sabato 8 settembre 2018

La Stampa 8.9.18
Corbyn, antisemita e illiberale
Ecco perché è un uomo pericoloso
di Bernard-Henry Lévi


Una volta un illustre inglese ammonì così gli europei che, per sfuggire alla guerra, accettarono l’onta del nazismo: alla fine oltre alla guerra vi toccherà il disonore.
Fatte le debite proporzioni, forse oggi spetta agli europei dire ai loro partner britannici: a forza di fare giochetti, scherzare con il fuoco, mentire agli elettori e ai vostri alleati, barare con la storia e con la vostra stessa grandezza, correte il rischio di trovarvi tanto la Brexit come Jeremy Corbyn.
Sulla catastrofe che sarà (sarebbe?) la Brexit, è stato detto tutto o quasi; e ora spetta al Regno Unito correre verso l’abisso, o, come disse, questa volta un illustre francese, «ritirare la mossa».
Non sono invece sicuro che sia chiaro a tutti quale disdoro sarebbe per la patria di Disraeli e Churchill l’arrivo al potere di Jeremy Corbyn, il disastro di nuove elezioni generali dove potrebbe capitalizzare, come indicano i sondaggi, tanto sull’effetto-usura del suo avversario conservatore tanto su ciò che appare la sua «coerenza ideologica».
Jeremy Corbyn – non sarà mai inutile ripeterlo – ha molta dimestichezza con i canali televisivi iraniani, che nel 2012 si sono rallegrati, chiamandoli «fratelli», per la liberazione di centinaia di attivisti palestinesi di Hamas, molti dei quali avevano le mani sporche di sangue.
È quel parlamentare che non perde mai l’occasione per esprimere quale orgoglio sia stato per lui – un militante invecchiato subendo le pastoie di una rappresentanza politica che gli sembra forse imposta, monotona e priva di mordente – ricevere a Westminster i «compagni» di Hezbollah o incontrare e prendere un tè con un personaggio come Raed Salah, il cui principale contributo alla «causa palestinese» è avere definito gli ebrei «batteri», o «scimmie», o criminali che impastano il pane azzimo con il sangue dei «bambini non ebrei».
È un «pellegrino di pace» di cui quest’estate la stampa britannica ha scovato video terribili che lo mostrano a Tunisi, in raccoglimento su delle tombe di cui una almeno è quella di uno degli organizzatori del massacro degli atleti israeliani a Monaco, nel 1972.
È il politico poco attento che ha accettato di annoverare, tra i grandi finanziatori della sua campagna, un uomo, Ibrahim Hamami, che, dopo essere stato editorialista del quotidiano ufficiale di Hamas, si è fatto propagandista dell’assassinio all’arma bianca degli ebrei in Israele.
È il gentile amico delle arti che nel 2012, quando i londinesi scoprirono scandalizzati che su un muro di Hanbury Street, era apparso un murale dell’artista americano Kalen Ockerman che rappresentava dei banchieri dal naso adunco in cerchio attorno a una mappa del mondo a forma di Monopoli, a sua volta appoggiata sulle schiene nude dei dannati della Terra, come prima reazione protestò perché era in pericolo la libertà di espressione.
È il seguace della teoria della cospirazione che non teme, nelle interviste con la stampa iraniana, di attribuire a Israele le operazioni di «destabilizzazione» condotte «in Egitto» da «jihadisti».
Ed è lo schietto antisemita che, nel 2013, durante una conferenza dove si erano uditi appelli a boicottare la Giornata della memoria o subdoli commenti sulla possibile responsabilità degli ebrei nel massacro dell’11 Settembre è stato capace di dichiarare che i «sionisti», anche quando vivevano in Gran Bretagna «da molto tempo» o anche «da una vita», avevano una difficoltà atavica a comprendere l’«ironia inglese».
A questo dovete aggiungere la sua crassa ignoranza dei meccanismi di un’economia moderna e la sensazione che comunica, quando parla di rinazionalizzazioni, tassazione, norme anti-austerità, sistema sanitario, servizi pubblici, di essere rimasto ai tempi dell’archeomarxismo degli Anni Cinquanta.
Aggiungete poi il suo folle odio per un’America accusata di tutti i mali e alla quale, secondo uno dei suoi luogotenenti, Seumas Milne, la buona vecchia Unione Sovietica, al tempo del suo splendore e nonostante una cosa di poco conto come decine di milioni di morti, è stata utile come «contrappeso».
E non voglio nemmeno parlare del tropismo che lo porta ad allinearsi, quasi sempre, alle posizioni russe: la Siria ovviamente; il rifiuto di ritenere credibile l’ipotesi della mano del Cremlino nel tentato avvelenamento a Salisbury, dell’ex spia Skripal e di sua figlia; o ancora, poche settimane prima di assumere la guida del partito, l’affermazione che una fabbrica di notizie false come «Russia Today» era credibile almeno quanto la venerabile «Bbc».
Oggi vi sono in Occidente una manciata di leader illiberali che gioiscono alla prospettiva di un crepuscolo della democrazia e dei valori dell’umanesimo europeo.
Sono Viktor Orban in Ungheria, Matteo Salvini in Italia, Donald Trump negli Stati Uniti e Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon in Francia.
E poco importa, in realtà, che siano «di sinistra» o «di destra» perché sono d’accordo sull’idea che l’Illuminismo sia tramontato e che Putin sia il loro grande uomo.
Jeremy Corbyn è uno di loro. E la prospettiva di vederlo in carica, a rinforzo di questa oscura Internazionale, mi sembra temibile almeno quanto la Brexit.
Traduzione di Carla Reschia