martedì 4 settembre 2018

La Stampa 4.9.18
L’ultima frontiera del sesso: a Torino la casa delle bambole hot
Oggi è la giornata internazionale del benessere sessuale, istituita dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 2010
di Nicolas Lozito


Oggi è la giornata internazionale del benessere sessuale, istituita dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 2010. Ieri nella periferia Sud di Torino ha aperto il primo bordello di sole bambole in Italia: Lumidolls. Le due notizie sono in contrasto o vanno a braccetto? È questo il sesso del futuro a cui dobbiamo prepararci?
Intanto, facciamo chiarezza su Lumidolls: situato in un’anonima piazzetta di Mirafiori, all’interno di un altrettanto anonimo palazzo grigio, per accedere alle stanze bisogna prenotare in anticipo sul sito. È completamente legale, e fa parte di un franchising europeo. Si paga sul posto, a un receptionist che si occupa anche delle due ore di pulizia della bambola. All’ingresso si può scegliere una delle tre stanze e una delle sette bambole disponibili. Alcune hanno il seno molto prosperoso, altre lineamenti asiatici. Ci sono Kate, Molly, Arisa e così via. C’è anche un bambolo: Alessandro. Mezz’ora costa 80€, un’ora 100€. Bisogna togliersi catenine e braccialetti, e mettere il preservativo. Così richiedono le regole. Discrezione, privacy e anonimato garantiti. Meno garantito è il piacere: le bambole hanno uno scheletro metallico, mentre la carne e la pelle sono in gomma termoplastica. Non stanno in piedi da sole, non si muovono. Insomma, bisogna impegnarsi. O essere parafiliaci, che non è una malattia, né un crimine: il termine si usa quando si hanno pulsioni sessuali nei confronti degli oggetti.
A Lumidolls sono arrivate tante critiche quante prenotazioni. C’è chi sostiene che sia una depravazione, o che spinga a ridurre il partner a un oggetto. Ma poi il fenomeno incuriosisce uomini, donne, coppie. Per provare o per passione. Per solitudine, come faceva Ryan Gosling nel film Lars e la ragazza tutta sua, o per goliardia. Insomma, dall’addio al celibato all’ideale del sesso futurista.
Ma la verità è che di futuro non si può parlare davvero: siamo ancora lontani dal «Future sex» di cui scrive Emily Witt nel suo libro sulle avanguardie della sessualità. Male, perché forse il mondo ha bisogno di più robot sessuali animati e meno sfruttamento della prostituzione e massaggi con il «finale felice». Bene, perché sdoganare la bambola Kate può scatenare un avvenire terribile. La violenza (molte bambole vengono distrutte), la perdita di sentimenti verso persone reali, la deriva simil-pornografica, soprattutto tra i giovani. O per evitare, più prosaicamente, scene come quelle di Woody Allen e il suo esorcismo a un enorme seno di silicone in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso.
L’Organizzazione mondiale della sanità per promuovere la giornata del benessere sessuale usa questo slogan: “Let’s talk about it”, parliamone. Ecco, dobbiamo parlarne, con tutti i dettagli. E forse anche provare, giocare, scoprire. Da soli e in coppia. Togliere i tabù, ma non imitando i modelli sbagliati né auto-assolvendo ogni peggiore comportamento. Perché è meglio che la libertà sessuale ci deluda nei fatti piuttosto che ci illuda nei pensieri. E perché il sesso può essere pulsione di plastica, ma è soprattutto felicità reale.

La Stampa 4.9.18
Otto bambole in tre stanze
Ecco la casa del sesso 2.0
Le sex-doll sono realizzate in materiale termoplastico, con un’anima in acciaio pieghevole e snodabile
di Irene Famà


La parola d’ordine è discrezione. I clienti della LumiDolls, la prima casa d’appuntamenti con bambole inaugurata ieri in Italia, a Torino, non vogliono essere riconosciuti. Arrivano quasi tutti in auto. Occhiali da sole. Camminano svelti. I responsabili garantiscono l’anonimato: per conoscere l’indirizzo, tenuto rigorosamente segreto, bisogna registrarsi via internet. «Verrà inviato un messaggio il giorno prima dell’appuntamento» spiegano i titolari. Anche loro vogliono rimanere sotto traccia e pure il luogo scelto risponde ai canoni di riservatezza.
Uno stabile grigio, anonimo, con il muro scrostato, che passa inosservato tra i palazzoni dei tanti cortili privati della periferia Sud della città. Saracinesche tirate giù, nessun campanello, nessuna insegna. Anche i vicini devono rimanere all’oscuro. Il primo amante del genere arriva in mattinata, su un’utilitaria colore grigio. Sta dentro un paio d’ore. Poi esce, si accende una sigaretta, sale in macchina e va via veloce. Raccontare l’esperienza? Inutile provare a chiederlo. Nel corso della giornata ne arrivano altri cinque. L’età media è tra i 35 e i 40 anni. Persone comuni: un uomo calvo, sportivo, con jeans e maglietta attillata. Un giovane sulla trentina, probabilmente in anticipo sull’appuntamento, cammina avanti e indietro. Telefona. Ride. Poi entra. Tra i primi ad appartarsi con le bambole di lattice c’è anche una donna. E una coppia a bordo di una Bmw. Lei ha un tatuaggio sulla mano, è bruna, ha i capelli lunghi e ricci. Lui sembra avere una decina di anni in più. Stanno dentro una trentina di minuti. Al costo di 80 euro ogni mezz’ora (che salgono a cento ogni ora, mentre per le richieste speciali la tariffa si può concordare), il cliente può scegliere la sua sex-doll: sette femmine e un maschio di nome Alessandro. Le bambole sono realizzate in materiale termoplastico, con un’anima in acciaio, pieghevole e snodabile. Al momento, la più gettonata è Eva: 1.48 d’altezza per 29 chili, capelli castani, trucco vistoso e forme mediterranee.
«Una roba da pervertiti» commenta qualcuno. «L’ultima frontiera del sesso libero - ribattono altri – Se è tutto legale, che male c’è?». Comunque la si pensi, l’idea sembra funzionare. Tutto è esaurito sino ai primi di novembre e da varie parti d’Italia sono arrivate 160 richieste per aprire altre sedi. Da fuori, la casa del piacere è piuttosto spoglia. Dentro è arredata di tutto punto. Le stanze sono tre, con doccia e tv che, a richiesta, trasmette programmi a luci rosse. E chi si occupa della pulizia, ha seguito un corso specifico in Spagna. «È una procedura lunga, ma ho pulito cose peggiori» scherza il 26enne alla reception, ex dipendente di una birreria. «Un bilancio del primo giorno? Positivo. All’inizio eravamo più imbarazzati noi dei clienti. È andato tutto liscio - assicura - Le ragazze non si sono lamentate».

Il Fatto 4.9.18
Vito Mancuso: “La Curia non dimentica. Arriverà un anti-Francesco”
“La Chiesa è come uno yogurt scaduto. È fuori dal tempo. Come diceva il cardinal Martini è indietro di almeno duecento anni”
di Antonello Caporale


Sesso, soldi e sangue. Delle tre esse che i maestri di giornalismo del Novecento indicavano come fattore propulsivo per ogni avventura editoriale, almeno due – sesso e soldi – sono le questioni che tengono inchiodata la Chiesa alla sua coscienza periclitante, alla verità ufficiale esausta e precaria, alla miseria di parte del suo clero, ai veleni dei suoi corvi.
Vito Mancuso è il teologo italiano che con più nettezza e severità osserva e indaga la realtà cattolica.
La salvezza della Chiesa passa dalle donne, dalla energia che esse custodiscono e non sono messe in condizione di liberare, e dall’abolizione del voto di castità, che oramai è insostenibile.
Si pensava che Papa Francesco potesse salvare la Chiesa.
Era attesa la palingenesi e grande fu l’ammirazione per il sovvertimento anche simbolico: anzitutto la scelta di chiamarsi Francesco, il rifiuto di indossare i paramenti papali, di dormire nel vistoso appartamento a lui destinato, di viaggiare nelle berline da capo di Stato. L’attesa si è gonfiata di speranza, la speranza è stata tenuta in vita poi dalla suggestione. Infine, il principio di realtà è prevalso.
Abbiamo lasciato Ratzinger con i corvi che volteggiavano, troviamo Bergoglio avvelenato dalle accuse di monsignor Viganò. Uno scandalo eterno.
Eravamo abituati a un Papa che non aveva necessità di precisazioni, mezze ammissioni e mezze marce indietro. Ora, 5 anni dopo, l’effetto rinculo. Francesco non mostra più di avere la forza di liberare la Chiesa dal suo male: una gerarchia egocentrica e dalla potenza straripante, un clero che sta seppellendo la sua missione tra mille porcherie.
Il Papa non piace più?
Si fa incerta la sua voce, gli anni passano e anche il suo volto è meno luminoso. La missione resta quella, il cammino perde attrito.
Anche Francesco cadrà?
La Curia non dimentica che questo Papa ha esercitato il suo magistero attaccando il clericalismo. Dovessi scommettere, direi che sì: un anti Francesco è prevedibile nel prossimo futuro.
Anche la sua figura resterà irretita da questo clima così scuro, così infido?
Non uno, non due, non tre casi. Ma in centinaia, anzi in migliaia si contano gli abusi ai danni dei minori. A questo quadro fatto di perversioni si aggiunge una realtà non meno terribile e conosciuta: quanti preti hanno amanti stabili? Quanti poi lasciano il sacerdozio per una vita di coppia? Quanti, dunque, vivono nel peccato?
Il voto di castità è perciò insostenibile.
È il principio di realtà che impone alla Chiesa di vivere il nuovo tempo decretando la rottura.
Forse inquieta il timore di un nuovo scisma.
Nel 1965, quando si annunciò il principio della libertà religiosa, la Chiesa subì l’abbandono dei lefebvriani. Ma se ci si incammina insieme, coinvolgendo il popolo della Chiesa, il prezzo sarà meno salato della stasi attuale.
Chiesa senza popolo.
In Occidente oramai è così. Nella mia Bologna ci ritroviamo in messa in 25 alla domenica dentro mura maestose. Io chiedo: e tra dieci anni chi ci metterà più piede? La fede si trasmette soprattutto in famiglia. Ma le nuove famiglie non conoscono la Chiesa, non la riconoscono più.
Il vescovo di Philadelphia ha chiesto di non fare il Sinodo sui giovani.
Cosa diciamo loro? Non siamo più credibili. La Chiesa è come uno yogurt scaduto. È fuori dal tempo. Ricordo le straordinarie parole del cardinal Martini: la Chiesa è indietro almeno di duecento anni. Era la verità. Resta la verità.
Con un problema in più: nemmeno il Papa che si chiama Francesco, che rifiuta ogni privilegio, che parla al popolo, riesce a non farsi sporcare dallo scandalo. Ricorda la fase declinante di Ratzinger?
Quello era un papato aristocratico. Benedetto XVI non cercava l’applauso popolare, non se ne curava, non gli interessava proprio. E quando capì di non avere le forze per proseguire lasciò. Francesco invece è stato chiamato a dire la verità, anche la più cruda seguendo l’insegnamento di Gesù. Egli non vide la folla attorno a sé piano piano assottigliarsi man mano che le sue parole si facevano più dure? Non chiese ai suoi apostoli: anche voi volete andare? E Pietro rispose: Signore, da chi andremo?
Sembra che la verità invece si allontani dal cammino di Francesco, si faccia addirittura ostile.
Diciamocelo, perché il peccato più grande è l’ipocrisia. Le porcherie nel ventre malato della Chiesa le conoscevano tutti. Così vasta e cronicizzata la malattia che nessuno può chiamarsi fuori. Le cose cattive vengono sempre a galla, e a farne le spese sono i tanti parroci bravi, operosi, impegnati a trasmettere la fede e a svelare il mistero di Dio. Perché la Chiesa ha la missione della preghiera, della riflessione, di avanzare nel mistero.

Il Fatto 4.9.18
Un dossier sul vescovo Farrell. Nuova “bomba” in Vaticano
Uomo di Bergoglio, ha convissuto per anni con il cardinale dello scandalo McCarrick
di Francesca Fagnani


Nella Chiesa è in corso una guerra civile violentissima e senza precedenti, che investe il Pontefice. Il documento scritto dall’arcivescovo Carlo Maria Viganò, in cui papa Francesco è accusato di aver taciuto gli abusi compiuti dall’ex cardinale e arcivescovo di Washington, Theodore McCarrick, ha fatto il giro del mondo. Ma presto potrebbe scoppiare un’altra bomba. Secondo fonti qualificate vicine alla Congregazione per la dottrina della fede, ci sarebbe un dossier anche sul vescovo Kevin Joseph Farrell.
Nominato da Bergoglio motu proprio nel 2016 a capo del nuovo Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, è di fatto il religioso americano più alto in grado in Curia. Già membro dei Legionari di Cristo, Farrell fu nominato vescovo ausiliare di Washington proprio perché fu McCarrick a volerlo come vice: i due avrebbero fatto parte del “cerchio magico” di papa Francesco. Ma non solo. Avrebbero anche condiviso per anni lo stesso appartamento, vivendo insieme. Come poteva allora non conoscere Farrell le pratiche sessuali di McCarrick? Cosa c’è in questo dossier su Farrell? Il Papa e il segretario di Stato, solitamente a conoscenza di tutti i fascicoli aperti dal Tribunale della Congregazione, come è possibile non sapessero nulla? E l’alta nomina di Farrell è successiva o precedente all’apertura di questo fascicolo? Lo storico Roberto De Mattei, tra i massimi esperti di Vaticano, noto per le sue posizioni tradizionaliste, aggiunge un tassello: “Il legame tra i due prelati era noto ma mai chiarito. Dietro al silenzio di papa Francesco e del segretario Parolin potrebbe esserci dell’altro”. Ovvero? “Conosco personalmente Viganò, è uomo onesto e giudizioso. Sono certo che tutto quello che dice è vero. Probabilmente sa di più. Com’è noto, esiste quel famoso rapporto dei tre cardinali (Herranz, Tomko, De Giorgi) sulla corruzione morale, e non solo, all’interno della Curia, consegnato a Ratzinger prima delle dimissioni. Questo rapporto è conosciuto da Francesco e da un numero limitato di persone. Cosa accadrebbe se venisse pubblicato?”.

Repubblica 4.9.18
Il caso Barbarin
Il cardinale a processo che imbarazza la Chiesa francese
L’arcivescovo di Lione Philippe Barbarin, 67 anni, è accusato di aver coperto abusi. Affronterà presto un processo
100 mila firme per la petizione che chiede le dimissioni
di Anais Ginori


PARIGI È una situazione che sta diventando sempre più imbarazzante per la Chiesa francese. Il cardinale Philippe Barbarin, rinviato a giudizio nell’ambito dell’inchiesta sui presunti abusi avvenuti nella diocesi di Lione, dovrà affrontare presto un processo. Non solo. Da qualche settimana, Barbarin è al centro di un appello a farsi da parte lanciato online da un prete della diocesi di Valence che ha già superato 100mila firme: un record. Barbarin è accusato di essere stato a conoscenza degli abusi di un prete su giovani scout – avvenuti tra gli anni Ottanta e Novanta – ma di averli a suo tempo coperti. Lui ha sempre negato, anche se ha riconosciuto errori nella gestione dello scandalo e chiesto pubblicamente scusa alle vittime. «Se ha riconosciuto l’errore perché restare al suo posto? » , domanda Pierre Vignon, il prete che ha pubblicato la petizione per convincere Barbarin alle dimissioni. «Non voglio essere considerato un complice», tuona Vignon.
Qualche giorno fa, hanno risposto sul giornale La Croix il vescovo di Blois, Jean-Pierre Batut, e quello di Valence, Pierre-Yves Michel, per sostenere monsignor Barbarin. « Deve continuare la sua missione come arcivescovo di Lione » , hanno scritto i due monsignori. Eppure nell’attuale clima, le voci in difesa del cardinale francese sono poche.
Le Parisien raccoglieva ieri confidenze anonime che segnalavano un disagio crescente nelle alte gerarchie. Il Papa finora non si è pronunciato sul caso francese e, secondo le associazioni delle vittime, il Vaticano è ancora poco chiaro e collaborativo sull’inchiesta.
Il processo previsto a gennaio potrebbe essere rinviato proprio a causa della Santa Sede. Da Roma infatti non è ancora arrivata nessuna risposta sulla richiesta di far partecipare al processo Luis Francisco Ladaria, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, rinviato a giudizio assieme al cardinale Barbarin e altre cinque persone. Secondo alcune ricostruzioni, Ladaria sarebbe stato messo a conoscenza dello scandalo da Barbarin, avrebbe sollecitato di fare " pulizia" nella diocesi chiedendo però di minimizzare la vicenda. L’assenza di risposta da Roma sulla sua presenza o meno di Ladaria al tribunale di Lione fa aleggiare incertezza sulla procedura.

Repubblica 4.9.18
Le riflessioni di Zygmunt Bauman
Il lato oscuro della nostra Europa
Quando il futuro si trasforma in un incubo
di Roberto Esposito


L’Europa dell’abbondanza e della libertà era la luce verso la quale si dirigevano i popoli alle sue frontiere esterne. Una luce abbagliante. Ma quando gli occhi si furono abituati e i contorni delle cose divennero di nuovo visibili, ciò che apparve fu un tunnel buio». Chi altri, se non Zygmunt Bauman, ancora a metà degli anni Novanta, poteva avere uno sguardo così penetrante da anticipare quanto sarebbe accaduto parecchio più tardi? Chi altri poteva prevedere, come lui, che l’Europa avrebbe rapidamente visto nei popoli liberati dal regime sovietico la minaccia di una massiccia immigrazione ed eretto «in fretta e furia nuove e più efficaci barriere di confine»? Se c’è qualcosa che caratterizza l’intera opera del grande sociologo – riduttivamente ancorata alla troppo citata metafora della società liquida – è la straordinaria capacità di cogliere il negativo che percorre ogni fase della civilizzazione. Esso ne costituisce insieme il motore e il rischio, la sfida e la potenziale deriva.
Di questa capacità diagnostica il libro di Bauman, Il disagio della postmodernità (ora riedito da Laterza), fornisce un’ennesima testimonianza esemplare.
Rispetto al celebre scritto di Freud, di cui ricalca il titolo, esso sposta l’angolo visuale dalla modernità alla postmodernità, sporgendosi anche oltre di essa, fino a lambire i nostri giorni.
L’analisi di Bauman – centrata sulle figure dello straniero, dell’artista, del vagabondo, del paria, in un dialogo continuo con i grandi scrittori e filosofi contemporanei – ha un andamento sempre comparativo.
A confrontarsi sono i caratteri sintomatici della società moderna con quelli della stagione che allo stesso tempo la prolunga e la supera, deformandone i connotati. In entrambi i casi è in atto una sorta di compromesso, sempre rinegoziato, tra vantaggi e rinunce, soddisfazioni e sofferenze. Come ha insegnato Freud, la civiltà moderna è edificata sulla repressione delle pulsioni immediate, soprattutto sessuali e aggressive, necessaria a garantire l’ordine, ma anche la pulizia e la bellezza assenti nelle epoche precedenti. A un certo punto, tuttavia, quegli stessi valori si sono rovesciati in impulsi distruttivi. Così dalla ricerca della purezza a ogni costo si è arrivati alla sindrome razzista che, in particolare col nazismo, ha portato prima ad espellere e poi ad annientare coloro che sembravano contaminare il sangue tedesco. In questo modo si è realizzato il detto freudiano che il cocchio della modernità è guidato da Thanatos.
La postmodernità nasce da una diversa attitudine. In essa lo scambio tra libertà individuale e sicurezza non pare più accettabile perché troppo gravoso. Il principio di realtà è scavalcato, nella sensibilità postmoderna, da quello del piacere, che si erge a tribunale supremo dei comportamenti umani. Ogni coazione, ogni sacrificio, appare un’aggressione ingiustificata al libero accesso a un godimento potenzialmente illimitato.
Tuttavia anche in questo caso il negativo torna a reclamare la sua parte. Intanto perché, come ben sapeva Simmel, ogni valore appare tale solo se, per ottenerlo, bisogna rinunciare a qualcos’altro. La stella della libertà non splende mai tanto quando si è costretti a sacrificarla sull’altare della sicurezza. Gli uomini godono solo di qualcosa che contrasta con quanto hanno e che proprio per questo non li soddisfa più. Perciò quella felicità che i postmoderni bramano non è che una fuggevole impressione che balena nell’attimo del cambiamento. Non solo, ma l’uomo postmoderno finisce per pagare un prezzo assai alto alla perdita della stabilità moderna. La fluidità della deregulation, rispetto ai solidi canoni della stagione precedente, provoca confusione e ansietà, incertezza e smarrimento.
La cultura di Bauman – imparagonabile alla povertà della sociologia quantitativa di matrice anglosassone – gli consente di sperimentare il passaggio di paradigma dal moderno al postmoderno in tutti gli ambiti della vita: dall’arte all’apprendimento, alla medicina, all’informatica, alla religione.
Senza però mai smarrire il baricentro del proprio discorso, incentrato sempre sul rapporto tra inclusione ed esclusione, identità ed estraneità. Da questo lato la prospettiva di Bauman si allunga verso le minacce e le sindromi del nostro tempo, di cui il libro indaga la genealogia profonda. Lo "straniero" – nella comoda veste del turista, in quella drammatica del migrante e in quella tragica del rifugiato – è il prodotto artificiale delle società con cui viene a contatto. Da sempre ogni società crea il "proprio" straniero – vale a dire qualcuno che non è collocabile nella propria mappa cognitiva, estetica e morale. Egli, nella sua diversità reale o immaginaria, costituisce una chiazza opaca nel quadro limpido delle culture nazionali. Così nascono i fondamentalismi e gli integralismi, che promettono ai loro convertiti di liberarli da una libertà difficile da sostenere perché confliggente con l’utopia di un ordine definitivo, come l’autore sostiene nel precedente Stranieri alle porte (Laterza).
La ferita sempre più profonda inferta al tessuto sociale da un mercato privo della necessarie tutele innesca un circuito perverso in cui un’"economia politica dell’impazienza" finisce per prevalere sull’"economia politica della speranza". Qua il discorso di Bauman entra in contatto diretto con quanto accade oggi in tutta l’Europa – con una proterva punta in Italia.
L’utopia moderna e anche postmoderna s’incurva in una fosca "retrotopia" – è il titolo del suo ultimo libro (Laterza 2018) – che fugge dal presente alla ricerca di una presunta età dell’oro.
Quando ormai il futuro si è tramutato in incubo, non resta che rifugiarsi nel cono d’ombra di un passato mai esistito come tale. Ma ciò – è l’insegnamento che l’opera e la vita stessa di Bauman ci trasmettono – non arriva mai a chiudere definitivamente la porta alla speranza. A patto che non si rimuova la forza ambivalente di un negativo che non smetteremo mai di fronteggiare.

il manifesto 4.9.18
L’imperativo etico del soccorso
Salvini/Migranti. La Costituzione riconosce a tutti gli individui i diritti fondamentali e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà. Non solo le prescrizioni del diritto, ma anche l’etica fondamentale per cui gli italiani vantano la loro umanità richiede di considerare ogni essere umano come persona, da rispettare nella sua individuale dignità: non numero anonimo in una massa, ma persona
Giovanni Maria, Flick Luigi Manconi, Vladimiro Zagrebelsky


Gli Stati di diritto e le società civili si distinguono da quelli barbari per il fatto che accettano limiti. Accettano e si impongono l’idea che vi son cose che non si possono fare, mai, in nessuna circostanza, per nessun motivo. Ma il governo italiano ha preteso di fare gli interessi dei cittadini usando i corpi di oltre un centinaio di persone in fuga da paesi in guerra, per cercare di costringere altri paesi europei a farsene carico.
Di fronte a quanto accade l’opinione pubblica si divide tra chi prova vergogna e chi è incapace di vergogna.
La Costituzione riconosce a tutti gli individui i diritti fondamentali e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà. Non solo le prescrizioni del diritto, ma anche l’etica fondamentale per cui gli italiani vantano la loro umanità richiede di considerare ogni essere umano come persona, da rispettare nella sua individuale dignità: non numero anonimo in una massa, ma persona. A ciascun individuo si riferiscono i precetti di non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te (Vangelo) e di non usare le persone altrui come mezzo, anziché come fine (Kant). La posta in gioco è grande e terribile.
A venir insidiato è l’imperativo etico del soccorso a chi si trovi in pericolo. Un’obbligazione giuridica e politica che viene prima di ogni ordinamento e di ogni norma e che è alla base dei processi di formazione delle comunità e delle organizzazioni sociali. Secondo l’articolo 10 della Costituzione italiana, lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica.
Quello straniero non può essere respinto, ancor meno con un provvedimento collettivo, verso un paese non riconosciuto dalle convenzioni internazionali come “luogo sicuro”. Secondo il rapporto Guterres, reso pubblico dalle Nazioni Unite nel marzo del 2018, nei campi della Libia si consumerebbero quotidianamente torture, stupri, violazioni sistematiche dei diritti fondamentali della persona. È verso questo scenario di orrore che vogliamo indirizzare i profughi che l’Italia e l’Europa dichiarano di non poter accogliere?

Corriere 4.9.18
Nei sondaggi il Carroccio avanza È sopra i 5 Stelle
di G. A. F.


La conferma arriva dall’ultimo sondaggio targato Swg diffuso ieri dal Tg La7 diretto da Enrico Mentana. Il movimento di Matteo Salvini, almeno stando a quest’ultima rilevazione, resta il primo partito italiano con il 32,2%. A seguire il M5S con il 28,3%. Dal 30 luglio al 3 settembre le truppe del ministro dell’Interno fanno segnare una variazione positiva e consolidano il primato. Se si confrontano le intenzioni attuali con quelle dello scorso 30 luglio, oltre alla crescita della Lega (+1,9%) e alla flessione del M5S (-1,4%), emerge anche il segno più del Pd che dal 17,4 passa al 17,7%, e un lieve calo di FI che si attesta al 6,9%.
«Non ci credo, è un dato troppo in alto», commenta Salvini. Ma anche il sondaggio firmato da Nicola Piepoli per il sito Affaritaliani.it conferma il primo posto della Lega. Secondo l’istituto, se si votasse oggi, il Carroccio otterrebbe il 30%, contro il 29% del M5S. La ragione del vantaggio è legata, spiega Piepoli, «a due eventi negativi: Genova e la nave Diciotti». «La Lega se ne è avvantaggiata di più rispetto ai Cinque Stelle perché ha avuto una maggiore evidenza mediatica». Eppure nonostante il contesto favorevole Piepoli mette in guardia: «Quando c’è una differenza di un punto non contano i numeri. I due partiti sono equipollenti. La vitalità della Lega è di vertice, quella del M5S di corpo, ovvero diffusa nel Paese. A questo punto è difficile stabilire chi è più forte o più debole».
Vox Populi, il monitoraggio settimanale di Gpf-Inspiring Research, descrive uno scenario diverso. Il M5S è quotato al 31,8% contro il 30,8% della Lega di Salvini. Quanto agli altri partiti, si registra il 15,5% del Pd, l’11,3% di Forza Italia, il 4,4% di Fratelli d’Italia, il 2,5% di Liberi e Uguali e l’1,6% di Più Europa. Una curiosità: fra i membri dell’esecutivo chi ottiene l’indice di gradimento più elevato è il premier Giuseppe Conte con il 53%. Seguono Salvini con il 52% e Di Maio con il 51%. Il primato però resta del capo dello Stato Sergio Mattarella, quotato al 62%.

Il Fatto 4.9.18
Sorpasso di governo, Salvini stacca di quattro punti il M5S
E si riparla di strappo. Luigi Di Maio risponde attaccando su pensioni e infrastrutture e sospetta che l’alleato faccia saltare il governo dopo le Europee
di Luca De Carolis


Il premio per il cattivo che vuole esserlo è servito, pochi giorni dopo il dramma della nave Diciotti. E racconta che la Lega di Matteo Salvini sfonda il 30 per cento nei sondaggi. E che il prezzo lo paga innanzitutto l’alleato che rifiuta di dirsi tale, il M5S, lasciato a quattro-cinque punti di distacco. E che non a caso ora pretende il reddito di cittadinanza (quasi) tutto e subito e celebra l’imminente disegno di legge anticorruzione come “una rivoluzione”, perché sa di essere troppo dietro. Anche per l’effetto del caso Diciotti, su cui ieri il presidente della Camera Roberto Fico, il grillino rosso, è tornato a fare opposizione dal palco della Festa dell’Unità: “Dalla nave tutte le 179 persone dovevano scendere il primo giorno e non si doveva aspettare tutto questo tempo”. E sono stati applausi, dal popolo dem che lo ha accolto con simpatia. Ma Salvini avrà alzato le spalle.
Anche perché secondo il sondaggio della Swg diffuso ieri dal Tg de La 7, la Lega lievita al 32,2 per cento, sopra di quattro punti rispetto ai 5Stelle, “fermi” al 28,3. Mentre quasi non esiste il resto, con il Pd al 17,7 per cento e Forza Italia che sprofonda al 6,9. Soprattutto, un ipotetico centrodestra, con la Lega e ciò che rimane di Fi assieme Fratelli d’Italia, sarebbe sopra il 43 per cento. Così è ovvio pensare che Salvini avrebbe ottime ragioni per fare ciao ai 5Stelle e tornarsene a destra, per prendersi Palazzo Chigi. D’altronde c’è un altro sondaggio, quello della Lorien del 27 agosto (due giorni dopo lo sbarco dei migranti dalla Diciotti) che vede il centrodestra sopra il 45 per cento. E una Lega al 31,7, a fronte di un M5S al 26,8: cinque punti sotto, il margine più ampio mai registrato. Musica per il leghista.
Ma il Movimento? Dai piani altissimi ostentano indifferenza: “I sondaggi valgono quello che valgono, e poi il più bravo è Nando Pagnoncelli…”. Il capogruppo in Senato Stefano Patanuelli invece sostiene: “A me pare che il sondaggio dica chiaramente che i cittadini approvano l’azione di tutto il governo, e che la Lega tolga consensi soprattutto a Forza Italia. Dopodiché, noi 5Stelle cresciamo sempre molto in campagna elettorale”. Ma far resuscitare il centrodestra è una tentazione, per Salvini…“Secondo lei esiste ancora un centrodestra?”. Poi c’è il deputato Andrea Colletti, un veterano: “I sondaggi sono la spia di un trend. Prevedibile, perché Salvini parla ovunque, e sempre di migranti…”.
Più o meno come Fico, che ieri ha giurato: “Non me ne frega niente di fare polemica con Salvini. Il M5S io l’ho costruito, lo conosco, e so che nel contratto di governo si muove ma troppo al di là non si potrà più muovere”. Un paletto per il capo politico e vicepremier, Luigi Di Maio. A cui il grillino della prima ora ha ricordato quanto sia diverso da lui e da Salvini: Non tollero che sull’immigrazione si parli con la pancia”. Poi però ci sono i conti, quelli che si è fatto proprio Di Maio. Perché nei giorni a ridosso del caso Diciotti ha avuto un sondaggio secondo cui il 73 per cento degli italiani era d’accordo con la linea di Salvini.
Così il vicepremier ha sostenuto il no alla sbarco, nonostante i tanti mal di pancia anche nel M5S. Ed è sempre per non perdere terreno con il Carroccio che ha giocato di ambiguità sullo sforamento del rapporto del 3 per cento tra deficit e Pil, come il leghista Giancarlo Giorgetti. Però nel contempo Di Maio e i suoi hanno deciso di accelerare sul proprio totem, il reddito di cittadinanza. Da distribuire già nel 2019, e saluti all’impegno di realizzare prima la riforma dei centri per l’impiego e poi partire con l’erogazione dei soldi. “Troveremo le coperture per aiutare 5 milioni di poveri” ha scandito dal palco della festa del Fatto il vicepremier. Da alcuni giorni pungente, nei confronti della Lega. “Siamo diversi, e non andiamo d’accordo su molte cose” ha ripetuto. Soprattutto, ha alzato la voce sul taglio delle pensioni d’oro, invocando “il rispetto del contratto di governo”. E ha morso Salvini sulle infrastrutture.
Perché sempre alla Versiliana è tornato barricadero (“Il M5S è e sempre sarà sempre No Tap”) accusando la Lega di “voler fare il gasdotto”. E ha lasciato che un dimaiano come Jacopo Berti, il capogruppo in Veneto, accusasse il governatore leghista Zaia di fare un regalo “peggiore di quello fatto ad Autostrade a Genova” con la concessione per l’autostrada Pedemontana a un consorzio privato. Segnali bellici. Perché Di Maio sospetta davvero che Salvini possa strappare dopo le Europee, dopo aver incassato un fiume di voti . Così, meglio ricordare le differenze. E insistere sui propri temi, per recuperare nella base. Perché imitare l’alleato sui migranti non è bastato.

Corriere 4.9.18
Diciotti, cade per Salvini l’accusa di arresto illegale Possibili nuove indagini
di Giovanni Bianconi

PALERMOIl problema è dover decidere senza poter fare indagini, ma è ciò che prescrive la legge. Sia per quanto riguarda i reati da contestare al ministro dell’Interno Matteo Salvini, sia per chi dovrà eventualmente giudicarlo. Per questo di qui alla fine della prossima settimana il procuratore di Palermo Franco Lo Voi, l’aggiunto Marzia Sabella e gli altri magistrati dell’ufficio dovranno studiare le carte arrivate dalla Procura di Agrigento e stabilire con quali richieste trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri nel procedimento a carico del titolare del Viminale finito sotto inchiesta (insieme al capo di gabinetto Matteo Piantedosi) per il trattenimento illegittimo di 177 migranti a bordo della nave militare Diciotti. E ieri, al secondo piano del palazzo di giustizia, ci sono state le prime, lunghe riunioni.
Il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ha individuato cinque possibili accuse — al termine di una breve istruttoria, necessariamente incompleta poiché anche lui s’è dovuto fermare di fronte alla supposta responsabilità ministeriale — ma alcune sono alternative tra loro. A cominciare dalle più gravi. Il sequestro di persona «semplice», ad esempio, cadrebbe se venisse confermato il sequestro di persona «a scopo di coazione», introdotto con il recente articolo 289-ter del codice penale; reato punito con una pena più pesante, che rientra nella categoria dei «delitti contro la personalità dello Stato» (quelli solitamente contestati ai terroristi) e finirebbe per assorbire l’altro tipo di sequestro compreso fra i «delitti contro la persona».
Inoltre, un’eventuale imputazione per il 289-ter potrebbe non rimanere confinata al solo Salvini, giacché il presunto «ricatto» agli organismi europei per costringerli a farsi carico dei migranti «sequestrati» a bordo della Diciotti sarebbe stato rafforzato dalle contemporanee o successive dichiarazioni di altri componenti del governo: il presidente del Consiglio Conte, l’altro vicepremier Di Maio, il ministro dei Trasporti Toninelli. Sono ipotesi da valutare sulla base degli elementi già raccolti, fatta salva l’autonomia dell’attività politica e di governo; è dunque possibile che nel suo ruolo «classificatorio, sollecitatorio e di impulso» (così lo definisce la dottrina) la Procura chieda al Tribunale dei ministri di prenderle in considerazione attraverso ulteriori accertamenti che solo a quell’organismo sono consentiti.
Un altro reato inizialmente considerato dalla Procura di Agrigento era l’arresto illegale, che però è stato escluso poiché presuppone l’esistenza di un provvedimento (l’arresto, per l’appunto) che in questo caso non c’è. Anzi, l’accusa di sequestro deriva proprio dal fatto che i migranti sono stati costretti a rimanere sulla Diciotti in assenza di un provvedimento motivato di chicchessia; tutto sarebbe avvenuto, secondo ciò che è stato ricostruito finora, sulla base di ordini e indicazioni trasmesse a voce.
Gli altri reati configurati, omissione di atti d’ufficio e abuso d’ufficio, sono «residuali»; in particolare il secondo, previsto quando non sussistano accuse più gravi. E in tal caso il peso anche politico di tutta la vicenda verrebbe ridimensionato. Ma non sono queste le preoccupazioni di una Procura che deve limitarsi a un «preventivo inquadramento giuridico della fattispecie» prima di trasmettere il fascicolo al tribunale dei ministri, il quale diventerà il dominus e deciderà in totale autonomia. Anche sui capi d’imputazione e sulla competenza: se il trattenimento dei migranti (illegale perché non dovuto a motivi tecnici o di altra natura) è cominciato al largo di Lampedusa il giudizio spetterà ai giudici di Palermo; se invece il mancato approdo era giustificato e l’ipotetico sequestro si è verificato a Catania, allora le carte dovranno ripartire per la città etnea. Dove, eventualmente, un altro Tribunale dei ministri dovrà rivalutare tutto daccapo.

il manifesto 4.9.18
Alla sinistra serve un segno di discontinuità e di rottura col passato
Scenario. È legittimo pensare che il divorzio tra la sinistra ed il suo popolo sia cominciato con l’esperimento sbagliato del Partito Democratico e che, quindi, occorra ben di più delle formulette sull’unità che è meglio della divisione o sulle alleanze per battere il nemico di turno che più larghe sono meglio è, senza mai dire una parola sulla redistribuzione di redditi e lavoro, sulla progressività fiscale, sui diritti nel lavoro ed al lavoro.... Se il problema fosse così semplice e solo di buona volontà il problema non ci sarebbe
di Aldo Carra


Una crisi lunga 10 anni. Esattamente nella seconda parte del 2008 deflagrava la crisi economica e finanziaria che, in Italia, ci trasciniamo ancora oggi. Sì, in Italia, perché noi siamo l’unico paese europeo ancora lontano  dai livelli di Pil pre-crisi (-5%).
È vero che gli occupati come numero hanno raggiunto i livelli del 2008, ma si tratta solo di un abbaglio statistico: sono aumentati, ma lavorano di meno – non per scelta, ma perché più precari e sottoccupati – ed il loro impiego in ore lavorate è ancora inferiore del 5%. Adesso, lo ha confermato l’Istat ieri, diminuiscono sia i disoccupati che gli occupati perché aumentano gli scoraggiati.
SERVE ALTRO PER CAPIRE perché ci sono più disuguaglianze, più povertà, relativa ed assoluta e, quindi, più amarezza, più rabbia, meno umanità e più intolleranza? Se non ci diciamo questa amara verità non  possiamo capire perché siamo anche, in Europa, il paese col peggior quadro politico: unico con una maggioranza di governo larga, ma formata da due populismi e senza alternative possibili in vista.
Sarà questo il nuovo scenario politico italiano? Due populismi alleati oggi per guidare la transizione verso un bipolarismo tra populismi domani? Per quanto i grandi schieramenti politici e sociali di sinistra e destra siano stati scompaginati dai processi oggettivi di globalizzazione e finanziarizzazione  e da quelli soggettivi di conversione anche delle sinistre al neoliberismo,  penso – e spero – che il nuovo assetto non sia stabile e che possano aprirsi prospettive diverse.
Se, infatti, la prepotente irruenza di Salvini sta occupando tutti gli spazi liberi a destra, la stessa cosa non può dirsi  per il M5S. Qui la gestione Di Maio sta mostrando tutti i suoi limiti e, mentre la Lega, nei pochi mesi di governo, ha quasi raddoppiato il suo 15%, il M5S ha perso qualche punto ed annaspa ad inseguire Salvini nelle sue performance quotidiane. Quasi certamente, quindi, tra poco assisteremo al sorpasso della  Lega ed all’arretramento del M5S non tanto per un ritorno di elettori a sinistra, ma per altra astensione da delusione.
D’ALTRA PARTE è pressoché impossibile che questo M5S possa occupare, come avviene a destra, tutta l’area progressista fino alla sinistra. È più probabile, invece, che avremo una sottorappresentazione dell’elettorato a sinistra di questo governo.  Questo è il problema che ci sta. oggi, davanti: ci sarà un’area di sinistra non rappresentata che, però, non avanza una domanda esplicita di sinistra. Si produce, così, e solo a sinistra, una situazione paradossale: una domanda senza offerta ed un’offerta senza domanda.
Basta attendere gli errori degli altri perché la contraddizione si sani ed il punto di incontro si trovi? Pensarlo è legittimo sia per chi si pone in attesa sgranocchiando pop corn per ingannare il tempo, sia per chi, prendendo solo adesso le distanze da Renzi, pensa di riproporre le sue vecchie formule condite col buonismo di sempre, senza mai sottoporre a revisione critica la svolta del Lingotto.
MA ALTRETTANTO LEGITTIMO è pensare che il divorzio tra la sinistra ed il suo popolo sia cominciato proprio con l’esperimento sbagliato del Partito Democratico e che, quindi, occorra ben di più delle formulette sull’unità che è meglio della divisione o sulle alleanze per battere il nemico di turno che più larghe sono meglio è, senza mai dire una parola sulla redistribuzione di redditi e lavoro, sulla progressività fiscale, sui diritti nel lavoro ed al lavoro…. Se il problema fosse così semplice e solo di buona volontà il problema non ci sarebbe.
C’è, invece, perché esso è complesso e richiede non un appello, ma una strategia. La rottura tra soggetti sociali che di sinistra hanno bisogno e soggetti politici che la sinistra esprime è gravissima. Essa richiede l’attivazione di un processo nuovo, la creazione di un circolo virtuoso progressivo che riannodi il filo spezzato tra popolo di sinistra e sua rappresentanza, in grado di invertire il terribile processo che si è messo in moto. Di questo dovremmo ragionare. Di come dare un segno politico di rottura col passato e di discontinuità. Di come fare in modo che le seconde e le terze file di ciò che resta della sinistra organizzata possano imporsi ed assumere sulle loro spalle la responsabilità di creare una rete tra appartenenti a soggetti diversi che si ritrovino, ad esempio, sui tre capisaldi prima indicati per una nuova sinistra (redistribuzione, progressività, diritti..). Di come creare nei territori sedi aperte da mettere a disposizione di tutti i soggetti che operano nel sociale ed in qualunque forma organizzati. Di questo e di tanto altro, insomma.
PERCHÉ SI TRATTA di fare in modo che i germi di una nuova offerta politica possano alimentare la speranza di una nuova sinistra e che in parallelo si possano riattivare forme nuove di partecipazione e protagonismo, che a loro volta possano rafforzare e rendere credibile e possibile la costruzione di un soggetto nuovo. Solo a questo punto potrebbe prendere corpo una domanda organica di una sinistra che si incontra con una nuova offerta. Processo lungo? Si. D’altra parte le due forze oggi dominanti non vengono dal nulla, ma hanno alle loro spalle una lunga  incubazione anche se due storie diverse. La Lega è nata nel vivo di un processo di ristrutturazione dell’apparato industriale del nord attingendo negli strati popolari ed operai, ha avuto un balzo iniziale, poi una crisi profonda e negli ultimi anni una vera e propria resurrezione che la fa apparire come una forza nuova sebbene abbia in realtà amministrato ed in molti casi male.
MA DI QUESTO PASSATO ha saputo sfruttare un certo radicamento nei territori e la creazione anche di una classe di amministratori. La storia del M5S è diversa, ma ha anche essa  una lunga incubazione. Dagli spettacoli di Grillo che hanno seminato, soprattutto in un pubblico di giovani e di sinistra i temi dell’ambiente e della critica alla politica, alle elaborazioni discutibili, ma con un loro fascino utopico di Casaleggio. La sinistra con la sua lunga storia forse non deve ricominciare da zero. Ma deve ripensare alla società e ripensarsi radicalmente. Il lavoro sarà lungo, ma se non si comincia subito ad avviarlo sarà più lungo ancora. Ci sono le elezioni a breve? Si come sempre accade. Parliamone allora. Ma senza fare come sempre abbiamo fatto: parlare di alleanze a prescindere dai contenuti.

La Stampa 4.9.18
Il popolo della Festa dell’Unità
incorona il compagno Fico
di Fabio Martini


Sul far della sera nel capannone dei dibattiti della Festa nazionale dell’Unità fa la sua comparsa il “compagno” Roberto Fico, il presidente della Camera Cinque stelle che viene dall’estrema sinistra, tutti spalancano occhi e orecchie per scoprire come sarà accolto: dalla platea si alza un applauso di dieci secondi, un applauso di simpatia che, si capirà più tardi, comprende anche alcune decine di Cinque stelle. Non esattamente una (legittima) claque, ma qualcosa che ci somiglia. Dunque impossibile misurare con precisione i sentimenti veri del “popolo” Pd rispetto ad un esponente “buono” della maggioranza e infatti, durante il confronto con l’ex ministro Pd delle Infrastrutture Graziano Delrio, ogni tanto verso il presidente della Camera sono partite bordate e malumori, ma dopo 70 minuti di dibattito Roberto Fico ne è uscito bene, si è mosso con abilità sul palco di Ravenna.
Ad un certo punto del confronto è partita, sia pure in politichese, la bordata contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini: «Ciò che io non tollero da nessuna parte è che sull’immigrazione si parli con la pancia e non si diano dati seri, non si racconti chi sono queste persone, perché partono». E poi, più esplicitamente: «Lo dico senza alcuna remora: dalla Diciotti tutte le 179 persone dovevano scendere il primo giorno e non si doveva aspettare tutto questo tempo. È una questione su cui ho lavorato molto e infatti la mattina che io intervenni, scesero il pomeriggio dalla nave». Se Salvini fa politica con la «pancia» - e non è una carezza quella di Fico – durante una passeggiata tra gli stand della Festa, un compagno di quelli di base, si avvicina al presidente della Camera e gli dice: «Fico bravo, ma se non abbassate lo spread, siamo tutti nella cacca!». E Fico annuisce: «Hai ragione!». Fico, l’ex militante dei Centri sociali, che si fa carico dello spread, a suo modo, è un’altra notizia, visto che per Salvini e Di Maio a surriscaldare lo spread sono i «poteri forti».
Quarantaquattro anni (dodici in più di Luigi Di Maio), ex ragazzo dell’estrema sinistra napoletana, da presidente della Camera, sinora Fico ha provato a tenere un profilo istituzionale ma alimentando – con esternazioni anti-Salvini, e con una tessitura dietro le quinte - il suo profilo di capofila della sinistra grillina. Un’area che sinora non ha mai espresso pubblicamente una linea alternativa a quella di Di Maio-Casaleggio e per parte sua Fico non pare intenzionato, per indole, ad aprire fronti in nome di una diversa opzione strategica. Gli basta coltivare il suo ruolo istituzionale e quello interno di capo-area, ma senza spirito di fazione e tantomeno di battaglia.
Tanto è vero che l’applauso più fragoroso della serata lo ha preso il direttore dell’Espresso Marco Damilano, quando ha chiesto a Fico come mai nessuno lo avesse difeso nella sua politica sui migranti: «Non è vero – ha risposto il presidente della Camera - mi hanno difeso molti parlamentari del movimento, alcuni ministri. Non ho bisogno di difesa, di creare la polemica costantemente, non me ne frega neanche di rispondere a Salvini». Se quello tra Fico e Di Maio somiglia ad un gioco delle parti, il presidente della Camera continua ad esprimere con chiarezza la sua linea sui migranti. E su questo tema gli applausi a Fico uniscono militanti del Pd e dei Cinque stelle.

La Stampa 4.9.18
Varoufakis: “L’Italia non è sostenibile
E Salvini alimenta un momento di fascismo”
intervista di Marco Zatterin


«Se fossi una agenzia di rating avrei detto le stesse cose sull’Italia». Yanis Varoufakis rivela l’umore che non ti aspetti, quello che lo allinea a Fitch e le sue sorelle. «Pure io avrei atteso di vedere cosa fanno Salvini e Di Maio prima di dare il voto al Paese», spiega l’economista greco che tre anni fa apparve sulle scene come ministro delle Finanze di Alexis Tsipras. È un invito alla cautela, il suo, «ad attendere che si misurino con le sfide del Fiscal Compact» perché «il quadro italiano non è sostenibile nell’attuale Eurozona». Ce l’ha con le regole Ue, ma anche con la retorica gialloverde per metà condivisibile e per metà distruttiva, soprattutto con Matteo «assai abile a parlare con chi ha perso la speranza», ma uno che si fonda «su xenofobia, chiusura dei confini, e orgoglio nazionale». Il che, avverte, evidenzia «un momento di fascismo» che lo trova «molto preoccupato».
Quando irruppe senza cravatta a Bruxelles il 6 febbraio 2015 provocò parecchie pieghe di apprensione sui volti del consiglio Ecofin. «Un ambiente disperatamente senza immaginazione», ricorda. La stampa lo trattò da rockstar mentre picconava il «Minotauro globale», sinché Tsipras si convinse di aver bisogno un negoziatore più tradizionale. Fine della corsa. Da allora il professore s’è dato alla politica fondando l’aggregazione social-liberista Diem 25 e si è concesso generosamente a decine di platee. Giovedì è a Mantova al «Festivaletteratura» col suo «Adulti nella stanza» (La Nave di Teseo).
Professore, il sottotitolo del suo libro è «La mia battaglia contro l’establishment europeo». Ha vinto o perso?
«Una sconfitta. Avevo un solo obiettivo e l’ho mancato. Mi battevo per la fine dell’insolvenza permanente e la bancarotta della Grecia. Ho fatto il mio meglio. Ho fallito».
Come l’ha presa?
«La storia è fatta di sconfitte importanti. Questa lo è stata».
Giorni fa si è celebrato l’addio di Atene alla «Troika». Lei la pensa diversamente, vero?
«Non siamo usciti dal terzo programma; siamo entrati nel quarto. Sono fatti. È chiaro che il debito non era e non è sostenibile. È scaduto in termini temporali un prestito. È stato sostituito da nuovi pagamenti da affrontare e interessi da pagare. Oltre a ciò, abbiamo stretti vincoli di austerità».
In sintesi?
«È la combinazione fra un debito insostenibile e un’austerità impraticabile. Siamo entrati in una spirale fatale, con un passivo impossibile da gestire e le banche sull’orlo del fallimento. E così le aziende. Alcune pagano il 75% dei loro profitti in tasse mentre nella vicina Bulgaria ne versano un quinto. Veda lei se siamo fuori dal programma, mentre l’Ue annuncia la sua vittoria».
Sorpreso?
«Mi sembrano i romani che dicevano di avere tutto sotto controllo mentre si ritiravano davanti ai visigoti».
Come valuta lo stato di salute dell’Unione europea?
«Siamo in crisi dal 2008 e si sta ripetendo quanto accaduto fra le due guerre mondiali. L’establishment liberale e democratico fa finta di nulla. Il risultato è una frammentazione del continente come ai tempi di Weimar. I soli ad aver capito che occorre uno spirito internazionale sono le banche, straordinarie nell’unirsi, e i fascisti, nuovi o vecchi, come sempre solidali fra loro. Si era già visto con Franco, Hitler e Mussolini. L’ultradestra, i razzisti e gli xenofobi si uniscono sempre magnificamente. Come i banchieri che vogliono essere salvati dai governi. Destra tradizionale, liberali e sinistra sono invece a pezzettini».
E l’Italia, in questo?
«Mi colpisce la gravità delle parole usate dal governo. Salvini alimenta la xenofobia. E’ un “momento fascista”. Parla a un popolo che appartiene a una nazione orgogliosa, più produttiva e forte della Grecia, che esporta in tutto il mondo, che ha in deficit in surplus da vent’anni eppure si ritrova con il potere di acquisto in calo. Promette alle persone “vi farò parte di qualcosa di più grande”. Ma i suoi argomenti sono preoccupanti. C’è chi ha dimenticato che Mussolini inizialmente parlava di protezione sociale e di pensione. Però poi ha eliminato i sindacati e il dialogo politico. E ha fatto una guerra che non aveva mai promesso».
Lei dice che, come Fitch, bisogna vedere cosa faranno.
«Ho studiato a fondo i testi fascisti fra le due guerre. Nel Goebbels degli Anni Venti ci sono pagine anche brillanti. Il modo in cui contesta il capitalismo potrebbe essere il mio. Solo che le conclusioni fanno venire i capelli diritti. E’ una doppia narrativa, una tragedia che stiamo rivivendo».
L’Italia è così?
«Il governo ha molti argomenti validi, la critica delle autostrade privatizzate e l’Europa assente sui migranti. Ma, come Goebbels negli Anni Venti, arriva a tesi incendiarie e misantrope che suggeriscono sgomento e orrore».
Cosa succederà all’Europa dopo il voto di maggio?
«La sola forza politica che cresce sono i nazionalisti internazionalisti. Diem 25 lo ha previsto. Per questo siamo nati. Lo diciamo dal 2016: il socialismo per pochi e il rigore per tutti stanno provocando la disintegrazione dell’Europa e alimentano i nazionalisti. I blocchi democratici liberali sono complici».
E Diem 25?
«Non siamo nati per correre alle elezioni. Ora, però, è inevitabile. Dobbiamo tentare di ridare speranza e creare un “new deal” in cui la gente trovi che un senso per le loro vite».
Il futuro è una catastrofe?
«Non voglio fare il profeta di disgrazie non indulgerò in previsioni. Vedo però che l’economia italiana non è sostenibile nella struttura attuale dell’euro e nessuno ha idea di come l’Italia possa essere pienamente integrata nell’Eurozona. Se uscisse, sarebbe la fine dell’euro. Una calamità che porterebbe una divisione fra Nord e Sud e alla stagnazione. Ovvero il terreno ideale per far crescere il fascismo».
Pessimista?
«No. Mi sento vicino a Gramsci. Ho l’ottimismo della volontà».

Corriere 4.9.18
Sahra dà la rotta a sinistra «I governi devono fare ciò che vuole il popolo»
Da tempo nella Linke, la sinistra radicale, è uno dei politici più carismatici della scena tedesca
Nasce Aufstehen! Una sfida (alla socialdemocrazia) oltre Berlino
di Elena Tebano


«La sinistra deve tornare a impegnarsi per una politica sociale, non rappresenta più gli interessi del popolo». Studiosa marxista, figlia di un iraniano desaparecido e di una tedesca, cresciuta nella ex Ddr, Sahra Wagenknecht, 49 anni, da tempo nella Linke, la sinistra radicale, è uno dei politici più carismatici della scena tedesca. Oggi a Berlino lancia Aufstehen!, «In Piedi!», un movimento che vuole andare oltre i partiti (anche il suo) e offrire una risposta di sinistra ai populismi.
Dottoressa Wagenknecht, cosa può ottenere un movimento più dei partiti?
«C’è un divario crescente tra ciò che vuole la maggior parte delle persone e ciò che fa il governo. La società tedesca è in maggioranza favorevole a un aumento degli stipendi e delle pensioni e a tasse adeguate per i grandi gruppi industriali. Ma il governo non fa quello che vuole il popolo. Sempre più persone perdono fiducia nella politica. Con Aufstehen! vogliamo tornare a interessare alla politica chi si è allontanato dai partiti per la frustrazione o vota AfD per protesta, anche se non rappresenta davvero i suoi interessi».
Vede possibili alleati in Europa e in Italia?
«In tutta l’Europa i partiti di destra crescono in modo preoccupante, in Italia sono addirittura al governo. Abbiamo bisogno di un approccio movimentista. Sono contenta se succede anche in Italia».
I partiti populisti oggi sono molto forti: pensa che alle prossime elezioni europee la sinistra si possa rafforzare grazie al suo movimento?
«È il mio obiettivo. Se grazie alla pressione di un movimento extraparlamentare i partiti di sinistra tornano di nuovo a impegnarsi in modo credibile per una svolta sociale, allora si rafforzeranno».
Da cosa deriva l’attuale crisi della socialdemocrazia?
«Si è resa superflua perché rappresenta sempre meno gli interessi della popolazione e ormai si distingue a malapena dai conservatori. In Germania lo smantellamento dello Stato sociale è iniziato con il governo socialdemocratico, una tendenza che si è solidificata con la Grande Coalizione e che è stata venduta come “riforme”. Il sussidio di disoccupazione è stato smantellato, la liberalizzazione del mercato del lavoro ha aumentato quello precario e interinale, l’innalzamento dell’età della pensione è diventato per molti la strada verso una vecchiaia in povertà – tutto ciò è stato fatto da governi in cui c’era la Spd. La conseguenza è che la Spd si è incollata ai conservatori. Nella scorsa legislatura in Germania c’era ancora una maggioranza per Spd, Linke e Verdi. Invece di usarla per una nuova politica sociale, la Spd si è venduta ad Angela Merkel. È per questo che la destra è potuta diventare così forte».
Il salario minimo introdotto dall’attuale leader Spd Andrea Nahles non è un tentativo di invertire tale tendenza?
«Che finalmente sia stato introdotto un salario minimo è anche un successo della Linke, visto che abbiamo fatto pressione per anni in questo senso. E ovviamente è un bene che ci sia il salario minimo, anche se è così basso che non protegge dalla povertà, soprattutto in vecchiaia. Ma a parte ciò, dato che dal 2015 non c’è stato nessun altro tentativo da parte della Spd di revocare le cosiddette riforme del mercato del lavoro, rimane un misura insufficiente e isolata. Un’inversione di tendenza è un’altra cosa».
Lei si è opposta alla legge sull’immigrazione.
«Dobbiamo distinguere tra diritto all’asilo e migrazione economica. Il diritto all’asilo va difeso. Per l’immigrazione economica la questione è più complicata. Il dibattito sull’aprire i confini è una carta da giocare per chi vuole forza lavoro istruita a buon mercato – cioè per le grandi imprese. Non è un caso che le associazioni industriali cantino l’inno dell’immigrazione. Nessuno crede davvero che lo facciano per motivi umanitari. Si tratta di spietati interessi economici. Ma non può essere – e di sicuro non è una politica di sinistra – che i Paesi ricchi non formino abbastanza tecnici specializzati e invece li sottraggano ai Paesi poveri. Dove così vengono a mancare. La discussione sui migranti economici però non riguarda i rifugiati».
Perché l’AfD ottiene così tanti consensi all’Est?
«L’aumento dei voti di AfD riguarda tutta la Germania. Inoltre le attuali differenze tra i Länder orientali e occidentali hanno più motivi. I nodi chiave sono: un minor legame con i partiti tradizionali rispetto all’Ovest, minori esperienze di integrazione per il fatto che hanno avuto pochi immigrati e una frustrazione maggiore dovuta al vissuto negativo della Riunificazione, come anche la sensazione sempre presente di essere trattati come cittadini di seconda classe».
Non è una contraddizione che una parlamentare lanci via Internet un movimento «dal basso»?
«Non è decisivo chi dà la spinta iniziale. Ma chi entra a farne parte. Sarò contenta quando queste persone creeranno una rete, si troveranno sul territorio e daranno vita a campagne concrete. Come dice il nostro nome: si tratta di far alzare in piedi le persone per un’altra politica».

Repubblica 4.9.18
Il mondo? Lo salveranno ancora i ragazzini
Oggi i piccoli sentono e patiscono il pessimismo che li circonda
Ma è un’ottica solo europea
di Benedetta Tobagi


Incontro con il maestro Franco Lorenzoni, che porta avanti in Umbria il suo centro di formazione, punto di riferimento per docenti e bambini Perché la scuola è il luogo dove fondare la società aperta di domani
La situazione presente è grave. Mi piaceva tanto lo slogan di Radio Alice nel ’77, "Notizie false che producono eventi veri".
A ripensarci oggi, al tempo delle fake news, fa rabbrividire » , dice Franco Lorenzoni, maestro, educatore, formatore, noto al grande pubblico per il bellissimo memoir pedagogico I bambini pensano grande.
Cronaca di un’avventura pedagogica. Si arrovella, Franco, sulla " crisi di umanità" che stiamo vivendo, insieme agli altri membri del Movimento di cooperazione educativa ( Mce), fondato nel dopoguerra da figure leggendarie come Mario Lodi, ispirandosi alla pedagogia di Freinet, per una scuola capace di educare alla libertà e alla democrazia. Per questo l’ho raggiunto tra i boschi dell’Umbria alla casa- laboratorio di Cenci, centro di formazione accreditato e punto di riferimento per molti insegnanti di tutta Italia, che ha fondato nel 1980 e coordina con la compagna Roberta Passoni, pure maestra, e altri colleghi.
Porto un bagaglio di domande assillanti: cosa può fare la scuola contro il razzismo, la rabbia, l’indifferenza ai dati di fatto?
Come svelenire il clima e gettare le basi per un futuro diverso? In una parola: quale educazione per i tempi bui?
La prima suggestione arriva dai " cantieri" educativi annuali del Mce svoltisi in luglio a Foligno, tema: le metamorfosi. Oltre l’ottimismo retorico del binomio crisi- opportunità, partendo dai racconti inquietanti della mitologia greca si è riflettuto su quanto il cambiamento faccia paura e non sia facile da gestire.
Il cammino continua a casa Cenci, dove arrivo nel mezzo del " villaggio educativo" estivo per bambini e ragazzi, tutti insieme, dalle primarie all’università.
« La mescolanza – di età, condizioni sociali, provenienze, linguaggi – è la cosa più interessante. Apre la testa » , mi spiega Franco Lorenzoni. Penso al saggio di Gardner, teorico delle intelligenze multiple, Aprire le menti. Ma come si fa?
« Un grimaldello sono i racconti » , Lorenzoni parla veloce, con passione, per comunicarmi la sua visione: « moltiplicare le storie, contro la fissità dei pensieri, che uccide » .
L’ispirazione viene da Le mille e una notte: Sheherazade si salva dalla furia omicida del califfo con una narrazione che lo avvince a tal punto da distoglierlo dai suoi propositi.
Attenzione però: il destinatario delle storie era la sorella, « il califfo origlia » , precisa Franco: « il potere delle storie opera spesso in modo indiretto, per raggiungere chi, imprigionato nella sua ossessione, non ascolterebbe » . Prendere nota, contro le frustrazioni del dibattito sui social.
« Ogni storia contiene altre storie » , continua, « ha diverse letture » . « Se ci fanno ascoltare sempre la stessa storia ci irrigidiamo. Se ne ascoltiamo tante, possiamo cambiare » , aggiunge Roberta. La vedo all’opera con bimbi e ragazzi che sono invitati a spiegare quale, tra le molte storie ascoltate, li abbia " mossi" di più, quali possano generare trasformazioni. Tre bambini scelgono un racconto dalle Metamorfosi di Ovidio, la ninfa Callisto mutata in orsa da Giunone dopo la violenza di Giove: « uno arrabbiato vuole sfogarsi, anche contro un innocente » , dice la prima; « la ninfa tace perché si sente in colpa, anche se non lo è » , aggiunge un’altra, « non bisogna aver paura di denunciare i soprusi » , « devo conoscere bene una situazione per sapere a chi dare la colpa » , conclude un terzo. Affascinante.
Torno al tema cruciale della dilagante indifferenza verso la verità. Come contrastarla? « È cruciale pensare alla scuola come un posto dove si crea cultura » , esordisce Franco.
« Non ci sono risposte pronte.
Bisogna cercarle, imparare a osservare, a formulare domande » . Roberta racconta che con la sua classe sono entrati in corrispondenza con uno scienziato « e questo sviluppa competenze, capacità di elaborazione » . « Intorno alla domanda " Perché le persone migrano?" abbiamo ricercato per un anno – riprende Franco – partendo dalla matematica, perché una bambina ha detto una cosa importante: " per risolvere un problema ci vogliono di dati!" e non è banale per niente. Ormai, chi lo fa?
Abbiamo costruito una mostra piena di dati. Poi le interpretazioni possono essere tante. Ma la scuola deve fare questo, arricchire il discorso, ingaggiare un corpo a corpo vitale con gli oggetti di conoscenza, coltivare una tensione verso la verità. È essenziale imparare a sostare a lungo, insieme, al bordo di una domanda, nell’incertezza » .
Senza paura. Insegnare, insomma, a convivere con l’incubo del nostro tempo, ossessionato dal controllo, dalla fame di risposte facili e stampelle identitarie fasulle.
« Accettiamo di non sapere cosa accadrà al mondo e ci prepariamo. Oggi i bambini sono al centro dell’ansia, non dell’ascolto. Sentono, e patiscono, il pessimismo che li circonda. Ma è un’ottica solo europea » , Franco si accalora, « gli indicatori dicono che nel mondo si sta meglio di 30 anni fa. La scuola dev’essere il luogo dello spostamento, da dove nasci al mondo » . Roberta – contrappeso concreto ai " voli" del compagno – ricorda che la scuola deve saper ascoltare tutti, accogliendo anche le paure: « ho avuto in classe dei bambini con gravi difficoltà, abbiamo ascoltato i genitori dei compagni, spaventati, spiegando come gestivamo la situazione. Non devi mai dire in astratto " si fa così, bisogna accogliere tutti", ignorando dubbi e timori » . Penso che molti sindaci dovrebbero ispirarsi a quest’approccio per gestire la paura degli immigrati.
La scuola può, e deve, avere un ruolo politico, « non in modo ideologico, che irrigidisce tutti, ma utilizzando al meglio i propri strumenti: ricerca, conoscenza degli oggetti culturali, tanta storia e dati concreti, per contribuire a formare una coscienza, un’etica » , concludono. Per questo, l’Mce sta lanciando una serie di iniziative a partire dai 70 anni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, perché sia studiata in tutte le scuole « non come progetto extra, ma innervando la didattica di quei principi, per leggere il presente con occhi diversi » . È difficile, ma non bisogna farsi travolgere dall’esterno. « La scuola è diacronica. Deve indagare il passato e immaginare il futuro, libera dal proprio tempo » , conclude Franco, « ci andiamo proprio per non restare incastrati nel presente! » .
Quando riparto sento più aria nei polmoni, non solo per effetto dei boschi. L’impegno educativo è disseminazione, non semplice testimonianza. C’è speranza se questo accade al Vho, il paesino dove insegnava, scrisse Mario Lodi. « Chi educa non può non avere speranza. E c’è molto lavoro da fare »

Corriere 4.9.18
Chi gridava evviva Mao
Il mito affascinò illustri intellettuali non si allinearono Bocca e Tornabuoni
In un volume curato da Mario Tesini e Lorenzo Zambernardi (Le Monnier) la rassegna di coloro che esaltarono il dittatore comunista cinese: Dario Fo, Sartre, Godard, Sanguineti. Luigi Pintor fu tra i pochi ad ammettere l’errore
di Paolo Mieli


Il 24 settembre 1970, i Rolling Stones decisero di interrompere un loro concerto alla Porte de Versailles per cedere il palco a Serge July, futuro direttore di «Libération» ma all’epoca leader della formazione più filocinese d’Europa, la Gauche prolétarienne, il quale ebbe così l’occasione di denunciare di fronte ad un immenso pubblico l’arresto di alcuni suoi compagni e di muovere, inneggiando a Pechino, accuse non lievi al governo di Parigi. Fu quello una sorta di tributo eccezionale pagato da Mick Jagger e dalla sua band allo spirito dei tempi. E soprattutto al culto di Mao Zedong. Culto a cui resero omaggio molti grandi artisti e intellettuali dell’epoca: da Jean-Luc Godard con il film La Chinoise ad Andy Warhol con un celeberrimo dipinto pop che ritraeva, appunto, il «grande timoniere» (altri dello stesso genere erano dedicati a Marilyn Monroe e a Liz Taylor), da Jean-Paul Sartre, che assieme a Simone de Beauvoir si fece strillone del giornale ipermaoista «La cause du peuple», a Louis Althusser, Philippe Sollers, Claude Roy e Roger Garaudy. È da quelle esperienze che ha idealmente preso le mosse un intelligente libro curato da Mario Tesini e Lorenzo Zambernardi, Quel che resta di Mao. Apogeo e rimozione di un mito occidentale, che sta per essere dato alle stampe da Le Monnier. A cinquant’anni di distanza è impossibile sottovalutare il fenomeno per cui alla fine degli anni Sessanta furono approntate traduzioni in una quarantina di lingue e diffuse — solo nelle edizioni ufficiali — oltre un miliardo di copie del Libretto rosso che conteneva citazioni dal «pensiero» del leader rivoluzionario cinese. Tra gli estimatori di quel libricino, e ancor prima dell’esperienza cinese, ci furono moltissimi scrittori italiani.
«Me ne innamorai più o meno nel ‘63», raccontò con candore Edoardo Sanguineti; «rappresentava la speranza di un socialismo non burocratico, non tiranno, in movimento, ed appariva come l’unica alternativa per chi aveva scarsa simpatia per il capitalismo e forti dubbi sull’Unione Sovietica». Charles Bettelheim si disse sicuro che la Rivoluzione culturale (iniziata nel 1966) avesse «contribuito alla distruzione del mito della pretesa “superiorità” degli esperti e dei tecnici»; le masse popolari avevano, a suo dire, «preso coscienza della propria capacità di padroneggiare collettivamente tecniche complesse». Dario Fo esultò per aver constatato di persona come «la divisione dei ruoli, la barriera fra lavoro manuale e lavoro intellettuale» fosse lì lì per cadere. Lo psichiatra argentino Gregorio Bermann, in La salute mentale in Cina (Einaudi, 1972), testimoniò che l’esperienza maoista aveva aperto «una nuova via alla conoscenza e alla pratica della psichiatria e della psicoterapia». Giovanni Jervis gli fece eco giudicando convincenti le tesi di un libro dal titolo più che mai esplicito: Fare affidamento sul pensiero di Mao Zedong per guarire le malattie mentali. La psicologa americana Carol Tavris sostenne che era sufficiente varcare i confini della Cina per lasciarsi alle spalle «la crisi energetica, la criminalità, la proprietà privata, i cinema a luci rosse, il cinismo e il sesso» ed entrare «in un’oasi di sicurezza, di stabilità, di entusiasmo, di strade pulite, di discorsi puliti e di pensieri positivi»
Maria Antonietta Macciocchi, in Dalla Cina (Feltrinelli), si entusiasmò per la «rieducazione» del direttore di un albergo in cui aveva soggiornato: «Ce lo indicano: è rotondo, gentile e modesto; pare che prima avesse maniere presuntuose, ma ora, rieducato come lavoratore, fa il suo mestiere con relativa soddisfazione degli altri… Ogni tanto lo sentiamo cantare, seduto al banco dove si ritirano le chiavi del piano». Alberto Jacoviello sentenziò che Mao aveva trasformato la Cina un «Paese di filosofi». Il giornalista francese Robert Guillain ebbe l’impressione che anche il sesso ai tempi di Mao fosse diverso: «Sono di una castità incredibile, perché il Partito lo esige. I film sono morali al cento per cento. Quando si esce da questo Paese disinfettato per passare a Hong Kong, si ricade all’improvviso nell’erotismo del nostro mondo, con giornali pieni di porcherie, con l’oppio, il gioco, la prostituzione».
Simon Leys, uno dei pochi studiosi della Cina che non si lasciarono sedurre dal culto di Mao, mise per tempo a nudo la miseria dell’esperienza di questi artisti che si lasciarono conquistare dall’uomo della Lunga marcia: «I loro soggiorni di tre settimane in Cina seguono lo stesso invariabile programma; tutti i viaggiatori — dai teologi ai logopedisti, dagli ornitologi ai mistagoghi e dai minatori ai ministri — visitano la stessa acciaieria, la stessa scuola, e si siedono allo stesso festino a base di anatra alla pechinese; ognuno, tuttavia, riesce a ricavare da questa identica e in fin dei conti modesta esperienza nuove rivelazioni, una rimessa in questione di tutte le prospettive nella sua sfera d’attività e, a volte, persino la materia di un poderoso volume».
Ma come fu possibile che si restasse abbagliati dal mito di Mao, quando erano trascorsi oltre dieci anni dalle rivelazioni di Krusciov al XX congresso del Pcus (1956) che aveva denunciato i crimini di Stalin e messo a nudo gli abbagli nei confronti della dispotica Urss staliniana della generazione intellettuale precedente a quella delle personalità testé elencate? La domanda se la pone Gianni Belardelli in un saggio introduttivo al libro di Tesini e Zambernardi. Tra l’altro, nota Belardelli, ancora oggi si parla della Cina di Mao continuando ad «attingere all’immagine circolante negli anni Sessanta in Occidente… di una rivoluzione libertaria e non violenta, destinata, più che a obiettivi di tipo politico o sociale, a rendere migliori gli esseri umani». Secondo Belardelli, a favorire la permanenza in Occidente, se non di un mito del capo dei comunisti cinesi in senso proprio, di un diffuso atteggiamento indulgente o benevolo verso la sua figura, di una quasi totale sottovalutazione delle vittime legate alla sua azione politica, «sta anche l’assenza di una vera critica a Mao proveniente dall’interno del regime». Non vi è stato nulla in Cina che fosse paragonabile alla denuncia kruscioviana di cui si è detto.
Resta il problema dell’abbaglio generalizzato. Un problema che si pose già trent’anni fa Paul Hollander in quello che è ancor oggi considerato un testo fondamentale per la trattazione di tale questione: Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba (il Mulino). «La coscienza del fallimento sovietico», ha scritto Hollander, «invece che creare una riserva di scetticismo in merito ai progetti di ingegneria sociale e di sperimentazione su larga scala, ingigantiva al contrario il fascino della Cina».
Ancora quando Mao morì, il 9 settembre del 1976, i toni dei giornali italiani furono oltremodo generosi. Editoriali di grande apprezzamento nei confronti del leader del Partito comunista cinese comparvero sulla «Stampa» (a firma di Alberto Cavallari e Furio Colombo) e sul «Messaggero». Più trattenuti gli articoli di fondo su «Repubblica» (Tiziano Terzani) e quelli del «Corriere della Sera». Quasi irridenti, quelli sul «Giornale» (Indro Montanelli scrisse del «pensiero» di Mao che aveva mandato «in visibilio tanti imbecilli nostrani»). «Il manifesto» giudicò Mao, per la penna di Rossana Rossanda, «più simile a Marx che a Lenin», mentre K.S. Karol metteva in guardia da Deng, «revisionista non pentito che è andato contro le giuste conclusioni della Rivoluzione culturale proletaria». Più cauti i giornali comunisti, in particolare «Rinascita», su cui comparve un articolo di Giuseppe Vacca che spiegava che cosa i suoi coetanei avevano «creduto di vedere» nella rivoluzione maoista. Sull’«Avanti!» piansero Mao Pietro Nenni, che lodò la sua concezione di una «rivoluzione da ricondurre sempre alla misura umana per evitare il rischio di cadere nella tirannia», e Bettino Craxi, che fece una previsione: «Il segno che Mao lascia nella vita del suo popolo e in quella dell’umanità non sarà cancellato dal tempo, anzi è destinato a divenire più grande e marcato via via che la storia gli renderà per intero le ragioni del suo pensiero e della sua opera».
In generale il mondo politico, in particolare quello cattolico, si vestì a lutto: Raniero La Valle ne parlò come di un «eroe del Vecchio Testamento»; Benigno Zaccagnini lodò la sua «riscoperta politica e morale dell’uomo cinese riportato — dopo un periodo di gravi mortificazioni — alla dignità essenziale di una riconquistata autonomia politica, culturale e spirituale»; Vittorino Colombo, presidente dell’Istituto italo-cinese, garantì della «profonda riconoscenza che il popolo cinese riservava al suo prestigioso leader».
Tesini e Zambernardi notano due articoli che invece furono particolarmente corrosivi nei confronti della Cina maoista. Il primo è, sul «Corriere», di Lietta Tornabuoni. «Son diventati tutti maoisti», scrive la giornalista, «il dolore dei politici italiani, percossi e attoniti alla scomparsa del grande leader antisovietico impressiona per la sua unanimità»; e anche per come «nei commenti funebri rinasca irresistibile la retorica del demiurgo, dell’uomo che da solo muta il corso della storia». L’altro è, su «Repubblica», di Giorgio Bocca: «È certamente edificante la lettura del Mao pedagogo che esorta i suoi allievi allo studio e all’informazione: ma, lui al potere in uno Stato socialista, i cinesi sono stati senza giornali degni del nome e non li hanno informati neppure che un uomo era sbarcato sulla Luna». Talché, secondo Tesini e Zambernardi, bisogna rendere a Bocca l’onore del riconoscimento «di aver scritto sulle pagine di un quotidiano che nel suo primo anno di vita procedeva esitante tra la volontà di rappresentare una moderna sinistra riformista e le simpatie per l’insorgenza sessantottina, protrattasi in Italia per un intero decennio, cose in perfetta coerenza con quanto affermato a molti anni di distanza». Tra tanti «maoisti più o meno ravveduti», proseguono i due curatori, Bocca «si sarebbe dimostrato un critico non solo tempestivo, ma anche tenace, del processo di trasformazione di un uomo e di un regime in un mito politico».
Qualcuno, però, aveva nutrito dei dubbi (non certo paragonabili per sistematicità a quelli di Bocca) fin dall’inizio. Come Goffredo Parise che, in Cara Cina (Longanesi), manifestò il sospetto che l’interprete di cui disponeva a Pechino non esaurisse la sua funzione nel tradurre le parole delle persone incontrate e che la commovente storia di una donna che riferiva delle drammatiche condizioni della sua infanzia sotto il precedente regime fosse una recita a beneficio del visitatore straniero (l’aveva letta, identica, in un libro che aveva portato con sé). Come Alberto Moravia che, pur entusiasta del viaggio nella Cina di Mao, mise in chiaro il limite della propria esperienza in quelle terre lontane: «Non pretendo certo di conoscere la folla cinese nella maniera, diciamo così, tradizionale; sono stato troppo poco in Cina. Ma l’ho guardata, questo sì. E forse, limitandomi a guardarla, l’ho in fondo conosciuta quasi come vi fossi vissuto in mezzo degli anni». O come Mario Vargas Llosa, che in Avventure della ragazza cattiva (Einaudi) ha raccontato la pessima impressione che gli fece il fatto che a Lima alcuni sconosciuti maoisti avessero impiccato, ai pali della luce nel centro della capitale, dei poveri cani a cui erano attaccati cartelli con il nome di Deng Xiaoping, accusato di aver tradito lo spirito di Mao.
In Italia sono stati pochissimi a riconoscere di essersi sbagliati. Luigi Pintor ebbe il coraggio qualche anno dopo di ammettere la cantonata. «Fu un errore», confidò a Simonetta Fiori, «una clamorosa scivolata, causata dalla necessità di sostituire quello sovietico con altri modelli internazionali; restammo abbagliati dalle suggestioni della rivoluzione cinese, cui attribuimmo — sbagliando — valenze liberatrici». Tra coloro che anche dopo la caduta del muro di Berlino hanno continuato a dirsi comunisti, Pintor è stato l’unico (o quasi) a non aver cercato attenuanti.

Repubblica 4.9.118
Il modello Shenzhen
E in Tanzania la Cina costruirà il porto del futuro
Tecnologia e dieci miliardi di dollari per il più grande scalo del Continente
di Filippo Santelli


PECHINO Trasformare un sonnolento villaggio di pescatori in uno dei più grandi centri portuali e tecnologici dell’Africa. La Cina sa come si fa: la sua Shenzhen, oggi capitale globale dell’hi-tech, fino agli anni ’80 praticamente non esisteva.
Ora il Dragone vorrebbe replicare l’esperimento in Tanzania. Il progetto disegnato per Bagamoyo, cittadina sulla costa dell’Oceano Indiano un centinaio di chilometri a Nord della capitale Dar Es Salaam, vale la bellezza di 10 miliardi di dollari.
Tanti ne servono per realizzare nella laguna il complesso di moli più grande del continente, circondato da una zona economica speciale (proprio come quella che Deng Xiaoping creò a Shenzhen, primo esperimento di economia di mercato) che dovrebbe attirare industrie, startup, centri di ricerca e anche un parco giochi per turisti.
Lo schema è quello collaudato degli investimenti cinesi: a finanziare, gestire e controllare il mega cantiere sarebbe il colosso mandarino China Merchants, con l’interessata partecipazione del fondo sovrano dell’Oman.
Condizionale d’obbligo, visto che nonostante se ne parli addirittura dal 2013 l’ultimo via libera ai lavori non è ancora arrivato.
Nel 2016 il neoeletto presidente John Magufuli ha bloccato l’iter di approvazione, preferendo puntare sul rinnovamento del vecchio porto di Dar Es Salaam.
Perplessità alimentate dall’imprudenza di Gibuti, qualche centinaia di chilometri più a Nord, sul Corno d’Africa: concessa alla Cina la costruzione di un porto e una base militare, la prima oltre confine per l’esercito del Dragone, il piccolo Paese ha consegnato il settantasette per cento del debito estero nelle mani di Pechino, rendendola di fatto padrona del suo destino finanziario.
Invece, proprio alla vigilia del Forum tra Cina e Africa che si è aperto ieri con Magufuli in prima fila, la situazione sembra essersi all’improvviso sbloccata. Il motivo, anche per i media locali, non è del tutto chiaro. Forse semplicemente la paura del presidente della Tanzania di perdere un treno di sviluppo su cui uno dopo l’altro stanno salendo tutti i suoi colleghi.
I cittadini della Tanzania, come tutti gli africani, guardano con favore alla Cina. Rispetto a Gibuti, l’economia del Paese è molto più solida, la dodicesima del continente, con un debito al momento sotto controllo.
Ma è anche vero che il porto di Bagamoyo vale da solo un quinto del suo prodotto interno lordo e che quando sarà costruito, pare in dieci anni, avrà bisogno di essere connesso via terra, strada o rotaia, con i Paesi confinanti, per non restare una cattedrale nel deserto.
Niente paura, anche questo la Cina lo ha già fatto altrove. Al Nord, per quattro miliardi di dollari, Pechino ha costruito la ferrovia che collega la capitale etiope Addis Abeba proprio a Gibuti.
E si dà il caso che i vicini della Tanzania, Congo e Zambia, siano già due dei suoi maggiori debitori. Altri cantieri, altri investimenti, altri prestiti. La Cina è lì per quello.

Corriere 4.9.18
Cina, arriva il ponte delle meraviglie (e delle paure)
Il più lungo del mondo sul mare, unirà al continente Macao e Hong Kong. Che teme l’omologazione
di Guido Santevecchi


PECHINO Dopo otto anni di lavori e 20 miliardi di dollari di spesa la Cina ha concluso un’altra impresa spettacolare: un ponte di 55 chilometri, compresi 6 chilometri di tunnel sottomarino e tre isole artificiali per gli snodi, che collega Hong Kong a Zhuhai nella Cina continentale e Macao. È pronto per l’apertura al traffico, che avverrà nei prossimi mesi.
L’opera ridurrà da oltre 3 ore a circa 30 minuti i tempi di collegamento tra le tre città della Grande Area della Baia, e le altre di una regione con una popolazione complessiva di quasi 70 milioni di abitanti. È studiato per durare 120 anni e resistere a terremoti di 8 gradi Richter.
È il ponte dei record: il più lungo del mondo sul mare. Sono state utilizzate 420.000 tonnellate d’acciaio e 1,08 milioni di metri cubi di cemento, 14 mila operai e una flotta di 100 navi per i lavori.
Il ponte è molto più di una meraviglia dell’ingegneria, è una sfida economica e politica. Xi Jinping vuole costituire una regione omogenea e interconnessa intorno alla Grande Baia. Sommati, i Pil di Hong Kong con la sua forza di piazza finanziaria, Macao, capitale mondiale del gioco d’azzardo, Zhuhai, Shenzhen con la sua alta tecnologia, Guangzhou fabbrica manufatturiera del mondo, hanno un Pil da 1,5 trilioni di dollari (una potenza da G20 per intendersi).
Però, il fronte democratico che vuole difendere l’eccezionalità di Hong Kong teme che porti all’omologazione della City con le altre grandi città della Cina continentale. La struttura è vista come l’ultimo passo di Xi per integrare il territorio ad amministrazione speciale con il potere centrale.
Da Pechino rispondono che il ponte che collega le due ex colonie (Hong Kong britannica, Macao portoghese) con Zhuhai è una struttura strategica per far correre la crescita economica e sociale. Ed è anche questo. Hong Kong, per esempio, con i suoi 7,2 milioni di abitanti, soffre di problemi di spazio che hanno reso drammatico il problema della casa: molti giovani potrebbero andare a vivere nella Cina continentale, a Zhuhai e dintorni, e continuare a lavorare nell’isola, facendo i pendolari grazie al nuovo ponte.

Repubblica 4.9.18
Il continente Made in China
Xi si prende l’Africa con 60 miliardi
Vertice con 50 leader: il presidente cinese annuncia il piano di maxi investimenti in cooperazione e infrastrutture Pechino non mette il naso nella politica interna, ma in cambio chiede e ottiene il via libera a cantieri e basi militari
di F.S.


PECHINO Nell’austera Sala del Popolo di rado si sono visti tanti sorrisi. Quelli degli oltre 50 capi di Stato africani arrivati a Pechino, a cui il padrone di casa Xi Jinping ha servito un benvenuto da 60 miliardi di dollari in finanziamenti. Se quel mega assegno è una trappola, come alcuni ipotizzano, i vari al-Sisi (Egitto), Ramaphosa (Sud Africa) o Kagame ( Rwanda e Unione Africana) ieri non lo davano a vedere. E poi il disteso sorriso di Xi, che in cambio si aspetta strada libera per piantare altre bandierine rosse in Africa. Nuovi porti e ferrovie lungo la sua Via della Seta, cantieri per le aziende nazionali, basi per le truppe. Tanti alleati nella sfida tra superpotenze con gli Usa.
Mostra anche questo il Forum di Cooperazione Africa- Cina che si è aperto a Pechino: il graduale spostamento del continente nella sfera di influenza cinese. Il Dragone non mette il naso nella politica interna, cosa che i leader africani gradiscono. E promette loro i denari di cui hanno estremo bisogno per crescere: 15 miliardi di aiuti e prestiti a interessi zero, 20 in linee di credito, 10 in un fondo per lo sviluppo, 5 per il commercio e altri 10 da imprese private. Totale 60, la stessa cifra che Xi aveva impegnato nel summit di tre anni fa.
Ora molti, Usa in primis, avvertono che l’offerta nasconde tranelli. I cantieri della Via della Seta sono affidati quasi per intero ad aziende mandarine, una di partita di giro. Mentre i Paesi partner rischiano di ritrovarsi con un debito difficile da onorare, costretti a cedere a Pechino il controllo delle infrastrutture sul proprio territorio. È già successo a Sri Lanka e Pakistan. In Africa, il 77% del debito estero di Gibuti è in mano della Cina, che lì ha costruito un porto e la sua prima base militare all’estero. Congo e Zambia devono a Pechino 7 miliardi, Etiopia e Camerun non sono lontani. Ma secondo gli esperti della Johns Hopkins University, Pechino non è tra i massimi fattori di stress finanziario del continente, al massimo una concausa.
«Non c’è nessun nuovo colonialismo », ha risposto per tutti il presidente sudafricano Ramaphosa. «Solo i popoli di Cina e Africa hanno il diritto di giudicare questa cooperazione », ha detto Xi, ben sapendo che, per convinzione o necessità, i leader del continente sono con lui. Certo, neppure alla Cina conviene prestare a cattivi pagatori, per questo, oltre a tagliare le rate ai Paesi più in difficoltà, nei prossimi anni Pechino proverà a riequilibrare il suo surplus commerciale con l’Africa, importando di più o magari spostando lì certe produzioni a basso costo. Aggiustamenti, in un modello di cooperazione che funziona. Gli Stati Uniti di Trump snobbano l’Africa, l’Europa la considera un problema (migratorio). Che non si stupiscano, se oggi sorride compatta alla corte di Xi.

il manifesto 4.9.18
Unrwa, Trump e Netanyahu all’attacco del diritto internazionale
Palestina. Il vero obiettivo dell'offensiva di Usa e Israele contro l'agenzia dell'Onu è demolire la risoluzione 194 che sancisce il diritto al ritorno per i profughi palestinesi ai centri abitati d'origine. Sdegno e rabbia tra i palestinesi: resisteremo.
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Non usa mezze parole il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman quando ‎esprime il suo punto di vista. Lo provano le sue ultime dichiarazioni. Negoziare con ‎i palestinesi non serve a nulla, spiegava ieri. ‎«Dobbiamo portare avanti la nostra ‎politica da soli‎» ha detto aggiungendo che ‎ogni volta che ha incontrato responsabili ‎dei paesi arabi ‎‎«non c’è stato alcuno che abbia sollevato il dossier palestinese. Non ‎gli interessa‎». Magari ha esagerato ma è andato vicino alla realtà. I palestinesi sono ‎soli, abbandonati anche dai “fratelli” arabi e ingannati da decenni di vuote promesse ‎fatte dai governi delle democrazie occidentali. Perché, domanda Lieberman, Israele ‎dovrebbe sedersi al tavolo delle trattative visto che può fare come crede. A maggior ‎ragione ora che alla Casa Bianca c’è un presidente che ha adottato tutta l’agenda ‎israeliana e che, stando a quanto si è letto in questi giorni, dopo mesi di grandi ‎proclami sul suo “Accordo del secolo” tra israeliani e palestinesi, non pare andare ‎oltre la proposta al presidente dell’Anp Abu Mazen di una confederazione tra ‎palestinesi e giordani, un’idea che sa di rancido e che da oltre venti anni è chiusa ‎nello scantinato della storia. Abu Mazen ha detto agli inviati di Trump che ‎accetterebbe la proposta se ne facesse parte anche Israele. Da Tel Aviv e da Amman ‎è giunto un immediato e secco no. Se il governo Netanyahu non ha alcuna ‎intenzione di dare il via libera a uno Stato palestinese con una vera sovranità e vuole ‎tenersi in un modo o nell’altro tutto il territorio della Palestina storica, da parte sua ‎la Giordania che già ora ha una popolazione in buona parte di origine palestinese e ‎che ospita oltre due milioni di profughi sa che confederandosi con uno staterello ‎palestinese rischierebbe in pochi anni di diventare lo Stato di Palestina teorizzato da ‎non pochi dirigenti israeliani, non solo di destra.
 Queste tuttavia sono soltanto manovre diversive per tenere nella nebbia il vero ‎obiettivo che si sono dati l’Amministrazione Usa e il governo Netanyahu: fare a ‎pezzi la legalità internazionale in modo da porre fine a qualsiasi rivendicazione ‎palestinese fondata sulle risoluzioni delle Nazioni unite. Il taglio annunciato la ‎scorsa settimana degli oltre 300 milioni di dollari garantiti sino al 2017 dagli Stati ‎uniti all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi, non è, come ‎crede qualcuno, una forma di pressione per costringere Abu Mazen ad accettare il ‎piano americano ‎«di pace‎». Piuttosto è un morso velenoso al diritto al ritorno nella ‎terra d’origine per i rifugiati e le loro famiglie. Un passo che, come il ‎riconoscimento lo scorso dicembre di Gerusalemme capitale d’Israele, vuole ‎scardinare la compattezza della comunità internazionale a sostegno di cinque ‎milioni di persone che attendono da 70 anni la realizzazione del loro diritto, sancito ‎dalla risoluzione 194 dell’Onu. Se il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv ‎a Gerusalemme ha poi visto alcuni paesi fare altrettanto e altri ancora (persino ‎europei) prendere in considerazione questa mossa, adesso Trump e Netanyahu si ‎aspettano che altri Stati comincino a mettere in dubbio il ruolo dell’Unrwa e a ‎contestarne i criteri con cui definisce profugo un palestinese. È un assalto senza ‎precedenti al diritto. Non è secondario che i governi israeliani dalla seconda Intifada ‎nel 2000 fino all’ultima offensiva militare contro Gaza nel 2014, stiano insistendo ‎affinché sia rivista la definizione di crimine di guerra compiuto da una “democrazia” ‎impegnata contro ‎«organizzazioni terroristiche» che agiscono in aree popolate. ‎Insomma basta alle condanne per i “danni collaterali” (i civili) delle operazioni di ‎guerra e gli Usa su questo sono d’accordo da lungo tempo.
 Gli Usa, ricorda lo storico Ilan Pappe, «furono tra i fautori della creazione ‎dell’Unrwa con l’idea che avrebbe dovuto condurre alla applicazione della ‎risoluzione 194…la decisione di Trump perciò è la rottura dell’impegno preso dagli ‎Stati uniti, in nome degli interessi di Israele e non certo dell’America (che versava i ‎fondi all’Unrwa, ndr)». Oggi Washington non esita a gettare nella disperazione ‎milioni di uomini donne e bambini e pur di raggiungere i suoi scopi. Lo sdegno e le ‎proteste dei rifugiati si registrano ovunque‏.‏‎ Dai campi in Libano e Giordania alla ‎Striscia di Gaza già colpita dalla riduzione di servizi e posti di lavoro da parte ‎dell’Unrwa privata dei fondi Usa (30% del budget dell’agenzia). ‎«È una decisione ‎ingiusta che avrà un enorme impatto sulla nostra vita ma qualunque cosa facciano ‎noi resteremo‎», assicura Hussein Abu Shanaan, 80 anni, residente da decenni nel ‎campo di Baqaa, a qualche chilometro da Amman, con i suoi quattro figli e quasi 20 ‎nipoti‏.‏‎ ‎«Se gli americani non vogliono aiutarci, possono restituirci il nostro paese, ‎la terra e le proprietà. Le nostre famiglie un tempo possedevano grandi case, fattorie ‎e animali‎», aggiunge da parte sua Nawja Faraj, 70 anni. Simili le parole che ‎abbiamo raccolto a Gaza. Naima Abdallah, 46 anni, originaria di Hamam, e Shaban ‎al Burai, 86 anni di Dimra ci dicevano ieri che ‎«Trump e Israele possono toglierci il ‎pane ma non riusciranno ad annullare il diritto al ritorno, la Palestina era e resta la ‎nostra terra». Per il pittore Jawad al Malhi, del campo profughi di Shuaffat e ‎originario del villaggio di Malha (Gerusalemme), americani e israeliani ‎«non hanno ‎fatto i conti con la determinazione dei palestinesi». Le difficoltà aumenteranno, ha ‎previsto, ‎«e colpiranno una popolazione già molto provata. Ma negoziati, leader ‎politici e trattative segrete non potranno mai costringere i profughi palestinesi a ‎dimenticare la loro storia e di aver subito un torto che solo la realizzazione del ‎diritto al ritorno potrà cancellare». ‎

La Stampa 4.9.18
Il presidente dello Stato ebraico Netanyahu riceve Duterte
“Alleati contro il terrorismo”
Il presidente delle Filippine si è vantato di essere «come Hitler» davanti ai volti delle vittime dell’Olocausto nel Vad Yashem, il Museo della Shoah di Gerusalemme
Lo stesso che  a proposito dell’ondata di stupri a Manila ha detto «Ci sono tante belle donne, è normale che ci siano anche tante violenze»,
di Giordano Stabile


Un capo di Stato che si è vantato di essere «come Hitler» davanti ai volti delle vittime dell’Olocausto nel Vad Yashem, il Museo della Shoah di Gerusalemme. Così vuole la realpolitik. Il presidente filippino Rodrigo Duterte è uno dei leader più controversi al mondo, con una massiccia dose di folklore e battute a dir poco di cattivo gusto, ma con Israele ha costruito una alleanza di ferro contro il terrorismo islamista e nel campo della sicurezza e della tecnologia militare.
Le esternazioni sopra le righe sono quindi passate in secondo piano. Prima di partire per Gerusalemme, dove ieri ha incontrato il primo ministro Benjamin Netanyahu, ha parlato a ruota libera con i giornalisti. Un reporter gli ha chiesto che cosa intendeva fare contro l’ondata di stupri a Manila. «Ci sono tante belle donne, è normale che ci siano anche tante violenze», è stata la risposta. In Israele, dopo aver reso omaggio alle vittime della barbarie nazista, ha poi precisato che si trattava soltanto di ironia e ha anche chiesto scusa per un’altra frase rimasta negli annali, quel «vai a quel Paese, figlio di puttana» che aveva rivolto all’ex presidente Barack Obama dopo essere stato criticato per le violazioni dei diritti umani.
Contro Isis e droga, con modi spicci
Obama gli sta antipatico, ha fatto capire. «Donald Trump è un mio amico – ha precisato –. Obama è invece un tipo freddo». Con Netanyahu s’intende e ha parlato soprattutto di affari. Il programma del viaggio prevede anche la visita ad aziende militari specializzate in apparecchiature elettroniche e missilistiche, forniture preziose per la lotta alla guerriglia islamista. Duterte ha stroncato l’insurrezione guidata dall’Isis nell’isola a maggioranza musulmana di Mindanao ma non ha ancora eliminato la minaccia nonostante i metodi spicci e le esecuzioni sommarie. Gli stessi usati contro il traffico di droga. Lui stesso ha rivelato di aver ucciso a sangue freddo uno spacciatore, a colpi di pistola, quando era nell’esercito.
Ma non c’è soltanto l’aspetto militare. È previsto un accordo per una concessione petrolifera nelle Filippine alla compagnia israeliana Ratio Petroleum e uno, molto sentito dall’opinione pubblica interna, per migliorare le condizioni degli immigrati filippini, 30 mila in Israele. D’ora in poi il datore di lavoro dovrà versare una cauzione di soli 800 dollari, più il costo del biglietto aereo. Centinaia di connazionali si sono radunati davanti all’hotel Ramada a Gerusalemme prima del suo arrivo. «È la prima volta che un presidente viene da noi. È molto criticato ma è un buon presidente, ha eliminato la droga», ha spiegato uno di loro.

Repubblica 4.9.18
Israele
Duterte in visita allo Yad Vashem tra le polemiche
di Nicolò Delvecchio


La visita in Israele di un capo di Stato famoso per essersi paragonato, in passato, ad Adolf Hitler sarebbe stata difficile da pensare fino a qualche tempo fa.
Invece, nonostante le dure proteste di attivisti per i diritti umani e dell’opposizione, la trasferta israeliana del presidente filippino Rodrigo Duterte ha lasciato soddisfatte sia Tel Aviv sia Manila, che hanno firmato importanti accordi soprattutto in merito al commercio di armi. A gettare acqua sul fuoco sulla prima, storica visita di un leader filippino in Israele ci aveva pensato sin da subito Benjamin Netanyahu, sottolineando il ruolo fondamentale del Paese asiatico nella protezione dei profughi ebrei durante la Shoah e nel riconoscimento dello Stato di Israele nel 1947. Duterte, in visita al memoriale dello Yad Vashem a Gerusalemme, ha definito Hitler «un pazzo», augurandosi che tragedie come l’Olocausto non si ripetano più. Il "ravvedimento" non ha però intenerito i critici: Haaretz ha duramente attaccato la visita allo Yad Vashem «di un ammiratore di Hitler», simbolo di come Israele sia «pronto a chiudere gli occhi sulle violazioni dei diritti dell’uomo da parte di dirigenti mondiali sull’altare dei contratti di difesa e di vendita delle armi». Peraltro, proprio in coincidenza con la visita di Duterte, la radio pubblica Kol HaMusica si è dovuta scusare con i propri ascoltatori per aver trasmesso per errore Il crepuscolo degli dei di Richard Wagner, autore dichiaratamente antisemita di cui il Führer era un grande ammiratore.

La Stampa 4.9.18
Sputi, botte e insulti razzisti
Aggredito 16enne tunisino
di Fabio Albanese


Una «sportellata» in faccia, poi calci e pugni, infine quella frase, urlata minacciosamente: «Ora te ne puoi tornare al tuo paese». L’ennesimo episodio di razzismo e di violenza ha avuto per vittima un ragazzo tunisino di 16 anni, aggredito domenica scorsa a Raffadali, nell’Agrigentino, dal padre di un coetaneo con cui pare stesse litigando. Un episodio su cui stanno indagando i carabinieri, dopo la denuncia dei responsabili della struttura in cui la giovane vittima è ospitata. Il sindaco del paese, Silvio Cuffaro, ha espresso solidarietà al giovane migrante, arrivato un anno fa con uno dei tanti barconi e accolto nella struttura “La mano di Francesco”, una comunità di seconda accoglienza per minori non accompagnati.
“Ma io voglio restare in Italia”
«Ho molta avuto paura. Ora mi sono tranquillizzato. È tornato tutto a posto. Sono in Italia da un anno e sono qui per scuola e lavoro. E a Raffadali io voglio restare», ha detto ai giornalisti il giovane migrante, che si trova ancora ricoverato all’ospedale San Giovanni Di Dio di Agrigento con una prognosi di cinque giorni per una contusione ai genitali ed escoriazioni a un ginocchio.
«Il ragazzo - racconta Vincenzo Vasile, responsabile della comunità - frequenta la scuola media. Lo scorso anno lo abbiamo iscritto alla prima come uditore. Quest’anno frequenterà la seconda. Quando è arrivato in Italia, dopo un anno e due mesi trascorsi in Libia, non sapeva neanche una parola di italiano e non conosceva neanche il francese perché viveva in un piccolo e periferico villaggio della Tunisia. Adesso capisce tutto. Ha iniziato anche a leggere e scrivere. Avrebbe potuto chiedermi, perchè è nel suo diritto, di essere trasferito in un’altra struttura. Ma vuole restare a Raffadali».
Nella comunità “La mano di Francesco” ci sono nove minorenni e un ragazzo che è appena diventato maggiorenne ed è dunque in attesa di essere trasferito. «Sono tutti iscritti a scuola - dice Vasile - hanno i documenti e i permessi della questura». Un altro dei responsabili della comunità, Giovanni Mossuto, denuncia: «Raffadali ha accolto questo ragazzo con amore e grande disponibilità all’integrazione e lui, grazie al suo bel carattere, ha conosciuto tanti suoi coetanei raffadalesi. Malgrado ciò, in questi mesi lui e gli altri ospiti della comunità sono stati oggetto di insulti, sputi e minacce. E ora, sentendosi legittimato da un clima che tutti avvertiamo, quell’uomo lo ha aggredito».

il manifesto 4.9.18
La commedia umana di Amos Gitai
Venezia 75. Si intitola «A Tramway in Jerusalem» il nuovo film del regista presentato fuori concorso insieme al corto «A Lettere to a Friend in Gaza»
di Cristina Piccino


VENEZIA La proposta di legge avanzata governo israeliano (che prevede il diretto controllo della commissione statale, ndr) distruggerà il cinema in Israele. Non ha dubbi Amos Gitai che ne è la figura internazionalmente più emblematica anche quando dal suo Paese era lontano, tra Parigi e New York, poi tornato con l’entusiasmo dell’elezione di Rabin e di nuovo fuggito dopo il suo assassinio indagato in diverse sue opere. Quella frattura finora quasi «apparente» tra immaginari critici, quali sono i più interessanti nelle nuove generazioni del cinema israeliano, e la politica governativa che nonostante il dissenso li finanzia (come vuole una società «democratica» era anche la leva su cui si fondava la vitalità espressa in questi decenni che ora, appunto, rischia di essere inghiottita dalla propaganda. Lui le distanze le ha affermate da tempo, in ognuno dei suoi film che del suo Paese tracciano una cartografia oltre i miti fondanti e l’attualità nel rapporto tra passato e presente, nel movimento tra l’Europa e la «terra promessa».
Cè un passaggio molto bello in A Tramway in Jerusalem quando l’allenatore della squadra di Gerusalemme viene intervistato dalla televisione e al suo posto risponde un fantomatico vice, parla per lui su tutto, dai giocatori al cibo, e l’uomo che arriva dall’Europa non riesce mai a prendere la parola. Quel silenzio, quella bocca riempita di frasi altrui secondo le quali tutto è fantastico restituisce nella sua violenza la direzione presa da Israele oggi e in qualche modo la sua Storia.
A Tramway in Jerusalem è il nuovo film del regista presentato ieri fuori concorso insieme al potente corto A Letter to a Friend in Gaza. L’idea è semplice e viene dichiarata sin dal titolo: un tram che attraversa la città centro spirituale delle tre religioni monoteiste, islam, cristianesimo, ebraismo, da est a ovest dove si mescolano le componenti della società israeliana e i suoi conflitti, spazio ristretto dove diventa possibile fare fronte allo scontro invece che alimentarlo: un’utopia? La scommessa è restituirla attraverso le immagini ma la natura politica del cinema di Gitai è sempre determinata dalla messinscena, da uno sguardo in cui ogni movimento della macchina da presa è di bellezza sorprendente e però mai fine a stesso.
Eccoci dunque tra ortodossi integralisti, machi della sicurezza che aggrediscono ogni donna bella e sola, razzismi quotidiani contro chi appare come «un arabo», tensioni familiari, un uomo e una donna che hanno idee opposte sulla scelta di avere un figlio, due giovani donne una palestinese e l’altra ebrea con passaporti di mezzo mondo che rivendicano una «nazionalità astratta» incomprensibile al poliziotto – e l’opposto dello stato-nazione ebraico appena sancito dal parlamento israeliano. Memorie yiddish, nella lingua parlata dalla «Jew Mama» incapace di capire come mai il figlio accudito con tanto amore sia divorziato mentre quello dell’amica che gli scaldava il cibo nel forno a microonde è affermato professionista con due figli; un viaggiatore che esplora Gerusalemme insieme al figlioletto seguendo la traccia di Flaubert (è Mathieu Amalric); due fanatici militaristi a cui l’uomo prova a opporre la bellezza del clima e del paesaggio (come spesso fa Gitai) inutilmente; un conduttore radiofonico che dedica la sua trasmissione a Trotszky e alla sua idea di socialismo; un prete che parla di libertà – Pippo Delbono bellissimo; un soldatino che saluta la sua ragazza facendole promettere che non piangerà.
Tra i volti, in primo piano di questa commedia umana e tra le loro storie è come se Gitai disseminasse frammenti di sé, la sua biografia personale e di artista, le sue convinzioni, la sua ostinata voglia di mettere alla prova il cinema e la realtà, la ricerca nel patrimonio di un passato europeo (da cui arrivava il padre architetto del Bauhaus), un racconto pubblico e privato di una società che ha dimenticato di interrogare se stessa. A Tramway in Jersualem è quasi un archivio (non a caso vi ritroviamo molti attori che hanno lavorato col regista) che afferma al tempo stesso l’ininterrotto desiderio di mettere alla prova le proprie immagini, quella spinta che rende il cinema vitale.

il manifesto 4.9.18
Budapest 1913, uno spettro si aggira per l’Europa
Venezia 75. In concorso l'opera seconda di Laszlo Nemes «Napszallta (Tramonto)»
di Silvana Silvestri


VENEZIAUno spettro si aggira per l’Europa e prende la forma innocente di una elegante modista nel film Napszallta (Tramonto) di Laszlo Nemes. Angelo sterminatore, nemesi storica, spirito del tempo, incede per tutta la durata del film rendendoci partecipi di eventi che stanno per accadere, non si sa quando né come. Siamo nel 1910, la Belle Epoque illumina la vita della Mitteleuropa, di Parigi, di Vienna e di Budapest, la luce elettrica sfida le tenebre e le prime tramvie corrono sui binari accanto alle carrozze a cavallo. Irisz Leiter (Juli Jacab) arriva da Trieste a Budapest in quella che era stato la prestigiosa casa di mode Leiter, fabbrica di cappelli appartenente alla sua famiglia, poi andata distrutta in un incendio e rilevata dal nuovo proprietario. Non c’è posto per lei nella fabbrica, neanche come erede virtuale, neanche per la sua abilità nel lavoro, né per la sua signorilità. Accompagnata alla porta e al treno, lei ritorna al negozio e continuerà a non ascoltare nessuna indicazione, nessuna oscura minaccia. Infine accolta tra le altre modiste, mantiene la sua totale indipendenza nel cercare qualcosa e qualcuno, forse un passato che dovrebbe spiegare il futuro, un fratello assassino di cui viene a conoscenza.
Nel suo incedere, ripresa di spalle come a trasportarci inesorabilmente nelle pieghe di una società dedita ai piaceri simbolicamente rappresentati dai lussureggianti cappelli di piume e nastri, paglie e sete, fibbie e ricami, la camera cambia la soggettiva e la riprende in primo piano, sguardo limpido a rivelare una mente fervida, poi attenta e determinata, via via sempre più minacciosa con la sua sola presenza. Fissa sullo spettatore ad avvertirlo, ammonirlo. Il suo passaggio apre la visione di ogni angolo della città, i palazzi regali dove si aprono ferite e si intuiscono misteri, le strade costeggiate dai palazzi che evocano i fasti antichi della città, i bassifondi così come si trovano nelle pagine di Molnar. Chi abbia visto fino agli anni Ottanta i grigi palazzi cadenti di Budapest ancora colpiti dai proiettili non solo della guerra potrà cogliere questa audacissima sovrapposizione della memoria.
Un intreccio crescente di muti riferimenti letterari e congelate referenze cinematografiche riempiono di echi stupefacenti il procedere senza sosta, coreografie preparate con cura, della protagonista che sta inesorabilmente testimoniando con la sua sola presenza o con l’interazione tenuta a distanza degli altri personaggi, la fine di un’epoca e l’affacciarsi di un futuro spettrale a cominciare dalle trincee della Grande guerra. Come nel Figlio di Saul (vincitore di un premio Oscar che ha riportato l’attenzione sul cinema ungherese), un singolo individuo concentra su di sé tutto lo spirito del tempo, anche in questo. Con Tramonto Irisz annuncia una tragedia epocale, accompagna lo spettatore che si sia lasciato condurre mettendo in moto i suoi riferimenti ad affacciarsi sull’orlo del precipizio.
Ideato prima del Figlio di Saul, il nuovo film ha avuto una lunga gestazione: «Ho cercato di trovare il mistero di quello che è successo all’inizio del XX secolo – spiega Nemes, come sia stato possibile che delle società tanto sofisticate, ricche di opere d’arte e di invenzioni, possano essere precipitate nella distruzione. Ci chiediamo se in questa epoca siamo di fronte a una analoga situazione: in quel tempo sembrava esserci un’aspettativa di qualcosa che dovesse succedere, qualcosa di buono, qualcosa di violento. Così come anche oggi riponiamo la fiducia nelle macchine e il nostro futuro sembra essere sempre più qualcosa di virtuale».

La Stampa 4.9.18
Le vite degli altri
Schnabel dipinge un Van Gogh spirituale Kusturica racconta Pepe Mujica, il presidente contadino
di Piero Negri e Lorenzo Soria


Julian Schnabel, artista e regista, in At Eternity’s Gate racconta Vincent Van Gogh con il volto e il corpo di Willem Dafoe: «È un film - spiega - sull’atto viscerale della creazione, su un uomo che non è stato apprezzato da vivo ma che ha saputo raggiungere l’eterno». Emir Kusturica nel documentario El Pepe, una vida suprema segue il presidente uruguaiano Pepe Mujica nell’ultimo giorno del suo mandato, nel 2015: «La prima cosa che ho saputo di lui è che guidava il trattore. Cosa, un presidente che fa il contadino e guida il trattore? Ho capito subito che sarebbe stato il mio uomo».
Alla Mostra di Venezia è il giorno dei film biografici, uno di fiction, l’altro di realtà. Due irregolari del cinema raccontano le vite degli altri. Kusturica: «Nella vita ho avuto un solo obiettivo, essere libero. Sono stato fortunato, in linea di massima ce l’ho fatta. Ora ho la libertà di fare un film su Mujica. Nel mondo c’è una sinistra finta che si è arresa al capitalismo, Mujica nell’ultimo giorno di presidenza è stato acclamato da 50 mila persone. E perché? Perché - come dice lui nel film - se ti ha votato la maggioranza, devi vivere come la maggioranza. La maggioranza della gente in Uruguay è povera, e lui vive da povero. C’è coincidenza tra essere e apparire. È l’unico presidente al mondo che può ispirare».
A un paio d’ore dalla prima mondiale del suo film Julian Schnabel indossa una canottiera con vistose macchie di pomodoro, pantaloni corti un po’ troppo larghi, Van’s bianche ai piedi e calze di lana beige.
L’atto della creazione
Dopo Basquiat, l’artista americano punta ancora la sua macchina da presa su un artista, e questa volta è Vincent Van Gogh. «Tutti pensano di sapere tutto su di lui, sanno che è quello un po’ matto che si è tagliato l’orecchio. Ma non è così: a Van Gogh non interessava la sofferenza ma la creazione. E il Creatore, Dio. Tutti soffrono sulla Terra. Van Gogh no. Aveva trasceso la morte ed era totalmente assorbito da quello che faceva. Aveva trovato accesso ad altro, come capita talvolta agli artisti».
Schnabel non riscrive la sua storia: «Non mi interessa sapere se si è ucciso oppure no. Tutti i racconti sono comunque bugie, che cosa è poi la realtà? At Eternity’s Gate è un film sull’atto del dipingere, che è ciò che faccio da una vita. Ho pensato il film con lo scrittore Jean-Claude Carriere. Eravamo andati insieme a una mostra su Van Gogh al Musee d’Orsay a Parigi e poi a casa sua, che è dove aveva il laboratorio Toulouse Lautrec. È lui che ha proposto: scriviamo un film! Ho risposto: impossibile. Allora lui ha insistito: proviamo! Abbiamo voluto riprodurre le sensazioni provate alla mostra. Sai, quando esci da un museo e ti senti addosso l’effetto di ciò che hai visto. È ora eccomi qui a Venezia con Willem e tutte le persone che mi hanno regalato la loro sensibilità e la loro esperienza di esseri umani».
Un primo bilancio positivo
A metà corsa, la Mostra dà i numeri. E sono positivi: 77 mila ingressi nelle sale (l’anno scorso allo stesso giorno erano 66 mila, 58 mila due anni fa), i biglietti venduti sono il 9 per cento in più dello scorso anno, gli accrediti più 18 per cento. Il presidente della Biennale Paolo Baratta, che con il cinema al Lido chiude l’anno prossimo (il mandato nel 2020) esclude proroghe: «Se abbiamo creato qualcosa di valido saprà camminare sulle sue proprie gambe». Il direttore Alberto Barbera risponde ancora su Netflix e Amazon («Sarebbe antistorico bandire chi sta facendo investimenti nella qualità») e sulla questione femminile: «Audiard dice che va ai festival da 25 anni e vede sempre gli stessi? Anch’io da 25 anni vado ai festival e vedo lui. Le registe sono meno dei registi, è un problema complesso, non sono i festival che possono risolverlo».
Baratta azzarda anche una lettura generale di quanto visto finora: «Tutti i film raccontano una realtà che non condannano, ma seguono, considerano, fotografano. Con intensità. È neo-neorealismo, mi hanno detto, io lo chiamo neorealismo lagunare. Con un orizzonte piano come quello della Laguna: vicende che sembrano individuali diventano universali». Curioso, l’osservazione vale anche per i due film del giorno, diretti da due registi fuori dall’ordinario su due persone straordinarie.

Corriere 4.9.18
Nella mente di Van Gogh
Venezia 2018 In gara «At Eternity’s Gate» con Willem Dafoe nel ruolo dell’artista
Schnabel, regista-pittore «Nessuna biografia. Ho dato vita ai suoi quadri
Nego la tesi del suicidio: non c’erano testimoni»
di Valerio Cappelli


VENEZIA Van Gogh ha le tele e il treppiedi sulle spalle a mo’ di zainetto, cammina svelto attraversando i campi di grano, e lo spettatore in quei primi piani ossessivi cammina con lui, accecato dal sole della Provenza che penetra nello schermo. Si siede, allarga le braccia come Cristo in croce, mentre il vento sferza il grano giallo, e pensi che Willem Dafoe (è lui a ridargli vita) aveva portato la passione di Gesù al cinema, prendendosi una pausa dai suoi ruoli di carnefice. Qui torna borderline, col suo volto lavorato dal tempo, la fronte solcata dalle rughe. L’attore americano ha 63 anni, Van Gogh 37 quando morì, eppure la differenza d’età, sotto il cappello di paglia che portava come una divisa, non si nota proprio.
Accolto da un grande applauso, At Eternity’s Gate è un viaggio nella mente di Vincent Van Gogh: è il ritratto personale di Julian Schnabel (lo ha scritto con Carrière) che non è solo regista ma pittore, l’omaggio di un artista a un altro artista: «Mi piaceva dare la sensazione di camminare con le scarpe di Van Gogh. Non è un biopic, sarebbe stato assurdo, ne hanno fatti tanti su Van Gogh».
Non c’è una cronologia da seguire ma come una serie di tele in successione: «Volevo creare l’equivalente del senso di accumulazione che si ha quando usciamo da una mostra». Un genio che in vita riuscì a vendere un solo quadro, un genio nato in un’epoca sbagliata, troppo presto per essere compreso.
«È Dio che mi fa dipingere per individui che non sono ancora nati, anche Gesù era completamente sconosciuto da vivo», recita Dafoe nella scena in cui il prete (Nads Mikkelsen) deve decidere se può lasciare l’ospedale psichiatrico, dove almeno continua a dar corpo a forme e colori, luci e ombre, lontano da ogni arte tradizionale, parlando ai sensi, la sofferenza umana che si trasfigura e eleva. «Voleva in maniera feroce toccare Dio attraverso i colori», ragiona Dafoe.
Smentita la tesi del suicidio: la morte di Van Gogh qui è una bravata di adolescenti. «Non c’era nessun testimone, non era né cupo né depresso, è difficile suicidarsi e non trovare l’arma, in ogni caso non mi importava troppo legittimare una verità o l’altra». Il rapporto del pittore con la natura è al centro di immagini viscerali, molto «fisiche»: «Dio è natura e la natura è bellezza». C’è l’amicizia con Gauguin (Oscar Isaac), ma Schnabel non indulge «sul loro rapporto tormentato, ero più intrigato dai discorsi su tecnica pittorica e filosofia». Gauguin e il suo istinto selvaggio «contro ogni teoria e accademia” che lo porterà verso isole lontane; Gauguin e «un’arte rivoluzionaria, non mi aspetto nulla dai giardini e dai bambini di Monet e Renoir»; Gauguin e la sua libertà, «siamo incompatibili», dice a Van Gogh, che si recide l’orecchio per tentare di fargli cambiare idea; lo rinchiudono in ospedale psichiatrico. Van Gogh al medico dice: «Io sono i miei dipinti». Gli confida le sue visioni, «vedo fiori e angeli che mi confondono, mi parlano. Il dolore è più potente della risata. La malattia può guarire». La tavolozza di Schnabel: «È un film sul significato dell’essere artista e il suo ruolo nel mondo. Non potrei fare un film più personale di questo».
Ecco Vincent che beve troppo e dà di matto; povero, mantenuto dall’adorato fratello Theo, mercante d’arte; ecco la gente di Arles, «meschina e ignorante”, che non lo vuole. Dipinge radici di albero nel disprezzo generale: «E l’albero dov’è, questo sarebbe un quadro?». Muove i suoi colpi di pennello veloci, nervosi, «il gesto deve essere netto», ed entriamo nei suoi pensieri, nell’atto della creazione. «Ho dovuto imparare a dipingere — dice Dafoe —. Ciò che mi ha colpito, leggendo le sue lettere, è la lucidità del pensiero». Oggi la gente lo venera come una rockstar. I fiori appassiscono e muoiono: quelli di Van Gogh no.

il manifesto 4.9.18
Brasile, la memoria bruciata
Beni culturali. Il Museo nazionale di Rio de Janeiro, il più antico e tra i più importanti del Paese, è stato divorato dalle fiamme. Poco si sa ancora sulle cause dell'incendio, ma la trascuratezza e i tagli alle risorse di Temer hanno reso possibile la tragedia
di Claudia Fanti


È una sorta di metafora del Brasile l’incendio che ha ridotto in cenere il Museo nazionale di Rio de Janeiro, il più antico del Paese e il quinto più grande al mondo per la collezione esposta.
Inaugurato nel 1818 dal re del Portogallo Giovanni VI e attualmente amministrato dall’Università federale di Rio (Ufrj), il museo vantava oltre 20 milioni di pezzi: dall’arte egizia a quella greco-romana (passando per quella africana e pre-colombiana), dalla geologia alla zoologia, da una delle più grandi librerie del Paese, con 470mila volumi e oltre 2mila opere librarie rare, fino alla ricchissima sezione dell’archeologia brasiliana. È qui che si trovava il più antico fossile umano scoperto in Brasile, uno dei più importanti reperti del continente: il cranio di Luzia, una donna di 20-25 anni vissuta nella regione circa 12.000 anni fa, rinvenuto nel 1974 a Lagoa Santa, nello Stato di Minas Gerais. «Non potremo mai più vederlo. Luzia è morta nell’incendio», ha affermato Kátia Bogéa, presidente dell’Instituto do Patrimônio Histórico e Artístico Nacional: «Non c’è modo di ricostruire questo patrimonio. È distrutto, distrutto per sempre. Abbiamo perso la nostra memoria e la nostra storia».
Di origine ancora sconosciuta, l’incendio, iniziato intorno alle 19.30 ora locale di domenica, mentre il museo era chiuso al pubblico, non ha causato vittime. Ma, mentre i vigili del fuoco sono al lavoro per recuperare i pezzi non raggiunti dalle fiamme, pare che abbia risparmiato molto poco. «Sono andati persi duecento anni di lavoro, ricerca e conoscenza», ha dichiarato il presidente Michel Temer, parlando di «un giorno tragico per il Brasile». Ma si è trattato – e questo si è ben guardato dal dirlo – di una tragedia annunciata.
La situazione critica del museo, che aveva celebrato il suo bicentenario lo scorso 6 giugno, era infatti nota e anche piuttosto evidente, tra infiltrazioni alle pareti e fili elettrici esposti: 10 delle sue 30 sale di esposizione erano chiuse, comprese alcune delle più popolari, come quella che ospitava lo scheletro di un dinosauro rinvenuto nella regione di Minas Gerais, interdetta al pubblico dopo un attacco di termiti. Per consentirne la riapertura, il museo aveva persino lanciato una campagna di finanziamento pubblico, raccogliendo 40mila reais (sui 50mila previsti).
Ma il colpo di grazia, per il Museo Nazionale è venuto dalla politica di smantellamento dello stato sociale portata avanti dal 2016, cioè dall’insediamento del presidente de facto Michel Temer in seguito al golpe contro Dilma Rousseff. E, in particolare, dall’approvazione della Pec 95, il contestatissimo emendamento costituzionale che ha congelato per 20 anni la spesa pubblica, anche in settori come l’educazione, la scienza e la tecnologia. Uno scempio che ha significato per il Museo Nazionale di Rio de Janeiro addirittura un taglio dell’85% dei finanziamenti.
Ma se Temer ha fatto finta di niente limitandosi a piangere la «perdita incalcolabile», ancora meglio ha fatto il ministro della Cultura Sergio Sá Leitao, cercando di scaricare la responsabilità sui governi precedenti. Riconducendo l’incendio ad «anni di negligenza», il ministro ha affermato che era pronto a partire un progetto di rilancio, ma che non ci sarebbe stato abbastanza tempo per realizzare gli interventi necessari ed «evitare la tragedia». E ha concluso con una lezioncina finale al Paese: «Che questo serva da lezione perché tragedie così non si ripetano in altri musei e in altre istituzioni».
È tuttavia un diluvio di critiche quello si è abbattuto sul governo da parte di personalità del mondo culturale e politico. «Quanto è avvenuto – ha dichiarato il direttore del Teatro Niemeyer Alexandre Santini – dimostra che è il Brasile intero a essere in fiamme e che è necessario agire con urgenza». Di un «duro colpo alla scienza nazionale» ha parlato il fisico Luiz Davidovich, docente della Ufrj, puntando il dito contro la negligenza delle autorità sul terreno scientifico. E sulla scienza brasiliana che sta andando a pezzi ha posto l’accento anche il fisico Ildeu Moreira, presidente della Sociedade Brasileira pelo Progresso da Ciência: «La possibilità che avvengano disastri come questo non fa che aumentare. Il patrimonio brasiliano viene distrutto ogni giorno dall’incuria».
«L’incendio – ha immediatamente denunciato Dilma Rousseff in un tweet – è il ritratto della trascuratezza e dei tagli» che hanno caratterizzato l’azione di Temer, dell’ex ministro dell’economia Henrique Meirelles (dimessosi per candidarsi alla presidenza della Repubblica) e del Psdb, il Partido da Social Democracia Brasileira. «Nel Paese dei ’tagli-a-tutto’ dei golpisti, che congelano per 20 anni gli investimenti sulla salute, sull’educazione e sulla cultura, compromettendo il futuro dei brasiliani – ha proseguito la presidente deposta -, anche il passato è trasformato in cenere. Il golpe tenta di trasformare la nostra storia in terra bruciata».
E non è mancato chi ha fatto notare che, se l’incendio è avvenuto ad appena 24 mesi dalla Pec 95, il provvedimento che ha messo un tetto per due decenni alle spese del governo per i servizi pubblici, non è neppure immaginabile cosa potrà avvenire nei prossimi 18 anni. A meno che, è chiaro, il governo che uscirà dalle elezioni del 7 ottobre non riesca a trarre in salvo la cultura, la scienza, la memoria e l’intero Paese.

La Stampa 4.9.18
Alex Sabbadini
L’ebreo con la Leica che fotografava i documenti fascisti
di Ariela Piattelli


Unavoidable Hope: la storia di Alessandro Sabbadini. I fascisti lo cacciarono dall’esercito italiano con le leggi razziali. Tornò a combatterli da uomo libero con la divisa dell’esercito americano. Unavoidable Hope è il libro di Roger Sabbadini, che racconta la storia del padre Alessandro, «Alex» per i suoi compagni d’avventura.
Alessandro aveva 23 anni quando ha lasciato l’Italia nel ’39, dopo l’emanazione delle leggi razziali fu congedato senza onori dall’esercito perché era ebreo. Arrivò negli Stati Uniti per diventare un Ritchie Boy, un soldato dell’U.S. Army addestrato ad interrogare il nemico e ricavare informazioni preziose. L’avvincente racconto di Sabbadini inizia quando il sergente Alex sbarca con gli alleati ad Anzio nell’operazione Shingle il 22 gennaio del ’44. Dalla spiaggia vede a Nettuno Villa Silvia, la residenza estiva di famiglia, oramai deserta.
Sono passati quasi cinque anni da quell’addio a Roma, e da allora non ha più avuto notizie dei suoi cari. Alex, che già aveva preso parte allo sbarco in Sicilia e ha combattuto in Nordafrica, arriva con l’incarico di esaminare i documenti del nemico e di fotografare ogni cosa. Sono pochi i soldati muniti di macchina fotografica, sta a lui documentare tutti gli avvenimenti come un vero reporter. Nella villa di famiglia mette il quartier generale dell’intelligence e dei Documents Men, ci sono 70 chilometri e migliaia di truppe nemiche da affrontare che lo dividono da Roma e dal conoscere il destino della sua famiglia, la strada è lunga e piena di pericoli. Ciò che lo spinge è la volontà di combattere contro i nazifascisti e l’inevitabile speranza di arrivare a Roma e di ritrovare salvi i parenti.
Ci vorranno lunghi mesi prima che Alessandro riesca a raggiungere la famiglia, ma la storia non finisce qui, e si sposta nel Nord Italia, dove gli alleati danno la caccia a Benito Mussolini. «Papà fu uno dei primi ad entrare a Roma a giugno del ‘44, perché la sua unità era sempre in testa. – spiega l’autore – Dei suoi famigliari non sapeva nulla, e quando li riabbracciò fu un momento pieno di emozione. Dopo Roma andò a combattere al Nord, gli americani volevano catturare Mussolini».
Quando Alex arriva a Gargnano, sul Lago di Garda, Mussolini era già in fuga. Entra per primo nel quartier generale del dittatore in Villa delle Orsoline. «Alex e i Documents Men arrivarono davanti alla scrivania di Mussolini. Era perfetta, intatta, c’erano oggetti personali, fotografie, una montagna di documenti e un tagliacarte. In genere i nemici sapevano distruggere i documenti prima della fuga, ma Mussolini non ebbe tempo».
Sta al sergente Sabbadini e alla sua squadra studiare e catalogare tutto il materiale raccolto. Nell’album del veterano ci sono le fotografie delle scatole traboccanti di documenti di Mussolini: «Alex aveva tutto il necessario per un soldato, ma la sua arma più importante era la Leica con la quale ha documentato ogni cosa». Assieme al racconto della storia di Alessandro Sabbadini, nel libro c’è il ritratto di una famiglia ebraica italiana. «Volevo raccontare la storia della mia famiglia e del coraggio di chi l’ha salvata. Dopo la guerra papà tornò a vivere negli Stati Uniti. Come molti veterani della Seconda guerra mondiale, era un uomo modesto, e non voleva parlare della sua esperienza da soldato. Un giorno trovai una grande scatola, con un album fotografico titolato War As I Knew It, tantissimi documenti, e l’uniforme dell’esercito. Lui aveva già 80 anni, ho preso una telecamera e l’ho intervistato per sei ore».
È così che Roger Sabbadini ha scritto il libro, «che è anche la storia degli ebrei italiani in quel periodo – conclude – perché qui in America, come in altri Paesi, sono in pochi a conoscerla».

La Stampa TuttoSalute 4.9.18
Addormentarsi in 120 secondi
La grande caccia al farmaco miracolsoche sappia come spegnere l’insonnia
Sei segreti svelati nel manuale dei marines
di Vittorio Sabadin


Tutti sanno che è difficile addormentarsi dopo una giornata agitata, ma le nostre preoccupazioni quotidiane sono niente a confronto di quelle dei soldati impegnati in una guerra. Da anni i marines americani dormono invece benissimo, grazie a un metodo messo a punto dal Pentagono e rivelato nel libro «Relax and Win: Championship Performance», scritto da Lloyd Bud Winter. Winter è stato un leggendario preparatore atletico, il padre dei successi di 27 campioni olimpici, e l’anima del campus della San José State University, soprannominata ai suoi tempi «Speed City», la città della velocità.
Le tecniche di relax insegnate da Winter sono così efficaci che il suo libro è ancora richiestissimo e le copie vanno letteralmente a ruba: su Amazon si vendono a 280 dollari l’una, una cifra molto alta per un manuale di tecnica che spiega come la capacità di rilassare il corpo e la mente sia alla base di ogni successo. Online le teorie di Winter sono tornate al centro dell’attenzione e il metodo segreto dei marines per addormentarsi nell’arco di due minuti è giudicato molto efficace.
L’insonnia si sta rivelando uno dei mali del secolo: affligge il 30% della popolazione adulta e oltre il 50% degli anziani. Ma le preoccupazioni maggiori vengono dai ragazzi, il 10% dei quali dorme meno di sei ore per notte. Un adolescente su due, prima di addormentarsi, passa almeno un’ora a smanettare su smartphone e tablet. Molti adulti fanno lo stesso e non riescono a lasciare in un’altra stanza i dispositivi elettronici. La luce emessa e i bip che annunciano tweet e WhatsApp sono un disturbo che rende agitato il sonno, causando nel lungo periodo gravi patologie, dal diabete alle disfunzioni cardiache.
Il metodo dei marines contro l’insonnia può dunque funzionare a patto che si osservino le precauzioni raccomandate da tutti gli esperti, la prima delle quali è proprio quella di liberare la camera da letto da ogni dispositivo elettronico e la propria mente dall’idea che i «like» di Facebook siano più importanti e urgenti del nostro benessere fisico.
Ecco dunque il segreto dei marines per addormentarsi:
1. Rilassare il volto. Ogni muscolo della testa va rilassato, cominciando dalla lingua, dalla mascella e dai muscoli intorno agli occhi.
2. Abbassare le spalle. Vanno portate nella posizione più bassa possibile senza sforzi. Dopo averlo fatto, rilassare nell’ordine la parte alta e bassa di un braccio, poi dell’altro.
3. Espira a rilassa. Respirare con calma e durante l’espirazione rilassare il più possibile il torace.
4. Distendere le gambe. Mantenendo sciolto e libero il resto del corpo, completare l’operazione, rilassando le gambe a partire dalle dita dei piedi.
5. Liberare la mente. Dopo 10 secondi in stato di totale riposo, rilassare la mente con visioni positive, anche immaginando paesaggi nei quali ci si vorrebbe trovare.
6. Non pensare. Concludere il training ripetendo più volte nella mente «non pensare».
Dopo una settimana di adattamento questa routine dovrebbe consentire di addormentarsi in soli due minuti. Non resta che provare.

La Stampa TuttoSalute 4.9.18
Il Genoma non mente mai: la nostra salute  è legata agli altri
di Nicla Panciera


La ricerca scientifica, e in particolare quella in ambito biomedico, è sempre più complessa e i suoi risultati, ormai, si susseguono a ritmo sempre più accelerato, producendo nuove evidenze che hanno un pesante impatto sulla vita dei singoli e della società.
«La complessità del nostro sistema di conoscenze è analitica e gerarchica, riguarda chi pratica la ricerca, ma le ricadute sulla quotidianità sono immediate», spiega Carlo Alberto Redi, genetista, professore di zoologia all’Università di Pavia e accademico dei Lincei, intervenuto al Festival della Mente di Sarzana, in un dialogo condotto con Manuela Monti, ricercatrice dell’Irccs-San Matteo di Pavia. La combinazione tra la crescente sofisticazione delle informazioni scientifiche e la velocità con la quale si susseguono sta creando un abisso tra ciò che si sa e le decisioni sul da farsi che ne dovrebbero conseguire. Un vero e proprio abisso «da colmare, fornendo a tutti quanti gli strumenti concettuali necessari per capire gli avanzamenti della ricerca biologica. Stiamo parlando del corpo e ciò richiede che l’individuo dica la sua e decida in prima persona».
Cure e doveri
Si pone, quindi, un problema di transizione, nel quale le istituzioni devono «equipaggiare» i cittadini in modo adeguato per consentire loro di formarsi autonomamente delle opinioni affidabili e di prendere decisioni consapevoli sul proprio corpo e sulla propria salute. Per Redi, «la scienza porta a nuovi diritti, come quello di essere informati e di ricevere le cure migliori, ma anche a nuovi doveri, come quello di informare e informarsi per decidere senza delegare completamente ad altri». E i decisori devono fare in modo che «le scoperte non siano fonte di nuove diseguaglianze, ma servano a promuovere il benessere dell’intera comunità - continua il genetista -. Non soltanto per quel dovere morale di colmare le disuguaglianze che dovrebbe muovere ogni essere umano, e sul quale non voglio neppure dubitare, ma anche per l’aspetto pragmatico di risparmio economico che ne conseguirebbe. L’imperativo è etico ed economico».
Come a dire che le cure e le decisioni sulla salute, se condivise in modo informato, possono e dovrebbero portare al miglioramento del benessere e della ricchezza di tutta la comunità.
Quello di comunità, tema del Festival di quest’anno, sembrerebbe un concetto controcorrente, in una società tutta tendente all’individualismo e in cui ognuno è origine e misura delle cose. Eppure - aggiunge Redi - «le evidenze scientifiche mostrano che il contesto sociale di disuguaglianza non è accettabile». L’epigenetica ha dimostrato che le disuguaglianze marcano il nostro genoma, contribuendo al divario sociale in modo più radicale di quanto non si credesse. Quel «cappottino proteico» che avvolge il nostro Dna e che influisce sull’espressione dei geni è, infatti, sensibile all’ambiente. Condizioni sfavorevoli o stressanti portano a modificazioni che alterano il funzionamento del nostro codice genetico anche nelle cellule germinali. «Così l’individuo trasmette alla prole le conseguenze di quello che ha sofferto dal punto di vista sociale e ambientale».
Generazioni future
I danni delle disuguaglianze hanno il doppio effetto di propagarsi alle generazioni future e di danneggiare quelle che si stanno sviluppando. «Gli studi mostrano che una scorretta alimentazione e un’inadeguata stimolazione psicosociale ha delle pesanti conseguenze fino a provocare il cosiddetto “stunting” (l’arresto della crescita), definito dall’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, come la compromissione della crescita e dello sviluppo dei bambini - spiega Manuela Monti -. Anche l’ambiente emotivo è rilevante, fin da prima della nascita, e porta a variazioni del livello del cortisolo, ormone dello stress, che influenzerà il comportamento futuro». L’infanzia è, di conseguenza, un periodo cruciale in cui si pongono le basi per la salute cognitiva, metabolica e anche cardiovascolare dell’adulto di domani.
Le nuove frontiere della ricerca biomedica sembrano svelare sempre di più, quindi, che la nostra salute è biologicamente legata a quella degli altri. Se tu stai bene, sto meglio anch’io. «Discriminare non paga - commenta Redi -. E, anzi, l’altruismo e la reciprocità sono gli atteggiamenti vincenti senza i quali oggi non saremmo qui. Consentire a ciascuno il pieno e completo sviluppo delle proprie potenzialità, realizzando una democrazia cognitiva, porterà benefici all’umanità intera».