venerdì 28 settembre 2018

La Stampa 28.9.18
Corbyn, l’estremismo di sinistra
Guida la sfida all’establishment
di Marco Carnelos


Jeremy Corbyn ha assunto casualmente la leadership del Labour Party inglese, dopo una lunga militanza radicale, terzomondista, anti-establishment, anticapitalista, anti-Nato, e filopalestinese. Nel 2015 fu inserito nelle nomination solo come prova di pluralismo interno; completamente all’opposto dei suoi predecessori glamour, Blair e Miliband, vinse con il 59%. Con lui il partito è passato dal 30% nel 2015 al 40% due anni più tardi; un’affermazione che ha sconfortato i conservatori e lo stesso establishment laburista che lo ha contestato veementemente. Nel 2016, dopo la vittoria del Brexit, i suoi deputati lo hanno sfiduciato 172 voti contro 40 per il suo tiepido sostegno al Remain; nel successivo Congresso del partito, Corbyn è arrivato al 62%. Se il Governo May implodesse sulla Brexit, egli potrebbe vincere le elezioni. Si tratta di una prospettiva credibile: la piattaforma negoziale di Theresa May non piace né agli altri leader Ue né al suo stesso partito. Corbyn ha ora aperto all’ipotesi di un secondo referendum, più per pressioni interne al Labour (il 90% degli iscritti è pro-Remain) che per convinzione. Egli preferirebbe infatti nuove elezioni per avere più libertà di manovra rispetto all’alternativa secca di un nuovo referendum.
Coerenza e autenticità sono il segreto del suo successo. Non ha mai cambiato posizione, non ha mai fatto compromessi con l’establishment economico-finanziario, e ora che è in corso una rivolta contro quest’ultimo ne raccoglie i frutti; ha coagulato in una piattaforma di estrema sinistra, con lo slogan «For the Many not the Few», la rabbia dei tanti scontenti e marginalizzati da neoliberalismo e globalizzazione. Come Trump, ma da sinistra, è ritenuto «un’arma per assassinare le élites». Corbyn ha tuttavia un punto debole, le accuse di antisemitismo per la sua militanza filopalestinese. I tre quotidiani ebraici britannici definiscono «minaccia esistenziale» un suo eventuale Governo. Una polemica in cui la lotta all’antisemitismo, il diritto di critica a Israele e il sostegno ai palestinesi si confondono. I corbinisti, infatti, giudicano strumentali e diffamatorie tali critiche, miranti a fermare il sostegno alla causa palestinese, che si rafforzerebbe con la premiership di Corbyn; nonché come un tentativo di compromettere un’affermazione elettorale che inquieterebbe l’establishment britannico. Il contesto è reso inoltre incandescente anche dalle politiche antipalestinesi di Trump, dalla repressione delle manifestazioni a Gaza e dalla legge sulla Nazione adottata in Israele. Corbyn ha sicuramente toccato la sensibilità di molti ebrei, ma definirlo antisemita pare eccessivo vista la sua lunga militanza antirazzista.
Il vero rischio è che i virulenti attacchi galvanizzino i sostenitori più radicali del leader laburista, alimentando, paradossalmente, ulteriori rigurgiti antisemiti. Le critiche mediatiche e delle organizzazioni ebraiche britanniche, nell’attuale clima di rivolta anti-élites, potrebbero rinfocolare involontariamente deprecabili stereotipi antisemiti che, purtroppo, associano ancora ebrei, élites e controllo dei media. Infine, una fondamentale battaglia di valori quale quella contro l’antisemitismo rischierebbe di essere imperdonabilmente sminuita a strumento di lotta politica.