affrontiamo noi indios da 518 anni. Afro e quilombolas, così come i popoli indigeni, sono sempre stati emarginati, prima dagli invasori e poi dallo Stato brasiliano. Le nostre affinità sono nella nostra capacità di resistere, pensare al progetto di un Brasile che nasce dal basso. Noi nativi, senzatetto, quilombolas e afro-brasiliani resistiamo per esistere, affermare la nostra cultura e presentiamo, in questa maniera, soluzioni alle crisi istituzionali.
Che probabilità avete di eleggere deputati e senatori indigeni?
Gli istituti di ricerca elettorale non ci considerano minimamente. Tuttavia, posso dire che abbiamo forti candidati e occuperemo spazi nei parlamenti statali e federali, come già li occupiamo in diversi comuni.
Chi sono i principali alleati del movimento indigeno?
Sono i movimenti sociali, ambientalisti, artisti, intellettuali, la chiesa, i senzatetto, i movimenti delle donne, il movimento Lgbt, il movimento afro, i senza terra, i giovani, gli studenti e i contadini. Chi lotta per la democrazia, la giustizia e l’uguaglianza. Costruiamo alleanze con i più poveri.
L’unico deputato indio eletto in Brasile, Juruna, era solito camminare con un registratore, perché sosteneva che l’uomo bianco non era di parola. Lei lo crede?
Juruna è un punto riferimento per la lotta degli indios. Usò saggiamente il registratore per avere prove degli impegni presi dal governo, ma quella era un’altra situazione di comunicazione. Oggi abbiamo reti sociali che facilitano e consentono la divulgazione in tempo reale delle notizie. Tutto è pubblico. Documentiamo sempre le nostre linee guida. Archiviamo tutto. Siamo più preparati. Molti dei nostri figli si laureano e sono pronti a unirsi nella lotta contro chi ha sempre lavorato per distruggerci.
Se dovesse passare l’emendamento denominato Pec 215, con la possibilità di vendita di terre indigene per l’agro-business brasiliano e internazionale, potrebbe avvenire una reazione violenta degli indios?
Preferiamo le vie istituzionali, come risoluzione dei conflitti, ma ci rendiamo conto che l’azione diretta è fondamentale come misura per l’attuazione dei diritti. Per azione diretta, mi riferisco a una mobilitazione in tutti gli angoli del Brasile, come blocchi delle autostrade e delle linee ferroviarie o l’occupazione di terre originariamente nostre.
Teme di più i neo-fondamentalisti religiosi o l’agro-industria?
Nonostante lo stato brasiliano sia laico, viviamo sistematici affronti, imposizioni di fede e catechesi. Il nostro principale nemico, però, sono le forze del mercato finanziario che, per mezzo dei suoi alleati latifondisti, tentano d’impadronirsi delle nostre terre. Questi, in realtà, sono i grandi nemici del popolo brasiliano e non solo dei nativi.
Che cosa pensa del caso Lula e la sua detenzione?
L’arresto dell’ex presidente Lula è un affronto alla democrazia. Comprendo che la sua politica ha mostrato molti limiti, ma dobbiamo riconoscere che ha apportato importanti cambiamenti per il Brasile, come ad esempio la lotta alla miseria. E l’impeachment dell’ex presidente Rousseff è avvenuto attraverso un ampio golpe politico-legale da parte di un congresso corrotto che ha aperto la porta a una serie di barbarie, come l’omicidio di Marielle Franco, l’attivista uccisa a Rio per il suo impegno sociale.
Repubblica 9.9.18
Eduard Limonov
Il carcere. L’esilio. E il sogno dell’impero russo. Lo scrittore e militante reso famoso da Carrère ("Ma che noia il suo libro su di me") parla e attacca tutti. Dando scacco pure a Kasparov
di Antonio Gnoli
Qualche settimana fa, durante una cena, ho chiesto alla scrittrice russa Ludmila Ulitskaja e alla sua traduttrice che cosa pensavano di Eduard Limonov. Si sono guardate, hanno parlottato e poi mi hanno risposto che Limonov è forse il più grande poeta russo vivente, ma anche il più insopportabile tra gli scrittori: non sa unire la scrittura alla vita, ma fa di tutto per confonderle. Avevo incontrato Limonov circa un mese prima, considerando un vantaggio averlo fatto fuori dal clamore mediatico che la sua presenza aveva suscitato in Italia. Passare con lui un paio d’ore nella casa editrice Teti, ultimo baluardo di un comunismo vintage che come i vinili sospetto prima o poi tornerà di moda, è stata un’esperienza curiosa. Ho visto un uomo fisicamente elegante, curato nel vestire (di scuro), con un meraviglioso taglio di capelli, fortemente sfumato sui parietali, quasi ad accentuare così la forma dolicocefala del cranio. Aveva modi cortesi. E ad essere sincero mi è apparso molto diverso dalle descrizioni un po’ brutali, alla Bukowski verrebbe da dire, che ne ha fatto Emmanuel Carrére. Mi colpiscono le scarpe: fattura decisamente italiana con fibbia laterale da prelato avvezzo alla mondanità. Eppure, è un uomo che rivendica di non avere niente e per questo ha tutto. Ai piedi della sedia noto una piccola borsa di stoffa, color verde militare, acquistata in un mercatino: «È il mio bagaglio » , commenta. Tutto qui? Chiedo. La sua faccia, che il pizzo fa somigliare a Trotsky, si apre come a dire: di cos’altro avrei bisogno. Già, di cos’altro avrebbe bisogno lo scrittore russo oggi più famoso in Occidente (e probabilmente anche il meno letto) che dimostra dieci anni di meno rispetto a quelli che ha?
Dove è nato?
«In qualunque parte sia nato conta solo l’ultimo domicilio. In ogni caso le mie origini sono a Dzeržinsk, sul fiume Volga. Il nome della città era l’omaggio a un pezzo grosso, un bolscevico, tra gli artefici della Ceka, la polizia politica nella quale fu arruolato a forza mio padre. Col tempo, il soldato Veniamin Savenko si guadagnò i gradi di tenente».
Lei ha cambiato nome.
«Limonov è molto meglio».
Ed è nato durante la guerra.
«Nel 1943. Che dire? Non ce la passavamo bene».
Cosa ricorda della sua infanzia?
«Nulla di particolarmente significativo. Faccio fatica a riordinare i miei primi anni di vita; ritengo siano stati una pura perdita di tempo. Non penso possa esistere un’infanzia felice».
Però lei accorda all’infanzia una condizione speciale. Almeno è quello che si legge in "Zona industriale".
«Soprattutto in Europa l’infanzia è da un paio di secoli oggetto di venerazione. Per quanto sia stato in grado di osservarli, i bambini mi sembrano entità preumane. Creature mistiche e complesse. Giunte dal Cosmo e che il tempo trascorso quaggiù fa decadere. Alla fine per puro adattamento divengono come tutti noi: esseri inferiori».
So che lei ha due figli. Che rapporto ha con loro?
«Sono stati una porzione del mio grande caos. Creature interessanti finché erano piccole. Quando la loro vita era ancora tutta dentro una dimensione diversa. Perciò sarebbe stato arduo cercare di comprenderli».
Sono i figli che ha avuto da una donna che ha molto amato.
«Ho sempre molto amato. Ma non vorrei partecipare alle fantasie che sovente si scatenano su di me».
Beh, è lei che racconta, non omettendo quasi nulla, di storie a volte tormentate.
«Che vuole che le dica, quando scrivo non sono il delatore di me stesso. Niente pettegolezzi».
Mi permetta di insistere, visto che lei ci ha costruito parte della sua carriera letteraria.
«Più di sessanta libri, dunque perché limitarsi al piccolo universo femminile? Comunque cosa vuol sapere?»
La donna più importante?
«Probabilmente Natalija Medvedeva. È morta il 2 febbraio 2003. Ero disponibile ed esposto al suo giudizio; volevo stupirla, renderla orgogliosa di me e che mi considerasse il suo eroe».
La donna più bella?
«Katja che soprannominai l’"attrice". Ci conoscemmo a un vernissage per un mio amico pittore. Mi sembrò arrivata dal cielo. Delicata come lo stelo di un fiore. Era lì ad attendere un amico oligarca. Che non venne. Fui io a prendere il suo posto. Ci siamo sposati. Abbiamo avuto due figli. Dopo il parto cominciò ad andare a Goa, quel posto prima frequentato da fricchettoni e oggi da annoiati ricchi. Ci andò disse per riprendersi dal trauma».
Cosa accadde?
«Non tornava più. Telefonavo e lei diceva, mi sto curando. Sentivo voci maschili che le stavano accanto e che sghignazzavano. Fu la prima seria rottura. Me ne andai una sera dicendole che non aveva mai capito un cazzo del mio essere scrittore e uomo politico».
La donna più trasgressiva?
«Natasha, una spogliarellista che ribattezzai Lola Wagner. Le chiesi di venire a convivere con me. Arrivò con i suoi bagagli da Pietroburgo. Scoprii che scriveva poesie. La notte usciva per andare a ballare ai night. Rincasava all’alba. Le dedicai dei versi. Mi resi conto che era una ragazza negativa, una bad girl. Pensai che, se la nostra storia fosse proseguita, prima o poi avrebbe passeggiato sul mio cadavere. Le diedi il benservito. Lei disse: sei crudele. La vita è crudele darling, risposi».
La vita è stata crudele anche con lei?
«Qualche annetto di prigione ti lascia modo di riflettere».
La condannarono a quanti anni?
«In tutto 14 anni. Fui arrestato una mattina di aprile del 2001. Eravamo in otto in una casetta di legno sui monti dell’Altaj. All’alba una squadra speciale ci circondò. Erano soldati. Una settantina. Ci trascinarono fuori uno a uno. Ero convinto che ci avrebbero sgozzati e invece ci portarono in galera».
Con quale accusa?
«Terrorismo, eversione contro lo Stato, il partito che avevo fondato fu dichiarato fuori legge. La pena in seguito fu ridotta sensibilmente. Alla fine scontai 15 mesi in una prigione militare e altri dieci in una prigione normale. Ho scritto sette libri durante la mia detenzione ».
Glielo consentivano?
«Sì, il problema semmai era farli uscire. Avevo la libertà di leggere e scrivere. Non quella di comunicare i contenuti all’esterno. Nella prigione di Stato c’era una biblioteca molto ben fornita».
Come è stata l’esperienza del carcere?
«Diversamente da quella vissuta dalla gran parte dei galeotti, che vi vedevano un ambiente ostile e violento, il carcere è stato per me l’incontro con un luogo mistico, di purificazione».
Si sentiva un privilegiato?
«No, scelsi vita comune con gli altri. Con la gente più diversa e straordinaria che potessi incontrare».
Quando è uscito cosa ha fatto?
«Andai a vivere in un appartamento ampio e caotico di un palazzo a sei piani nella zona industriale di Syry. Nel quartiere, poi gentrificato, c’erano personaggi stravaganti, musicisti falliti, ex poliziotti, scrittori di mezza tacca e branchi di cani da cui guardarsi per non essere assaliti».
Era molto diverso dagli anni trascorsi a New York?
«A New York giunsi nel 1975 con un volo da Roma. Furono anni di montagne russe, è il caso di dire. Miliardari e pezzenti, bianchi e neri, migranti e stanziali, puritani e blasfemi. Ho visto e frequentato di tutto. Senza pregiudizi, con il solo scopo di sopravvivere».
Emmanuel Carrère ha raccontato tutto questo. So che non ama parlarne.
«Gli sono grato di avermi reso famoso. Ma della sua biografia ho letto una cinquantina di pagine».
È un bel libro. Perché lo ha interrotto?
«Mi annoiava e poi è affetto da una specie di perbenismo letterario ».
Non mi pare, la mette piuttosto crudamente a nudo.
«Ci siamo frequentati per due settimane. Crede sia un tempo sufficiente per conoscere una persona come me? Diciamo che ha pescato nei miei libri».
Perché ha deciso di andare a vivere a New York?
«Avevo lo stato di rifugiato politico. E c’erano due soli posti dove poter andare. Uno il Canada, l’altro gli Stati Uniti. Ero con mia moglie Tanja, decidemmo per New York. Prima di partire nel 1974 passai un inverno a Roma».
Perché?
«C’era la fondazione Tolstoj che aiutava i rifugiati con i visti per l’America. Sapevo che a Roma viveva Pasolini. Avevo visto alcuni suoi film. Ero incuriosito dalla sua vita. Lessi in francese una biografia su di lui di Enzo Siciliano. Mi colpì la descrizione di una vita parallela ».
Cosa intende?
«Una vita che si muoveva su una costante distanza da quella reale. È come se la sua morte avesse congiunto le due rette».
È stato ora a Ostia sul posto dove fu ucciso.
«Un luogo che mi ricorda Syry».
C’è molta estetica nella sua vita?
«Non lo so. C’è la letteratura che scrivo e che leggo».
In "Zona industriale" torna spesso la figura di Faust.
«È vero. La mia passione per Goethe non va però spiegata letterariamente. Quando seppi che beveva compresi che non sapeva resistere alle sue debolezze. E allora cominciò a piacermi. Ripresi a leggerlo cogliendo finalmente la sua grandezza. Lo spirito di Faust è Nietzsche allo stato puro, ma mezzo secolo prima che Nietzsche prendesse a martellate la filosofia».
Per restare ancora un attimo sulla letteratura so che ha amato "Il lupo della steppa" di Hermann Hesse.
«Me lo regalarono negli anni Settanta, quando ero a New York e vivevo a casa di un multimilionario. Non mi piacque allora. Lo rilessi a Parigi. Abitavo in una mansarda di rue Turenne. Quell’anno, era il 1985, entrò in crisi il mio rapporto con Natasha. Pensai che il romanzo di Hesse fosse la cosa più vicina al mio stato d’animo. Aprii una pagina a caso, dove Harry, il lupo della steppa, cita un verso del poeta Novalis: "Bisognerebbe essere orgogliosi del proprio dolore". Io lo ero? Penso di sì. Negli anni successivi ho riletto ancora quel romanzo, sempre più convinto che tra me e il lupo della steppa ci fossero delle somiglianze. A cominciare dall’età per finire col senso di solitudine che prendeva entrambi».
Ha combattuto la solitudine con la politica?
«La solitudine non si deve combattere, si deve usare. Questa è politica ».
Lei si è perfino alleato con l’ex campione del mondo di scacchi Kasparov.
«Detesto gli scacchi, un gioco troppo pensoso per una persona impaziente come me. Il mio alleato Kasparov: gran bel giocatore ma totalmente incapace di prospettiva politica».
So che lei si definisce imperialista. Cosa intende esattamente?
«Intendo l’impero russo. Che il popolo continua ad amare. Dal 1991 il popolo russo è stato umiliato, preso a schiaffi. Siamo stati trattati come dei falliti. Dimenticando il passato di questa grande nazione ».
Non crede che sia un’idea antiquata?
«Perché mai. L’Occidente si nutre di globalizzazione, cioè di un imperialismo mascherato. Dovremmo far finta di niente?»
I suoi rapporti con Putin?
«Ci ha perseguitati. Lui è l’espressione di una trentina di famiglie potenti. Non può prescinderne per ogni decisione. Ma condivido la sua visione imperiale».
Più sogno o nostalgia?
«Nessuna nostalgia. Un sano realismo che sa anche prevedere la sconfitta. Sono un onesto reazionario. Dalle molte vite».
Lei ha scritto che la vita è fatta di porte sbattute; di clacson di furgoni che nella luce fioca del mattino trasportano pasta e carne in scatola; di ragazze che fanno frusciare i loro collant e implacabilmente invecchiano; di ragazzi che si violentano con l’alcol e il lavoro; di soldati su gelidi camion che ignorano la propria destinazione; e di spie in macchine riscaldate che tengono d’occhio il mio portone. È questa la Russia che oggi vede e nella quale sentirsi prigioniero?
«Se mi guardo indietro vedo molte vite diverse di me stesso: quella letteraria, quella politica, quella mistica e poi c’è quella privata. Quanto a quest’ultima ho sempre lottato per mettere su una famiglia che fosse solida e unita. Non ci sono riuscito. Ogni volta che ho tentato ho fallito. Le famiglie nelle mie mani si sbriciolano come biscotti secchi. Cosa faccio allora? Vivo in buona solitudine. Incontrando qualche ragazza disposta a passare un po’ di tempo con un vecchio poeta».
il manifesto 9.9.18
La pillola amara del «non detto»
Medicina. Molti ricercatori sono finanziati dalle società farmaceutiche. Dovrebbero dichiararlo, ma un nuovo studio dimostra che i conflitti di interesse vengono spesso nascosti. E a farne le spese sono i malati
di Andrea Capocci
«Quando queste cose si verificano in politica, parliamo di corruzione. In medicina, sono solo una nota a pié di pagina». Così scrive Vinay Prasad a proposito dei conflitti di interesse che toccano settori sempre più ampi della medicina. Prasad è un oncologo trentaseienne dell’università di Portland, Oregon. Da anni denuncia con scientifica puntualità l’influenza delle società farmaceutiche su coloro che dovrebbero verificare l’efficacia e la sicurezza di farmaci e terapie. Anche se queste relazioni pericolose influenzano i risultati delle ricerche, non si tratta di pratiche illegali. Ai ricercatori finanziati dalle società farmaceutiche è richiesto solo di dichiararlo in calce agli articoli scientifici. Una riga e poco più, appunto.
Eppure, anche questo minimo esercizio di trasparenza molto spesso viene eluso. Lo dimostra una ricerca pubblicata dall’autorevole Journal of the American Medical Association (Jama) e firmata da ricercatori delle università dell’Oklahoma, del Texas e dell’Oregon.
SECONDO LO STUDIO, la maggior parte degli oncologi che verificano l’efficacia dei farmaci antitumorali approvati negli Usa ha ricevuto finanziamenti dalle società farmaceutiche che producono quelle stesse terapie. E, cosa più preoccupante, un terzo degli scienziati nasconde del tutto o in parte i finanziamenti ricevuti.
Che i controllati finanzino i controllori è una pratica poco tranquillizzante ma non deve stupire più di tanto, visto come funziona il mercato farmaceutico. Prima di entrare in commercio, un farmaco deve superare una serie di esami, detti «trial», per dimostrare che la nuova medicina è sicura ed efficace. Le società farmaceutiche commissionano questi studi a ricercatori di università e centri di ricerca pubblici e privati, molto spesso in cambio di finanziamenti per loro o per i laboratori in cui lavorano. Gli scienziati dovrebbero garantire che gli studi siano obiettivi e, nel migliore dei casi, li pubblicano sulle riviste scientifiche, che con la peer review operano un ulteriore filtro.
ALLA FINE DEL PROCESSO, gli esperti delle agenzie pubbliche – la Food and Drug Administration (Fda) negli Usa, e la sua omologa Agenzia Europea del Farmaco (Ema) – controllano che i dati siano sufficienti ad autorizzare la commercializzazione del farmaco. Dato che i medicinali producono lauti profitti per le società farmaceutiche, esse hanno tutto l’interesse a svolgere questo iter nel modo più rapido e con un esito positivo.
LA PROCEDURA SI PRESTA a distorsioni anche quando le regole vengono rispettate e i dati vengono raccolti e divulgati senza palesi manipolazioni. Secondo uno studio del 2010, nei trial realizzati con finanziamenti pubblici il 50% di essi ha esito positivo; se i soldi li mette l’industria privata (dichiarandoli) questa percentuale sale magicamente all’85%. Vietare alle società di finanziare i trial garantirebbe una maggiore obiettività ma, senza un’iniezione di fondi pubblici alla ricerca, impedirebbe a molti medicinali di arrivare nelle farmacie e negli ospedali, e in fin dei conti ai malati.
Dunque la Fda permette che le aziende farmaceutiche finanzino i ricercatori a patto che dichiarino i loro conflitti di interessi. Questo compromesso tra profitto e trasparenza è assai difficile da mantenere, come dimostrano gli scandali ricorrenti e la sfiducia diffusa, monetizzata a scopi elettorali dal M5S.
Il delicato equilibrio salta del tutto se i dati vengono truccati e, come dimostra la ricerca su Jama, i conflitti di interesse non vengono nemmeno dichiarati. Sul campione di 344 oncologi coinvolti nei «trial» di farmaci anti-tumorali approvati tra il 1 gennaio 2016 e il 31 agosto 2017, i ricercatori hanno confrontato i conflitti di interesse dichiarati e quelli che registrati sulla banca dati «Open Payments», un sito Internet su cui le società farmaceutiche pubblicano i finanziamenti erogati. È così emerso che il 32% dei ricercatori ha dichiarato per nulla o solo in parte i propri conflitti di interessi alla Fda. Dei 216 milioni di dollari erogati dalle case farmaceutiche (circa settecentomila euro a testa per i ricercatori), alla Fda sono stati dichiarati solo 136 milioni di dollari, il 63% del totale. Il 37% dei finanziamenti sono stati dunque nascosti dai ricercatori.
LA PRATICA RIGUARDA soprattutto gli autori degli studi più prestigiosi, che dovrebbero essere al di sopra dei sospetti, pubblicati sulle riviste più autorevoli in ambito medico: Lancet, New England Journal of Medicine, e lo stesso Journal of the Medical Association che pubblica la denuncia. Dunque, anche il filtro di qualità delle riviste scientifiche dimostra di non funzionare. Eppure, i dati sono pubblici: basterebbe cercarli su piattaforme come «Open Payments».
Negli Usa, dichiarare alla Food and Drug Administration i propri legami con le case farmaceutiche è un obbligo stabilito per legge, ma le violazioni delle regole sono numerose e sostanzialmente impunite. Ne risente la qualità delle ricerche, meno controllate e scientificamente inaffidabili. A farne (letteralmente) le spese sono i malati. Una ricerca del 2017 dello stesso Prasad dimostra che oltre la metà dei principi attivi anti-tumorali approvati dalla Fda e dall’Ema tra il 2009 e il 2013 non è risultata più efficace di quelli già in commercio, nonostante i farmaci innovativi avessero superato brillantemente i trial clinici. Però, mentre per quelli più «anziani» sono disponibili gli equivalenti «generici», le nuove medicine costano molte migliaia di dollari in più, a carico dei sistemi sanitari pubblici o delle assicurazioni private. Soldi che potrebbero essere dedicati allo sviluppo di terapie più valide.
Il problema non riguarda solo i medici (e i malati) statunitensi: nella stragrande maggioranza dei casi, i farmaci sono autorizzati in Europa sulla base degli stessi dati presentati negli Usa. Dunque, i conflitti di interesse dichiarati o nascosti dai ricercatori americani influenzano anche il mercato farmaceutico europeo.
Inoltre, gli studi sui conflitti di interesse tra società farmaceutiche e ricercatori riguardano direttamente anche l’Europa, e l’Italia in particolare. Secondo una ricerca del 2016 pubblicata dalla rivista BMJ Open, il 65% delle associazioni mediche italiane è sponsorizzato da società farmaceutiche, ma solo il 6% di esse le riporta in un bilancio annuale.
NEI PROSSIMI MESI la questione potrebbe diventare scottante anche per l’Ema, dove vengono autorizzate le medicine per il mercato europeo. L’Ema sta per trasferirsi da Londra ad Amsterdam a causa della Brexit, ed è prevedibile che molti dipendenti lascino l’agenzia per ragioni personali. Attualmente, il personale che lascia l’agenzia per due anni non può lavorare per una società privata che abbia a che fare con l’agenzia stessa. La norma serve ad impedire, ad esempio, che una società farmaceutica assuma un controllore particolarmente severo per sfruttarne le competenze dall’altra parte della barricata. Ma in un rapporto pubblicato in aprile, l’Ema ha annunciato che, per facilitare i trasferimenti nel periodo di transizione, la regola anti-conflitto di interessi potrebbe essere sospesa.
SCHEDA
Dal 17 luglio, gli abbonati a Netflix possono vedere in esclusiva The bleeding edge, documentario diretto da Kirby Dick disponibile anche nella versione in italiano. È un durissimo atto di accusa contro le case farmaceutiche, responsabili di aver messo in commercio dispositivi medici pur conoscendone l’inefficacia e la pericolosità. Attraverso immagini esplicite, dati e interviste ai pazienti (soprattutto donne), il doc racconta come l’industria farmaceutica influenzi le agenzie che dovrebbero vigilare, e convinca i medici a servire i suoi interessi. La Bayer, produttrice del contraccettivo femminile Essure (al centro di una delle vicende narrate), ha bollato come «manipolatorio» il film, citando documentazioni scientifiche favorevole al suo prodotto. Nonostante questo, ha annunciato il ritiro dal mercato di Essure dal mercato statunitense alla fine del 2018. A causa delle segnalazioni, il dispositivo era già stato ritirato dal mercato europeo.
il manifesto 9.9.18
Il principe dei filologi si fa divulgatore dei Greci
Letterature classiche. La letteratura greca dell’antichità di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf vide la luce in Germania nel 1906, ed ebbe lunga fortuna. Ora esce in italiano, per La scuola di Pitagora
di Daniele Ventre
Nel 1905 l’editore tedesco Teubner affidò allo storico Paul Hinneberg la direzione di una prestigiosa collana divulgativa, «Die Kultur der Gegenwart. Ihre Entwicklung und ihre Ziele» («La cultura del presente. La sua evoluzione e i suoi obbiettivi»). È in quel primo anno di attività della collana, destinata a durare fino al 1926, che vede la luce la Letteratura greca dell’antichità (Die griechische Literatur des Altertums) di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf, inaugurando così una sezione in cui avrebbero figurato esponenti fondamentali della filologia classica tedesca fra Otto- e Novecento, come Karl Krumbacher (La letteratura greca nel medioevo), Jacob Wackernagel (La lingua greca), Friedrich Leo (La letteratura latina nell’antichità), Eduard Norden (La letteratura latina nel passaggio dall’antichità al medioevo), Franz Skutsch (La lingua latina).
Ora il primo volume della Griechische Literatur del Wilamowitz compare per la prima volta in lingua italiana, per i tipi della casa editrice La scuola di Pitagora, nella traduzione di Eduardo Simeone: La Letteratura greca dell’antichità Il periodo Ellenico 700-480 a.C. (a cura di Gherardo Ugolini, pp. 140, euro 12,00). Si tratta di un’opera estremamente peculiare, sia per l’eccezionalità dell’autore, sia per l’ampiezza del suo target e dei suoi obbiettivi originari. Nei Paesi di lingua e cultura tedesca, la Letteratura del Wilamowitz ha per lungo tempo ricoperto il ruolo di testo capitale nell’ambito della divulgazione e della didattica dell’antichistica. Tre nuove edizioni progressivamente rivedute e ampliate si ebbero dal 1907 al 1924, e risale al 1995 la ristampa, sempre per la Teubner, introdotta da E. R. Schwinge.
Per quella che era la sua finalità di partenza, il compendio che il Wilamowitz mise insieme si rivolgeva a un lettore non specialista, che volesse accostarsi al mondo antico per spontaneo interesse culturale. Ne derivò uno stile personalissimo, sia nel presentare la materia, al di fuori dei ranghi del gergo tecnico di quella filologia classica, di quella Altertumswissenschaft, di cui pure l’autore fu maestro insuperato, sia nell’organizzazione dei contenuti. Quanto alla struttura dell’opera infatti, il Wilamowitz accordò alla cosiddetta età ellenistico-romana, o meglio, alla grecità di età imperiale, e alla tarda antichità, uno spazio paragonabile, se non addirittura superiore, a quello dedicato all’età arcaica (che lui definisce «periodo ellenico») e all’età attica ed ellenistica, il che mostra un deciso superamento di ogni residuale pregiudizio classicistico. Quanto allo stile della trattazione, basterà ricordare il modo in cui il filologo si pone nell’instaurare un confronto fra il preziosismo leggero dell’ode anacreontica e la pregnanza di Anacreonte stesso: «…colui al quale non risulta insopportabile questa gassosa insapore [l’anacreontica, appunto], non deve prenderla dopo il vino ellenico».
Un’opera così singolare, pur nella sua limpidezza e chiarezza didascalica, ha richiesto un impegno non facile da parte del traduttore. La versione, che Eduardo Simeone ha condotto a termine con acribia, palesa la competenza derivante da un’attività filologica di lungo corso, dedicata alla riscoperta dei punti nodali della storia degli studi classici fra gli inizi e la metà del secolo passato. I risultati di questa attività, segnata da una costante collaborazione con l’editore La scuola di Pitagora, prima di approdare a quest’ultima prova, si sono condensati anzitutto nel saggio Nel segno di Erasmo. Philologia perennis e identità culturale europea, (Napoli, 2014), e nella traduzione di altre due opere del Wilamowitz: il fondamentale Die Kunst der Übersetzung (L’arte della traduzione, Napoli, 2015), e, recentemente, Der Untergang des Altertums (Il tramonto dell’antichità, Napoli 2017).
Nella stagione e nel contesto in cui fu presentata al grande pubblico, la wilamowitziana Griechische Literatur si poneva come sintesi agile, ma profonda e sorprendente, delle conoscenze filologiche coeve, per bocca di uno dei maggiori studiosi del mondo classico di tutti i tempi. Nella sua resa italiana, Simeone è riuscito a restituirne l’agilità espressiva e l’immediatezza, consegnando così, nelle mani del lettore interessato alla conoscenza del mondo antico attraverso la storia (e l’evoluzione) della storia della Scienza dell’antichità, un piccolo autentico gioiello.
Repubblica 9.9.18
L’era dell’incertezza
Per stabilire il vero rinunciamo ad avere ragione
L’autore è un antropologo, linguista e scienziato cognitivo francese. Terrà una conferenza venerdì 14 alle 16.30 a Modena, dal titolo "Credenze. Ragioni e pregiudizi".
di Dan Sperber
Con il titolo "Verità" la manifestazione di Modena, Carpi e Sassuolo da venerdì 14 indaga un tema centrale per le scienze, l’individuo, la politica. A cominciare dalla necessità del dialogo, come spiega un pensatore
Anche le altre specie animali hanno conflitti, ma solo gli esseri umani possono essere in disaccordo: con gli amici, i genitori, i nostri partner. A volte siamo in disaccordo con persone che conosciamo appena, incontrate al bar o al lavoro.
Possiamo addirittura essere in disaccordo con persone che non conosciamo, di cui abbiamo letto le opinioni sui giornali o sul web.
I vaccini devono essere obbligatori per i bambini?
Immagino che abbiate tutti un’opinione forte sulla questione. Almeno per me è così. Qual è la vostra opinione? Non la conosco. Ma anche se non siamo d’accordo, possiamo avere un atteggiamento comune sul dibattito stesso.
Quando non siamo d’accordo con gli altri, non pensiamo quasi mai che i nostri oppositori non abbiano la facoltà della ragione. Anzi: li rimproveriamo di fare un uso scorretto della ragione. Dai tempi di Platone e Aristotele i filosofi hanno sostenuto che la ragione è qualcosa che hanno tutti gli esseri umani. Cartesio pensava addirittura che tutti gli esseri umani ne abbiano in uguale misura.
Ma che cos’è la ragione? La maggior parte dei filosofi e degli psicologi sostiene che sia una facoltà di ordine superiore la cui funzione è di permetterci di arrivare ad avere credenze più certe. Ma allora, se abbiamo tutti questa facoltà, come mai non convergiamo tutti sulla verità?
Com’è possibile che la ragione a volte sembri esacerbare i disaccordi invece che risolverli?
Più di mezzo secolo di psicologia cognitiva ci insegna che la stragrande maggioranza delle persone si sbaglia nel risolvere problemi di ragionamento anche piuttosto semplici. Si potrebbe concludere dunque che la ragione non funziona tanto bene.
Nel nostro libro The Enigma of Reason, Hugo Mercier e io sosteniamo un’altra tesi: la funzione della ragione non è di permetterci individualmente di acquisire conoscenze più certe, ma di scambiare informazione e opinioni in modo più efficace. Usiamo la ragione per convincere gli altri. Soppesiamo le ragioni che gli altri ci danno per decidere se credere o no a quello che ci dicono. Quando produciamo ragioni in un dialogo, non siamo oggettivi: il nostro scopo non è di scoprire la verità, ma di convincere gli altri di un’opinione che noi pensiamo già sia vera. Anche quando ragioniamo da soli, lo facciamo come se stessimo cercando di convincere un interlocutore, e anche in questo caso non siamo oggettivi. In un dialogo, un pubblico reticente ad accettare il nostro punto di vista ci obbligherà ad affinare i nostri argomenti e, a volte, a cambiare idea. Quando ragioniamo da soli (o con persone che hanno le stesse opinioni), l’uso della ragione tende a renderci ancora più convinti di quel che già crediamo, più "polarizzati" di quanto fossimo prima.
Dunque sì, la maggior parte di noi pensa che ci sia un’opinione giusta e una sbagliata sui vaccini e su altre questioni controverse. Pensiamo tutti che le nostre opinioni siano giuste (altrimenti le avremmo scartate) e che quelle di chi sta dall’altra parte siano sbagliate.
Eppure io sono convinto che la differenza di opinioni non dipenda dal fatto che le persone che la pensano come me sono razionali e gli altri non sanno usare la ragione. La ragione non è uno strumento per scoprire la verità, ma per produrre argomenti. Per usare così la ragione, ci deve essere un dialogo con una differenza iniziale di opinioni e un interesse comune per la verità. Ci dev’essere anche da entrambi i lati sufficiente modestia cognitiva per considerare la possibilità che ci stiamo sbagliando ed esaminare gli argomenti degli altri con apertura mentale.
Anche se abbiamo tutti la facoltà della ragione, la modestia cognitiva, l’apertura mentale e la tolleranza reciproca sono qualità più rare. Si può pensare però, in una prospettiva storica, che queste qualità tendano ad aumentare nel tempo.
Corriere Salute 9.9.18
Siamo spesso certi di quello che rammentiamo. Ma in realtà la memoria ci tradisce più di quanto non sospettiamo. E ora una ricerca dimostra anche che episodi della prima infanzia entrano nella nostra «autobiografia» solo attraverso vie indirette, seppure facciamo fatica ad accettarlo
Non possiamo ricordare nulla prima dei tre anni
di Danilo di Diodoro
Siamo spesso sicuri di quello che ricordiamo, ma la memoria non sempre è affidabile e ora giunge un’altra conferma della sua possibile fallacia.
Una ricerca ha dimostrato come molti siano convinti di avere ricordi talmente precoci che dovrebbero essersi formati quando nel cervello non si erano ancora sviluppate le strutture necessarie allo scopo. Perché un evento possa fissarsi nella memoria bisogna avere almeno tre anni e qualche mese, quando il cervello è «adeguato» e sono presenti anche le prime abilità linguistiche. E così un gruppo di ricercatori coordinati da Martin Conway del Department of Psychology dell’University of London è rimasto interdetto quando, durante una ricerca, ha scoperto che quasi il 40% di un campione di 6 mila adulti intervistati era convinto di ricordare episodi personali risalenti ai due anni. Lo studio ha coinvolto soggetti di ogni età, a caccia non solo di qualche ricordo precoce, ma esattamente del primo ricordo che ciascuno riteneva di avere. «Ben 2.478 persone che hanno risposto al questionario (il 38,6% del campione) datavano le loro prime memorie a quando avevano due anni o prima» dicono gli autori dello studio, pubblicato sulla rivista Psychological Science. «E sorprendentemente, 893 persone (13,9% del campione) facevano risalire le prime memorie a un anno o anche prima. Le abbiamo chiamate “prime memorie improbabili”».
Per tentare di capire come mai tante persone siano convinte di poter rammentare ciò che oggettivamente è impossibile ricordare, i ricercatori hanno fatto diverse ipotesi. Una è che alcuni dei ricordi potrebbero rispecchiare eventi realmente accaduti nella vita di quella persona, ma che siano stati collocati temporalmente in maniera erronea.
I ricordi sarebbero semplicemente stati attribuiti a un’età precedente rispetto a quella in cui gli eventi si sono davvero verificati. Ma dato che alcuni ricordi come «stavano cambiandomi il pannolino...», oppure «volevo dire qualcosa a mia madre, ma ancora non sapevo parlare...» si riferiscono a un periodo della vita molto precoce, l’ipotesi dell’errata attribuzione temporale non convince gli stessi ricercatori.
Sembra più convincente un’altra possibilità: si tratterebbe in realtà di memorie immaginate e non di ricordi di avvenimenti di cui le persone hanno direttamente fatto esperienza. Quindi, ci tengono a specificare i ricercatori, non sono memorie false, ma, per così dire, ricostruite a tavolino. «La nostra idea è che queste persone, quando “ricordano” le prime improbabili memorie, stiano ricordando l’immagine di un oggetto o di un’azione effettivamente risalenti alla loro prima infanzia, che sono però basati su un’esperienza, una fotografia o una descrizione, derivanti da storie familiari, senza che loro siano coscienti di questa fonte del ricordo. Dev’essere così per ricordi del tipo “da piccolo l’unica cosa che volevi fare era camminare”, oppure “la prima parola che hai detto è stata...”».
Oggi si sa che tutti i ricordi sono soggetti a continui fenomeni di rielaborazione, quindi più che altro sono ricostruzioni, che oltretutto possono modificarsi ogni volta che vengono rievocate. Una storia della propria vita raccontata in modo leggermente diverso da come era stata già raccontata, facilmente va a sostituire la versione precedente.
«Inoltre tutti i ricordi subiscono una compressione temporale e quindi anche da questo punto di vista non rappresentano l’esperienza dalla quale derivano» dice ancora Martin Conway. «Allo stesso modo tutti i ricordi contengono dettagli che sono semplicemente dedotti, sia consciamente, sia inconsciamente. Ad esempio, come è stato dimostrato da una ricerca realizzata qualche anno fa sempre dal gruppo del professor Conway, i vestiti sono poco ricordati nelle memorie infantili. «Eppure le persone intervistate durante questa nuova ricerca dichiaravano di ricordare di essere state vestite. Lo stesso accade per altri dettagli di uno specifico ricordo, come il tempo che faceva quel giorno, il momento della giornata, le conversazioni che erano in corso e così via, che sono sempre dedotti piuttosto che ricordati. I ricordi fanno dunque parte di una sorta di narrativa della vita di una persona e la modalità con la quale corrispondono all’esperienza reale e diventano coerenti con il resto dei ricordi è un fenomeno complesso e dinamico».
Quello della coerenza è certamente un punto fondamentale della memoria, che cerca sempre di selezionare e aggiustare i ricordi proprio perché nel complesso svolgono un’importante funzione di identità individuale.
Concludono gli autori dell’indagine: «Il valore personale e il significato di una memoria immaginata risiedono nella sua capacità di essere coerente con altri pezzi della memoria autobiografica, piuttosto che nella sua corrispondenza a un evento reale sperimentato».
Corriere Salute 9.9.18
Ma possiamo scrivere la nostra vita in un libro
di D.d.D.
A fronte di chi crede di ricordare ciò che non può ricordare, c’è chi vede davvero le sue memorie svanire nelle nebbie dell’involuzione cerebrale.
Interi pezzi di vita che vanno perduti, comprese quelle che erano state le gioie e i momenti più belli. Per porre rimedio, almeno parziale, a tale perdita, si può ricostruire la propria vita in un libro o un file multimediale, il cosiddetto Life story book, che una ricerca pubblicata sulla rivista International Psychogeriatrics ha dimostrato avere un effetto positivo nell’aiutare a riportare alla memoria episodi della vita vissuta e nel migliorare le relazioni tra chi è affetto da demenza e i suoi familiari.
La ricerca è stata realizzata da un gruppo di psicologi olandesi guidati da Teuntje Elfrink dell’Università di Twente (Olanda), e ha preso in esame 14 studi precedentemente realizzati in vari paesi sull’utilizzo dei Life story book come strumento utile anche per generare maggiore attenzione verso i bisogni di chi soffre di demenza. Fino a contribuire a realizzare un contesto di cura personalizzata, rispettosa delle esperienze e dell’unicità di ogni singola persona.
«Il valore dei Life story book risiede nello stimolare il recupero di memorie ed emozioni positive e nel migliorare le relazioni con la persona affetta da demenza» spiegano gli autori della ricerca. «Valutazioni quantitative supportano questa ipotesi, dal momento che sono stati riscontrati miglioramenti nella memoria autobiografica, nel livello di depressione e nella qualità di vita delle persone con demenza, così come nelle relazioni e nella comunicazione tra chi soffre di demenza e chi ha il compito dell’accudimento».
I Life story book possono avere diverse forme e dimensioni. Alcuni sono basati sulla scrittura e hanno una lunghezza di poche pagine, altri sono di molte decine di pagine e corredati da immagini e fotografie o articoli di giornale; altri ancora sono multimediali e possono comprendere registrazioni e filmati.
La maggior parte dei book realizzati nel corso degli studi entrati in questa revisione sistematica avevano una struttura di tipo cronologico, che ricostruiva il normale andamento dell’esistenza. Nel corso di alcuni di questi studi sono state anche individuate raccomandazioni sulle modalità per trattare gli eventi negativi e spiacevoli, su come raccontare episodi che coinvolgono altre persone, su come dare una conclusione positiva alla storia personale.
Alla realizzazione dei book, oltre alla persona interessata, possono partecipare più familiari e i caregiver professionali, dal momento che una delle finalità è appunto stimolare coloro che stanno attorno a chi soffre di demenza a rispettare e riconoscere la sua individualità. E quindi a superare l’approccio di tipo medico-routinario inevitabilmente prevalente soprattutto nelle strutture istituzionali.
I risultati positivi di questa revisione suggeriscono che la pratica del Life story book potrebbe diventare uno degli strumenti da mettere in atto per aiutare le persone con demenza a recuperare parti delle propria vita che rischiano di andare perdute per sempre, e i loro familiari a impegnarsi in un’attività che faciliti le relazioni. Tuttavia, secondo la professoressa Elfrink, tutti gli studi presi in esame erano stati realizzati su poche persone e quindi c’è bisogno di valutare più accuratamente l’efficacia di tali interventi.
«Ora bisognerà avviare la fase terza della sperimentazione» concludono gli autori della ricerca, «da realizzare attraverso studi randomizzati e controllati, al fine di stabilire con maggiore certezza gli effetti dei Life story book».
Corriere Salute 9.9.18
Per qualcuno il problema è non riuscire a dimenticare
di Luigi Ripamonti
«Noi in un colpo d’occhio percepiamo tre bicchieri su un tavolo; Funes tutti i rami e i grappoli e i frutti di un pergolato. Sapeva le forme delle nuvole australi dell’alba del 20 aprile 1882 e poteva paragonarle nel ricordo con le venature di un libro rilegato in pelle che aveva visto una sola volta». Così Jorge Louis Borges descrive «Funes il memorioso», al secolo Ireneo Funes, un contadino argentino che dopo essere caduto da cavallo e aver battuto la testa acquisisce il talento di ricordare assolutamente tutto.
E ciò che si dice di Funes si potrebbe dire di altri personaggi divenuti famosi nel mondo scientifico, ma balzati anche agli onori della cronaca e persino del cinema, per le loro incredibili storie legate alla memoria.
Dal paziente H.M., che dopo aver subito l’asportazione dell’ippocampo, una piccola parte del cervello, conservò i ricordi acquisiti fino a quel momento ma non potè mai più formarne di nuovi. Divenne vittima cioè di un’amnesia anterograda. La sua vicenda — come spiega il neurologo Rodrigo Quian Quiroga in «Borges e la memoria» (Erickson) — fu decisiva per capire l’importanza dell’ippocampo nella formazione dei ricordi». L’ippocampo è una specie di regista, che sa dove e come far archiviare al cervello ciò che serve ricordare. Poi i veri e propri ricordi ce li andiamo a cercare nel cervello in vari posti, dove possono associarsi a concetti e facoltà che hanno a che fare con loro.
Come nel caso del neurone di Jennifer Aniston, che non è proprio un neurone, ma un gruppo di neuroni che, durante un esperimento si è scoperto che si attivavano davanti a qualsiasi foto dell’attrice americana e che erano capaci di reagire anche davanti a quelle di Lisa Kudrow, collega della Aniston nella fiction Friends, a dimostrare che la memoria funziona per associazioni.
Il neurone di Jennifer Aniston è solo un esempio. In realtà pare che abbiamo neuroni che possiamo associare a qualsiasi concetto abbiamo «scelto» di ricordare.
Il termine «scelto» però è forse azzardato, perché non decidiamo in modo totalmente conscio che cosa archiviare e che cosa no, anche se una selezione la operiamo. Il nostro cervello «sa» quel che gli serve, che non è il conservare tutte le informazioni acriticamente, bensì quelle utili a compiere astrazioni e collegamenti. In caso contrario si cadrebbe nelle condizioni di altri personaggi celebri nella storia degli studi sulla memoria, come Kim Peek, che ispirò il film Rain Man, oppure Barry Morrow, dotati di memoria prodigiosa ma incapaci di ragionamenti semplici o di cogliere un doppio senso.
Ricordare tutto, infatti, non si associa alla capacità di astrazione. «Se osserviamo uno stormo di uccelli, al contrario di Funes non sappiamo contarli e ricordarne il numero istantaneamente, perché, di norma, in realtà non è importante saperlo. Quello che ci interessa capire è che siano uccelli e determinarne approssimativamente il numero (più o meno di 10 o di 100) e astrarre il concetto, tralasciando le informazioni non necessarie. Questa operazione comincia con la percezione e si trasferisce nella memoria» scrive Quiroga.
Funes, con la testa affollata, satura, di dettagli, non poteva compire questo procedimento per noi semplice, sottolinea Quiroga. Borges nel suo racconto su Funes ma non solo, ebbe la capacità di capire sia l’importanza dell’astrazione sia dell’oblio.
«Pensare significa dimenticare le differenze, significa generalizzare, astrarre — dice Borges —, e nel mondo stipato di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati».
Repubblica 9.9.18
Cervelli impavidi
Il coraggio, se non ce l’hai te lo danno i neuroni
Nell’ippocampo cellule nervose che azzerano la paura
Le hanno localizzate gli scienziati svedesi studiando i topi che sfidano i gatti
di Giuliano Aluffi
Chi salta da un dirupo, casomai munito di tuta alare per volare via sfrecciando sulle punte degli alberi, è certo un temerario, ma questo sprezzo del pericolo, più che indicatore di forte personalità, potrebbe essere soltanto un dono di natura, legato all’attività di un gruppo particolare di neuroni detti "i neuroni del coraggio". Già noti come gli "interneuroni OLM", si pensava fossero soltanto associati al consolidamento dei ricordi. Il loro ruolo chiave nei comportamenti spavaldi è oggi rivelato da uno studio pubblicato su Nature Communications, che pone le basi per possibili nuove terapie anti ansia e anti disturbo da stress post-traumatico. È un passo avanti rispetto a un recente studio giapponese che mostrava il ruolo della dopamina nello spezzare i riflessi condizionati legati alla paura in assenza di reale pericolo – la dopamina infatti si libera quando una situazione si rivela migliore di quanto temuto.
Il nuovo studio, infatti, riguarda il comportamento in presenza di reali segnali di rischio, ed è quindi più propriamente legato al coraggio.
«L’attività di questi neuroni può azzerare la paura» spiega Klas Kullander, capo del dipartimento di genetica all’Università di Uppsala, in Svezia. «Se al centro di una stanza si mettono a terra dei peli di gatto, i topi normali non osano allontanarsi dai muri perché sentono l’odore del nemico. Ma se stimoliamo i suoi neuroni OLM, il topo si avventurerà senza timore in mezzo alla sala, e calpesterà i peli di gatto come se non ci fossero.
Funziona anche l’inverso: disattivando questi neuroni, il topo diventa più timoroso degli altri». A dare tanto potere ai neuroni OLM è la loro posizione cruciale. «Si trovano vicino ai neuroni principali dell’ippocampo, quelli piramidali, che connettono all’ippocampo due regioni cerebrali importanti come la corteccia prefrontale, sede della cognizione, e l’amigdala, sede della paura» spiega Kullander. «Quando vediamo qualcosa di allarmante la corteccia prefrontale e l’amigdala si attivano entrambe per decidere se siamo in pericolo oppure no. I neuroni OLM ricevono sia il responso dell’amigdala che quello della corteccia prefrontale, fanno un bilancio tra i due e lo trasmettono all’ippocampo.
Quando questi neuroni sono molto attivi ed emettono un certo tipo di oscillazioni, dette oscillazioni Theta, il cervello decide che sì, la situazione sarà pure rischiosa, ma noi siamo al sicuro». Una particolarità di questi neuroni è che hanno dei recettori per la nicotina: «Fumando, li si stimola» spiega Kullander. «Forse è per questo che molti tendono a fumare di più quando sono nervosi». «Se individuassimo altri recettori, oltre a quelli per la nicotina, posseduti soltanto da queste cellule, potremmo sviluppare un farmaco anti ansia molto mirato, che non tocchi altre parti del cervello» spiega il coautore dello studio, Richardson Leão, docente di neuroscienze alla Federal University di Rio Grande do Norte. In certi casi, invece, può essere salvifico aumentare l’ansia: «È il nostro prossimo progetto: salvare la vita ai topi infetti da toxoplasmosi. Per scongiurare la trasmissione agli uomini», spiega Leão. «Il parassita della toxoplasmosi per completare il suo ciclo di vita deve entrare nel cervello dei gatti. Ma il suo primo ospite è il topo. Quando il Toxoplasma gondii li infetta, i topi perdono la paura del gatto e addirittura scambiano gli odori del gatto per irresistibili feromoni». Gettandosi entusiasti tra le fauci dei felini e dandola vinta al parassita. «Vogliamo ridare a questi topi la paura dei gatti. E fermare questa zoonosi, assai rischiosa per chi ha il sistema immunitario compromesso» spiega Leão. «Studi dicono che i guidatori con Toxoplasma gondii hanno probabilità di fare incidenti più che doppia rispetto agli altri».
Repubblica 9.9.18
Il nuovo studio
Il coraggio e i Colleoni
di Marino Niola
Il coraggio si trova nei luoghi più impensati, diceva Tolkien. Forse per questo, da che mondo è mondo, gli uomini lo hanno sempre cercato in ogni dove. Nei meandri del corpo e nei ripostigli dell’anima, nella speranza di trovarne almeno quel briciolo che basti a non farsi sopraffare dalle proprie paure. Adesso due neuroscienziati annunciano di aver scovato il nascondiglio. I ricercatori, lo svedese Klas Kullander dell’Università di Uppsala e il brasiliano Richardson Leao dell’Ateneo di Rio Grande, hanno pubblicato sulla rivista Nature Communications i risultati di uno studio, secondo il quale la centrale del coraggio si troverebbe nei cosiddetti neuroni dell’ippocampo.
Se siamo davanti a uno storico score scientifico è ancora presto per dirlo, ma la notizia sta già facendo sognare. Sia quelli che pensano di non avere abbastanza coraggio, sia quelli che sanno per certo di non poterselo dare da soli, come il don Abbondio manzoniano. E allora ben venga un farmaco, un microchip, un placebo incoraggiante che faccia friccicare nella maniera giusta quei neuroni, che, a detta degli studiosi, «a seconda del ritmo diverso con cui si attivano, fanno sì che un topo sia spaventato dal pelo di un gatto oppure non ne sia per nulla impressionato » . Il che, trasposto qualche gradino più in su della scala evolutiva, significa che se l’ippocampo ci gira bene davanti a un rapinatore, anziché farcela sotto, saremmo in grado di reagire col sorriso sulle labbra prima di passare al contrattacco.
Resta il fatto che Kullander e Leao continuano, con gli strumenti di oggi, un’indagine iniziata da millenni. E che ha cercato ogni volta in un organo diverso la sede del coraggio. A partire dal cuore, da cui viene la parola stessa coraggio, che deriva dal latino coraticum, che significa letteralmente "aver cuore". Come il quasi invulnerabile Achille, o il leggendario re Riccardo, passato alla storia come il "Cuor di Leone". Poi col tempo l’audacia e lo sprezzo del pericolo hanno traslocato al piano inferiore e sono andati a sistemarsi nel fegato. Essere dotato di fegato è stato ed è ancora sinonimo di valoroso, eroico, impavido. Lo raccontava già la mitologia greca che faceva di Prometeo, l’eroe che ha l’ardire di rubare il fuoco agli dei per donarlo ai mortali, l’uomo di fegato per antonomasia. Tant’è vero che Zeus lo punisce facendogli divorare h24 il fegato da un’aquila. In tempi più recenti la location è scesa ancora più in basso e ha scelto un indirizzo genitale. Coraggioso è chi ha le palle. Ne sapeva qualcosa Bartolomeo Colleoni, il fiero capitano di ventura il cui nome di famiglia derivava dal latino coleus, testicolo. Ne andava così orgoglioso che ne mise ben tre sul suo stemma nobiliare. E andava in battaglia gridando «Coglia, coglia » , un’esternazione dal senso inequivocabile. Per la stessa ragione cibarsi di testicoli di toro in Spagna e in altri Paesi a machismo spinto è roba da persone con gli attributi. Come dire una virilità ad alto tasso di testosterone. E adesso la scienza potrebbe aiutarci a cancellare per sempre la paura. Attenzione però alle controindicazioni di un coraggio senza limiti. È vero che siamo nella civiltà della competizione spinta. Ed è vero pure che quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. Ma non è detto che vincano. In fondo, come dicono gli etologi, la paura è il più geniale espediente inventato dall’evoluzione per decidere quando conviene osare e quando scappare. Al contrario, non temendo più niente e nessuno, rischiamo di trasformarci in un esercito di colleoni.
Corriere La Lettura 9.9.18
Astrofisica Non esiste soltanto un’entità misteriosa della quale vanno compresi i segreti. Ce n’è una seconda, ancora più enigmatica: cozzano l’una con l’altra e insieme rappresentano il 95% delle forze dell’universo
La guerra del cosmo Materia oscura contro energia oscura
di Cristiano Galbiati
Due entità in lotta, dall’inizio dei tempi, per conseguire il dominio assoluto. Un conflitto senza tregua e senza esclusione di colpi: ogni mezzo è lecito, come in amore e in guerra. Una guerra serrata, dall’esito tutt’altro che scontato, che attraversa i confini del tempo e dello spazio: repentini i rovesciamenti del fronte, e inaspettati. Questa lotta sta avendo luogo proprio intorno a noi, in questo preciso momento. Ha determinato tutto ciò che siamo oggi, e finirà per fissare il destino ultimo dell’Universo. Dobbiamo cercare di comprenderla a fondo: è essenziale, se ci interessa capire da dove veniamo e se vogliamo prevedere l’evoluzione di tutto ciò che ci circonda.
Solo negli ultimi vent’anni abbiamo capito che sin dall’inizio dei tempi, marcato dall’evento singolare del Big Bang, l’evoluzione dell’Universo è stata interamente dominata dalla battaglia feroce tra queste due entità sconosciute. Esse sono in una posizione dominante nel mondo fisico, perché rappresentano circa il 95% dell’energia dell’Universo. Eppure si sono tenute «nascoste» sino a ieri. Questo è stato possibile perché non sono dotate di carica elettrica e non interagiscono direttamente con i campi elettromagnetici: non emettono né assorbono né riflettono luce. Sono due entità oscure. Misteriose e ignote come divinità ctonie, le due entità oscure sono parimenti importanti, ma giocano due ruoli contrapposti e antagonisti nell’evoluzione dell’Universo.
La prima entità si comporta come una massa diffusa e pesante, potremmo dire che è il vero centro di gravità permanente dell’Universo. Grazie all’attrazione gravitazionale dovuta alla sua enorme massa, nell’Universo bambino, costituito da una distesa uniforme di gas idrogeno, si sono formati filamenti simili a quelli di una tela di ragno: fluttuazioni di densità in eccesso dell’entità primordiale hanno richiamato gas idrogeno delle regioni circostanti, aumentando il potenziale gravitazionale e così richiamando materia da regioni sempre più lontane, fino a creare regioni molto dense di gas. Nei punti di incrocio di questi filamenti, agli snodi della tela di ragno, sono nati gli ammassi: qui si sono potute formare le galassie, le stelle e i sistemi solari. Questa prima entità, che ha dominato le fasi iniziali della nascita e della crescita dell’Universo, è nota ai più sotto il nome di «materia oscura». Si presume che sia formata da particelle di una classe nuova, mai osservate in precedenza, che interagiscono molto debolmente con la materia normale, quella di cui siamo fatti noi e tutti i corpi celesti osservati finora. Senza materia oscura, non si sarebbero mai formati le stelle, i pianeti e tutto ciò che rende l’Universo interessante.
La seconda entità è invece una forma di energia mai vista prima: dirompente e lacerante. Si comporta come se fosse una forma di energia intrinseca del vuoto cosmico: è come se fornisse a ogni unità di spazio-tempo un’energia di base, semplicemente per il fatto di esistere, pur in assenza di qualsiasi contenuto e forma materiale. A causa della presenza di questa seconda entità primordiale, quando l’Universo si espande la sua energia totale aumenta. Così l’entità esercita sull’Universo una pressione costante verso l’espansione, proprio l’esatto contrario di quanto fa la forza di gravità. Questa seconda entità va sotto il nome di «energia oscura».
Se la materia oscura è oggi il primo enigma scientifico, la cui soluzione è cruciale per la comprensione del cosmo e delle nuove leggi della fisica, l’energia oscura è un mistero ancor più fitto e affascinante, forse il più grande mistero scientifico di sempre. Completamente ininfluente all’inizio dei tempi, a seguito della continua espansione dell’Universo ha finito per assumere un ruolo vieppiù importante. Se infatti la materia oscura era dominante agli albori dell’Universo (quasi ininfluente invece il ruolo della materia normale, di cui siamo fatti noi e le stelle), la sua densità di energia è calata rapidamente a seguito della diluizione dovuta all’espansione dell’Universo. Non così per l’energia oscura: la sua densità rimane costante per unità di spazio-tempo. Qualche miliardo di anni fa l’energia oscura ha preso il sopravvento, portandoci in una nuova era, caratterizzata da una forte accelerazione dell’espansione dell’Universo, ormai non più controbilanciata dalla forza di attrazione della materia oscura.
A causa di quest’espansione accelerata, intere porzioni dell’Universo si stanno allontanando dalla nostra visuale a velocità più elevate di quella della luce: sono perse per sempre nello spazio-tempo, e non saranno mai più accessibili. Tra qualche miliardo di anni, corpi astrali che oggi sono lontanissimi ma visibili, e la cui osservazione ci permette di comprendere il ruolo e la potenza dell’energia oscura, scompariranno per sempre dietro l’orizzonte. A quel tempo la porzione di Universo visibile sarà ristretta alle sole galassie del «gruppo locale», quelle più vicine alla nostra Via Lattea.
Il fenomeno è così drammatico da influire persino sulla possibilità che civiltà future avranno di rendersi conto di questi fenomeni. Per una nuova civiltà che compaia tra qualche miliardo di anni, quando l’orizzonte dell’Universo sarà molto più ristretto di quello che è oggi, potrebbe essere impossibile ricostruire, sulla base di nuove osservazioni astronomiche dirette, il ruolo della materia e dell’energia oscura nell’evoluzione dell’Universo. In questo senso ci troviamo in una situazione del tutto particolare e inedita dal punto di vista della ricerca scientifica. Siamo nel momento esatto in cui queste due entità, che lasciano sbigottiti e potrebbero cambiare per sempre le leggi della fisica, si dispiegano in tutta la loro potenza. Sta a noi cercare di fornire risposte agli enigmi che ci pongono, senza rimandare il compito a un futuro imprecisato.
Anche questa circostanza contribuisce a rendere la materia e l’energia oscura i problemi scientifici più affascinanti del secolo appena iniziato. E per questo oggi partiamo per un programma di esplorazione ambizioso, non sapendo se e quando il nostro viaggio avrà termine. Dobbiamo scontare che forse saranno necessarie nuove leve e generazioni di ricercatori prima di arrivare alla meta. L’unica certezza è che il cammino di scoperta richiederà lo sviluppo di tecnologie e strumenti nuovi, per permetterci di spingere il nostro sguardo più in là.
Le ricadute tecnologiche su applicazioni di interesse per la società (il cosiddetto broader impact) sono già molto importanti oggi, ed è facile anticipare che produrranno nuovi frutti negli anni a venire. Gli esperimenti ai Laboratori del Gran Sasso dell’Istituto nazionale di fisica nucleare sono in prima linea per la possibile scoperta della natura della materia oscura. Per loro inclinazione o per puro caso, i ricercatori italiani sono particolarmente a loro agio in questa navigazione senza meta prefissata. Ancora una volta, il viaggio in mare aperto e l’esplorazione delle nuove terre sono appena cominciati.
Corriere La Lettura 9.9.18
Licenza di estinguere? La genetica sfida l’etica
di Telmo Pievani
Gli abitanti di Floreana sono un collettivo autogestito in mezzo all’oceano. Da gennaio 2018 proteggono fieramente la biodiversità della loro isola insieme agli scienziati, perché hanno capito che le bellezze naturali possono contribuire allo sviluppo economico di una comunità. Adesso però devono affrontare un dilemma piuttosto crudo: come sterminare asini, capre e ratti per salvare iguane, fringuelli e testuggini?
Floreana, come il resto delle Galápagos, è un esperimento evolutivo a cielo aperto: un ecosistema equatoriale unico e isolato, disabitato fino al 1535 e poi invaso da decine di specie aliene portate da coloni e avventurieri. Charles Darwin la visitò nel settembre del 1835 e si accorse che già allora c’erano le bestie sbagliate nel posto sbagliato: «Nei boschi ci sono molti maiali e capre selvatici», annotò. E aggiunse: «Gli animali non temono l’uomo…».
Alle Galápagos gli animali continuano a non temere l’uomo, e sbagliano. Le specie invasive trasportate attraverso i viaggi e i commerci sono, dopo la deforestazione, la seconda più grave causa di distruzione della biodiversità terrestre. Mangiano le uova, distruggono gli habitat. Bisogna porvi rimedio, ma come? Su Floreana i conservazionisti hanno escogitato un solo modo: 400 tonnellate di veleno. Sono quelle previste dal Proyecto: lancio da elicotteri di esche ratticide su tutta l’isola per due mesi, evacuazione totale degli abitanti, gli animali d’allevamento confinati per sei mesi, costo 20 milioni di dollari. Un po’ drastico come rimedio.
Con le capre la caccia aveva funzionato: 200 mila quelle abbattute su tredici isole dell’arcipelago. Con i roditori invasivi è tutto più difficile. Nei progetti di eradicazione un successo al 99% è un fallimento al 100%: bastano pochi topolini sopravvissuti nascosti sotto un ripostiglio e la popolazione riparte in un batter d’occhio. E poi nessun veleno ratticida rimane confinato ai ratti, perché inquina le acque e il terreno.
Ma ecco in arrivo un’alternativa: pulita, silenziosa, per alcuni lievemente inquietante. Un’alternativa genetica per il dilemma di Floreana. Se si potessero modificare geneticamente i ratti rendendoli sterili, potremmo ottenere lo stesso risultato senza un grammo di veleno. Finora era fantascienza, tra qualche anno potrebbe essere realtà. Si chiama gene drive ed è un acceleratore molecolare che può alterare le percentuali di diffusione di un gene da una generazione all’altra, eludendo le leggi di Mendel. Ne esistono già in natura, ma ora gli scienziati stanno imparando a ingegnerizzarli per i propri scopi.
In pratica, si inserisce nel Dna delle cellule sessuali una sequenza «egoista» che al momento della fecondazione e della ricombinazione genetica si duplica, imponendosi anche sull’altro corredo cromosomico, venendo quindi trasmessa a tutta la discendenza. Se il gene egoista in questione compromette il cromosoma X o rende sterili le femmine, il risultato è ottenuto: dopo poche generazioni l’intera popolazione sarà costituita soltanto da maschi o da femmine sterili, e si estinguerà.
Per la prima volta nella storia, una specie sarà in grado di programmare intenzionalmente l’estinzione di un’altra. Gli abitanti di Floreana non sembrano temerlo. Posti dinanzi alla nuova ipotesi di intervento, molti l’hanno sposata convintamente, pur di evitare la pioggia di veleno. Qualsiasi sarà la decisione, andrà discussa democraticamente se vogliamo che Floreana diventi un caso virtuoso di alleanza tra biotecnologie e difesa dell’ambiente. Le difficoltà tecniche tuttavia non mancano. Riusciremo a tenere sotto controllo il rilascio in ambiente di animali geneticamente modificati?
Per accidente o per frode, qualcuno li potrebbe disperdere su altre isole o sul continente. Andranno ponderati gli effetti non intenzionali della loro presenza, effetti che comunque vi sono anche nel caso della lotta biologica classica, quando per esempio si introducono predatori per arginare una specie invasiva e poi questi a loro volta diventano invasivi. Non ultimo, questa tecnologia riduce la diversità genetica delle popolazioni e ha effetti ereditari permanenti, quindi va maneggiata con cura.
La rivista «Science» ha pubblicato i principi per una ricerca sul gene drive che sia responsabile e trasparente. Abbiamo ancora tempo per pensarci, visto che la tecnica non è ancora disponibile sui vertebrati. Per i ratti di Floreana al momento c’è solo il veleno. Sugli insetti, invece, una variante dell’applicazione potrebbe essere più vicina.
Anopheles gambiae e altre zanzare veicolano un parassita, il plasmodio, che trasmette la malaria. Ogni anno muoiono di questa malattia più di 400 mila persone in tutto il mondo, un flagello che colpisce anche tantissimi bambini. L’idea è ricorrere al gene drive per ridurre la fertilità femminile disattivando i geni coinvolti nella produzione e maturazione delle uova; oppure per ridurre le possibilità di accoppiamento distruggendo il cromosoma X, generando una progenie solo maschile, con conseguente collasso popolazionale; o ancora — soluzione meno drastica ma più difficile — per annullare le capacità di trasmissione del parassita disattivando i geni dei recettori e rendendo le zanzare immuni alla malaria.
Potremmo estendere la tecnica anche all’odiosa zanzara tigre e alle sue cugine che stanno portando anche in Italia pericolose febbri tropicali. Sembrerebbero ragioni morali più che sufficienti per tentare di eradicare i malefici insetti. Eppure anche in questo caso si pone un dilemma bioetico interessante. Qualche avvocato difensore delle zanzare la mette sul piano evoluzionistico: che diritto abbiamo noi, un mammifero comparso 200 mila anni fa in Africa, di programmare l’annientamento di insetti che si sono evoluti su questo pianeta 400 milioni di anni fa?
Altri si preoccupano per gli equilibri ecosistemici: le zanzare sono il cibo per pipistrelli, uccelli, libellule. Ma il rischio maggiore forse è un altro: le sequenze egoiste potrebbero diffondersi in modo incontrollato, o viceversa alcune zanzare potrebbero evolvere la resistenza al trattamento e diventare ancor più invasive. Inoltre, il problema della malaria è anche di tipo sociale ed economico, non solo biologico, il che è vero, ma intanto anche quest’anno conteremo centinaia di migliaia di vittime.
I favorevoli al gene drive ribattono che proprio per ragioni umanitarie sarebbe immorale non tentare, prendendo tutte le precauzioni dovute: ripetute simulazioni in ambienti controllati prima di qualsiasi rilascio; inserzione di geni che restino confinati in una popolazione specifica e non ne contaminino altre; creazione di gene drive alla rovescia che possano invertire il processo in caso di problemi. La paura che qualcosa vada storto rimane, ma l’imperativo morale di salvare così tante vite umane pesa sulla bilancia e tutto lascia pensare che il verdetto finale sarà di condanna per le zanzare. La Bill & Melinda Gates Foundation sta finanziando un enorme progetto, Target Malaria, che va in questa direzione.
Nel dubbio, chiederemo consiglio agli abitanti di Floreana, che nel frattempo avranno vissuto sulla loro pelle, e su quella del loro microcosmo insulare, i paradossi di una natura che cambia incessantemente, co-evolvendo con la specie più invasiva di tutte, Homo sapiens.
Corriere 9.9.18
STASERA IN TV: Rai Storia ore 21.10
«Kapò», gli orrori della guerra mostrati da Pontecorvo
In quell’anno magico per il cinema che fu il 1960, quando uscirono capolavori di Visconti, Fellini, Rossellini, De Sica, Antonioni, dobbiamo ricordarci anche di un titolo del geniale ma parsimonioso Gillo Pontecorvo che, prima del trionfo della Battaglia di Algeri, che sarà Leone d’oro a Venezia, si iscrive così in quell’utile stagione che ricordò al pubblico, dopo i classici da neorealismo, cosa furono gli orrori della guerra e della persecuzione, che furono in realtà filmati da registi soldati come Huston e Hitchcock.
Kapò entra nei campi di sterminio, in anticipo su molti documenti fra cui rimarrà storico Shoah del recentemente scomparso Claude Lanzmann. E ci racconta la storia di Edith, giovane detenuta ebrea che accetta di prostituirsi per i nazisti facendo la kapò, cioè sorvegliando le altre compagne recluse: ma è sempre l’amore che muove il destino, l’apparizione di un soldato russo che ha i connotati infelici di Terzieff. Il film che il regista di Queimada scrisse con Franco Solinas mixa la cronaca di quella barbarie (c’è sempre bisogno di un ripasso, il peggio è sempre in agguato) con un melò che rischia di cadere nel sentimentalismo pur gestito da giovani attrici di rara intensità, passione ed efficacia come la debuttante Susan Strasberg, figlia del maestro dell’Actor’s Studio, ed Emmanuelle Riva, che Resnais aveva scoperto in Hiroshima mon amour; e poi in ruoli minori, gli apporti di coproduzione nostrani, cioè Didi Perego (che ebbe il Nastro d’argento), Paola Pitagora, Graziella Galvani, Gianni Garko. Fu un successo (incassò 557 milioni di lire di allora) ed ebbe il merito morale (e talvolta poetico) d’iniziare quasi un filone sul tema anche se un articolo molto intellettuale dei Cahiers du cinèma, firmato da Jacques Rivette, stigmatizzava un movimento di macchina nella scena della morte lungo i fili dell’alta tensione, definendolo «abbietto». E questo lo si ricorda per dimenticarlo.
Kapò, 1960, di Gillo Pontecorvo