sabato 8 settembre 2018

La Stampa 8.9.18
I nostri eroi in Montenegro
Militari italiani, dopo l’8 settembre si unirono ai partigiani di Tito
di Giovanni De Luna

In Tutti a casa Alberto Sordi urla al telefono il suo sconcerto perché i tedeschi si erano alleati con gli angloamericani e sparavano contro gli italiani. Quel film ha fissato per sempre la confusione e l’inconsapevolezza con cui l’Italia fascista sprofondò nel caos istituzionale e militare provocato dall’armistizio dell’8 settembre 1943. Quello che successe in patria si presentò in forme ancora più estreme e parossistiche all’estero, dove erano dislocate le nostre truppe. Soprattutto nei Balcani, la contraddittorietà e la superficialità con cui l’Esercito e la Monarchia gestirono l’armistizio ebbero conseguenze drammatiche.
All’8 settembre erano circa settecentomila i militari italiani presenti nei territori di quella che era allora la Jugoslavia. In Serbia, Croazia, Montenegro, Slovenia, Bosnia, Erzegovina, fino ai confini con l’Albania, le nostre truppe erano arrivate fin dal 1941 e per due anni avevano combattuto duramente contro la resistenza jugoslava, spesso abbandonandosi a sanguinose rappresaglie nei confronti delle popolazioni civili: «La favola del “bono italiano” deve cessare!», scrisse il generale Pirzio Biroli, governatore del Montenegro, «il soldato italiano è soprattutto un guerriero. Chi non ha voluto comprendere la generosità della mano amica, senta ora il peso del nostro pugno». Palikuci, «brucia case» fu il soprannome dato agli italiani.
Tutti contro tutti
Con l’armistizio, i vari reparti si trovarono ad affrontare - senza ordini plausibili - una situazione anomala: in Italia i fronti di lotta erano nitidi e assumevano la rassicurante configurazione di una guerra simmetrica: gli angloamericani da un lato, i tedeschi dall’altro; il Regno del Sud e la Resistenza a fianco degli Alleati, la Repubblica Sociale con i nazisti. Le scelte di campo erano nette anche per chi andò a fare il partigiano o si arruolò nella Brigate Nere.
In Jugoslavia invece si spalancò il caos di una guerra asimmetrica, un «tutti contro tutti» in un groviglio etnico, religioso, ideologico che proponeva, in quei territori, l’essenza più cruda della violenza novecentesca. Non solo serbi, croati, montenegrini, bosniaci, sloveni e le loro appartenenze nazionali; ma anche cattolici croati contro serbi greco-ortodossi e contro i musulmani bosniaci, ustascia croati e cetnici serbi schierati con gli occupanti tedeschi e italiani contro i partigiani monarchici di Draza Mihailovic e quelli comunisti guidati da Tito che combattevano dalla parte degli angloamericani. Un intreccio perverso che l’8 settembre fece emergere in tutta la sua drammatica e sanguinosa complessità e che costò alla Jugoslavia un milione di morti su una popolazione di circa 15 milioni, una percentuale seconda solo a quella della Polonia.
In questo scenario, in Montenegro, si svolse la vicenda - oggi quasi dimenticata - della Divisione Italiana Partigiana Garibaldi e di quei militari (furono ventimila, un terzo del totale, presenti in territorio montenegrino) che - in un mare di contraddizioni, incomprensioni, atti di eroismo e gesti di viltà - decisero di impugnare le armi a fianco dei partigiani di Tito contro gli ex alleati nazisti, in un’unità combattente restata integra fino al rimpatrio, avvenuto nel marzo del 1945. Le perdite oscillarono tra i 6.500 e gli 8.500 caduti. La sua storia è ora raccontata da Eric Gobetti con un libro (La Resistenza dimenticata. Partigiani italiani in Montenegro, 1943-1945, ed. Salerno, pp. 178, € 14) affascinante, maturo sul piano interpretativo, ineccepibile e rigoroso nell’uso delle fonti.
Il lavoro ripropone con grande efficacia la concitazione e le contraddizioni dei giorni immediatamente successivi all’armistizio: circa quattrocentomila uomini furono catturati dai nazisti senza colpo ferire e alcuni reparti addirittura si autodeportarono; il generale d’armata Renzo Dalmazzo ordinò alle sue truppe di trasferirsi con i propri mezzi (a piedi o in camion) «fino alle stazioni di carico», per poi salire sui treni diretti in Germania.
Una memoria mai pacificata
Altri decisero di abbandonare le armi e di consegnarsi inermi ai partigiani come mano d’opera a basso costo; qualcuno aderì alla Repubblica Sociale mussoliniana (in Montenegro furono circa un migliaio su 60 mila); altri tentarono di rientrare in Italia via mare o via terra, altri ancora si arruolarono nelle truppe di Tito.
Ne scaturì una storia aspra e difficile che, nel dopoguerra, diede vita a una memoria mai pacificata, scandita dalle fasi della Guerra fredda, dalla lacerazione del blocco comunista tra l’Urss di Stalin e il regime di Tito, dal «sospetto» che avvelenò i ricordi di quell’esperienza terribile. Gobetti si muove con grande accortezza nei meandri di questa memoria, incalza con cautela i suoi testimoni per spingerli a ricordare, consulta le carte degli archivi, i diari, le lettere, ma senza nascondersi in quelle carte, anzi manifestando con chiarezza la sua empatia per i protagonisti della storia che racconta: «nonostante la sobrietà e l’umiltà della maggior parte dei reduci, nel corso dei lunghi mesi di ricerche e di interviste ho cominciato a considerarli degli eroi. Eroi semplici, senza una motivazione forte, senza un colore politico. Forse proprio per questo mi appaiono ancora più eroici. Sono uomini con una storia comune: carne da macello per la megalomania fascista; poi abbandonati nel nulla e costretti a schierarsi; infine dimenticati nel vortice della politica dei blocchi contrapposti nel dopoguerra».
Alla fine, le vicende dei suoi personaggi (l’operaio Agostino Beccaris, i contadini Tarcisio Pelosin e Fabio Cangi, gli studenti Giulio De Agostini e Francesco Evangelista e gli altri) si dispongono come le tessere di un mosaico che restituisce completezza e chiarezza a una delle storie più dure di un secolo durissimo come il Novecento.

1. Il comandante partigiano montenegrino Peko Dapčević parla a un reparto di truppe alpine italiane dopo la resa dell’8 settembre 1943. 2. Il governatore del Montenegro, generale Pirzio Biroli, durante un giro d’ispezione negli anni dell’occupazione italiana: «La favola del “bono italiano” deve cessare!», scrisse una volta. 3. Un gruppo di capi partigiani del Montenegro