venerdì 28 settembre 2018

La Stampa 28.9.18
Deficit al 2,4% del Pil, lo spread sfonda quota 270. Piazza Affari giù con le banche

Apertura in netto calo per Piazza Affari, dopo che il governo ha approvato la manovra finanziaria che prevede un rapporto tra deficit e pil a quota 2,4%. L’indice Ftse Mib perde il 3%, con Intesa e Unicredit che cedono oltre il 6% e tutto il settore del credito sotto la pioggia di vendite in parallelo a quella che sta colpendo i titoli di Stato italiani.
Intanto continua a indebolirsi l’euro nei confronti del biglietto verde: la moneta unica passa di mano a 1,1628 (ieri a 1,1671). In rialzo il petrolio: il wti, contratto con consegna a novembre, guadagna lo 0,2% a 72,24 dollari al barile.

Repubblica 28.9.18
La manovra da 33 miliardi. I provvedimenti nel testo
Tolti 5 miliardi a scuola, assistenza sanità e investimenti

Nessun accenno, nelle dichiarazioni di ieri, ai tagli di spesa che pure si abbatteranno sui cittadini con la prossima manovra. E qui non si parla solo dei 3-4 miliardi di sacrifici che verranno chiesti, si ipotizza, ancora una volta e in modo lineare a tutti i ministeri. C’è un numerino, inserito nella bozza del Pnr — il Piano nazionale delle riforme che accompagna la nota al Def — che fa pensare a più dolorosi interventi.
Nelle tabelle di quel documento, come nota il deputato di LeU Stefano Fassina, si prevedono altri 5 miliardi di tagli al welfare, dunque a «sanità, scuola, assistenza, pensioni, lavoratori pubblici, investimenti». Lo si deduce da quello «0,1% di crescita nominale della spesa pubblica primaria netta». Livello che si tradurrebbe appunto in una rasoiata da 5 miliardi sul welfare.

Andrea Filippi, segretario della Fp Cgil medici
il manifesto 28.9.18
Sanità senza soldi e medici senza contratto: in piazza a ottobre
Tagli al Welfare. Personale tagliato di 20mila unità, il rinnovo manca dal 2010. La ministra Grillo prova a reagire: chiederò un miliardo in più. La Fp Cgil: c’era già
di Massimo Franchi


È il capitolo più dimenticato della manovra. Di sanità non parla nessuno. E solo dopo l’annuncio dello sciopero dei medici – senza contratto da quasi 9 anni – il ministro Grillo ha deciso di pronunciarla con una promessa che dovrà trovare conferma.
Al mattino infatti è arrivato l’annuncio dei sindacati: una o più giornate di sciopero, manifestazione e sit-in sotto parlamento e sedi delle regioni. «La situazione è preoccupante e ci ha portato a interrompere le trattative al tavolo per il rinnovo del contratto. Proclamiamo lo stato di agitazione, verranno individuate giornate di sciopero, che potrebbero essere più di una, a ottobre», annuncia il segretario dell’Anaao Assomed Carlo Palermo.
Risorse, contratto e assunzioni, sono tre le richieste che arrivano dai medici. «Per garantire l’indennità di esclusività servono 60 milioni di euro, mentre per garantire il rinnovo del contratto dei medici, fermo dal 2010, servono 500 milioni di euro, che erano già stati previsti e inseriti nella manovra dello scorso anno», spiega Andrea Filippi, segretario della Fp Cgil medici. «Ad oggi non ci sono risorse per garantire un aumento del 3,48% dello stipendio dei medici dirigenti, come per tutti gli altri dipendenti pubblici» che hanno rinnovato in quest’ultimo anno. Per questo motivo era stato proclamato uno sciopero alcuni mesi fa, poi revocato. «Nel frattempo – prosegue Filippi – abbiamo portato avanti responsabilmente un tavolo tecnico con l’Aran, avendo la convinzione che si sarebbero trovate anche per noi risorse per garantire il 3,48% ma ad oggi non ci sono. Le regioni dichiarano di non averle accantonate».
Proprio le regioni vengono accusate di creano «un conflitto tra utenza e chi deve garantire il servizio che è ormai una vecchia storia»: in pratica accusano i medici «se danno soldi a noi, loro non possono garantire i Lea (i Livelli essenziali di assistenza, ndr). È una politica scandalosa», attacca Filippi.
Col blocco del turn over del 2004 e con la norma – mai modificata – che impone un taglio dell’1,4 per cento alla spesa ogni anno, i medici del Ssn sono calati di almeno 20mila unità passando da 160 a 140mila medici e dirigenti sanitari (psicologi, biologi, ecc..). Senza considerare il boom del precariato.
Al pomeriggio arriva la risposta-promessa del ministro Giulia Grillo. «Mi sto battendo per avere più risorse possibili per la sanità pubblica». «Per l’anno 2019, il livello del finanziamento del fabbisogno sanitario standard a cui concorre lo Stato sarà incrementato di un miliardo rispetto alle disponibilità del 2018».
Ma il rischio è quello di una «promessa finta, di un gioco delle tre carte», accusano i sindacati. «Il governo Gentiloni aveva già stanziato un miliardo in più sul 2018. Se la ministra Grillo, finora molto disponibile nei nostri confronti, si riferisce ad un miliardo in più rispetto al 2017 significa che non ci sarà nessun aumento e che i soldi per il rinnovo del nostro contratto continueranno a mancare», chiude Filippi.

La Stampa 28.9.18
Spallata finale alle regole europee
di Marcello Sorgi


È una sfida all’Europa dei vincoli di bilancio e del rigore la decisione presa ieri dal Consiglio dei ministri del primo tra i Paesi fondatori dell’Unione finito in mano ai sovranisti populisti: questo, e non altro, è l’opzione scelta dai giallo-verdi di forzare la mano al ministro Tria (che non s’è dimesso, per evitare una crisi ancora peggiore di quella che adesso si teme) per ottenere un innalzamento del rapporto deficit-Pil al 2,4%. La commissione avrebbe accettato un compromesso al 2% (oltre il doppio dello 0,9 previsto) per evitare una rottura che adesso è nell’aria. Ma Salvini e Di Maio hanno deciso di andare avanti, convinti forse che in un anno preelettorale come quello che si prepara, e con l’alibi della Francia anche se le condizioni sono diverse, si trattava di aprire la strada a una serie di richieste analoghe che potrebbero venire da altri Paesi partner dell’Ue. Naturalmente non è detto che questo avverrà. Quel che è sicuro è che la decisione di andare allo scontro dei due leader dell’esecutivo giallo-verde segna l’apertura di una campagna elettorale in cui cercheranno di dare una spallata alle regole europee. Un calcolo azzardato. Fino al 15 ottobre la Commissione aspetterà di conoscere il testo della legge di stabilità; poi potrebbe entro due settimane rispedirlo indietro chiedendo al governo di riscriverlo. In caso di rifiuto, il secondo passo avverrebbe a novembre, quando la Commissione dispone delle proprie previsioni di crescita e in quel caso potrebbe rilevare la violazione e chiedere all’Ecofin di procedere con le sanzioni. È su questa complicata procedura che Salvini e Di Maio hanno scommesso, puntando sul fatto che il tempo è a loro favore, più s’avvicinano le elezioni e meno la Commissione può mordere. Ma non tenendo conto che i mercati e le agenzie di rating sono molto più svelti dei cosiddetti burocrati europei.

Corriere 28.9.18
La scelta della forzatura
Dura da tempo il logoramento nei confronti di Tria. La maggioranza ha voluto imporre la superiorità dei «politici» sui «tecnici»
di Massimo Franco


Sono settimane che il Movimento 5 Stelle indica il suo ministro dell’Economia preferito. E il nome che viene fatto non è mai quello di Giovanni Tria. Si tratta di un esercizio di logoramento quotidiano nei confronti di colui che è diventato, suo malgrado, simbolo della tenuta dei conti pubblici; ma è anche un indizio di nervosismo. Quando infatti si chiede come mai la maggioranza non lo cambi, la risposta è che «per ora» non si può. Per questo, l’unica manovra che Luigi Di Maio può tentare, assecondato in maniera sorniona dal vicepremier della Lega, Matteo Salvini, è di incalzare Tria; di piegarlo perché realizzi la «manovra del popolo» del Movimento. Con il rischio che la corda si spezzi, però. Decidere che bisogna sfondare il tetto del 2% nel rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo è una sfida non solo a lui ma all’Europa e ai mercati finanziari. E il fatto che la maggioranza si sia riunita prima con il premier Giuseppe Conte, Di Maio e Salvini senza di lui e senza il ministro agli Affari europei, Paolo Savona, segnala una volontà prepotente di imporre la superiorità dei «politici» sui «tecnici». Il sottinteso è un «prendere o lasciare» che implica due possibilità, per Tria: cedere o dimettersi. La soddisfazione espressa ieri sera tardi da Di Maio e Salvini per l’intesa raggiunta al 2,4% è una vittoria controversa. Il rischio di screditare la manovra finanziaria sul piano internazionale è più concreto. L’Italia si espone alla speculazione finanziaria e a un declassamento del suo debito. Il sospetto, tuttavia, è che ai contraenti del «governo del cambiamento» queste incognite importino meno dei calcoli elettorali. L’ossessione di Di Maio è il fronte interno ai 5 Stelle, che lo aspetta al varco ed è pronto a sfruttare ogni suo passo falso. Sono i settori che considerano perdente la competizione con Salvini; che non hanno gradito i pasticci e i ritardi sulla ricostruzione del ponte crollato a Genova un mese e mezzo fa; e che volevano vedere se riusciva a portare a casa il reddito di cittadinanza. Ci è riuscito, e lo comunica trionfalmente. D’altronde, solo una strategia della forzatura può soddisfare il grosso di chi ha votato M5S e Carroccio assecondando la vulgata di un nuovo inizio e della fine del vecchio ordine. Che un sistema sia finito è indubbio. Ma il nuovo inizio per ora è una miscela di improvvisazione e di esasperazione a tavolino dei toni. Si discuta di conti pubblici, elezioni al Csm, vincoli con l’Unione Europea, la maggioranza attacca e recrimina. Cerca lo scontro per legittimare contraddizioni e divergenze nelle sue file. Ma il prezzo da pagare rischia di essere molto alto. A forza di vedere nemici immaginari, spunteranno quelli veri. E i «numerini», come li definiscono con disprezzo nell’esecutivo, si prenderanno una rivincita: non tanto su Movimento 5 Stelle e Lega, ma sulle famiglie e sulle imprese italiane.

il manifesto 28.9.18
Curare le ferite della sinistra e ripartire senza bandierine
Sinistra. Fare paura per rispondere alle paure. Il ministro di polizia alimenta l’onda nera. Va respinta trovando nuove idee e parole lontane dal gergo di una sinistra esplosa
di Marco Revelli


Giorno dopo giorno vediamo gonfiarsi la nube nera che in parte ha già occupato, la nostra esangue democrazia. Ha il volto rozzo di un ministro di polizia e una voce potente che dice di essere vox populi.
Divora e dissolve ogni giorno un pezzo del nostro patrimonio civile: l’universalismo dei diritti, il principio di reciprocità e il rispetto per l’altro, il primato della legge e la certezza del diritto, la memoria storica dei nostri orrori e dei nostri peccati travolta dall’urlo roco “prima gli italiani”… Ha divorato anche, in 100 giorni, il proprio partner di governo, riducendone ai minimi termini l’audience, colonizzandone il linguaggio, ridimensionandone l’agenda. Oggi il governo gialloverde, il governo Conte, è per i più il governo Salvini, che vede crescere nei sondaggi il proprio capitale elettorale perché dimostra di saper occupare tutta la scena e soprattutto di essere “forte” (dunque credibile). La Forza è tornata a essere risorsa politica principale. Non la Ragione. Non la Giustizia. Nemmeno l’Onestà. Nessuna delle classiche virtù repubblicane. Ma la semplice, nuda, ostentata Forza (la risorsa primordiale di ogni comando), messa al servizio della Paura. Della capacità di far paura come risposta alle paure diffuse nel “popolo”: non ai loro bisogni, non ai loro diritti lesionati, ma a quelle paure su cui Salvini galleggia, e intende galleggiare a lungo.
Diciamocelo pure. A Matteo Salvini di risolvere il problema delle migrazioni, di ridurre l’insicurezza dei cittadini, di levare dalla strada le figure che a quell’insicurezza danno corpo, non gliene può fregare di meno. Anzi, lavora per diffonderla e aggravarla. Il decreto che porta il suo nome va esattamente in questa direzione: le parti più oscene del suo dispositivo (la riduzione ai minimi termini dei permessi umanitari, lo smantellamento di fatto degli Sprar, il taglio della spesa per “integrare”) renderanno meno controllabile e più “inquietante” quella massa di poveri tra i poveri, come appunto inquietante è tutto ciò che non è pienamente riconoscibile e integrabile in procedure condivise. Ne spingeranno una parte nell’ombra e nel “mondo di sotto”. Garantiranno manodopera a poco prezzo per la criminalità più o meno organizzata. E permetteranno alle sue camicie verdi di continuare a capitalizzare su quel magma informe e sul disagio che ne consegue (la profezia che si auto-adempie).
La sentiamo venire quell’onda nera. E ne siamo spaventati, perché sappiamo che è già stato e per questo è possibile. Siamo già caduti: noi, l’Europa… Basta leggere l’incipit della quarta di copertina dell’ultimo libro di Scurati M. Il figlio del secolo – «Lui è come una bestia: sente il tempo che viene. Lo fiuta. E quel che fiuta è un’Italia sfinita, stanca della “casta” politica, dei moderati, del buonsenso» -, per sentire un brivido nella schiena. Parla della resistibile ascesa di Benito Mussolini al potere. Sappiamo cosa significa – lo vediamo in cronaca -, ma non sappiamo come resistere. Le nostre parole suonano stracche. Parlano a noi, se va bene. Ma non alla massa che lo segue come la tribù segue lo sciamano che ne esorcizza i terrori. Quella segue le “sue” parole, che non ammettono repliche perché sono vuote di senso ma hanno un suono profondo (hanno l’opacità della pietra), non esprimono ragionamenti ma sentimenti, umori, rancori di quanti si sentono “traditi” e per questo non credono più a nessun altro linguaggio che non sia quello della vendetta, del cinismo e del ripudio dei propri stessi antichi valori (le tre maledizioni che James Hillmann associa alle risposte perverse a un tradimento subito).
Riportarli al “lume della ragione” – organizzare una qualche Resistenza – vorrebbe dire in primo luogo tentare di curare quella ferita. Risarcire e riparare. Dovrebbe essere questa la strada per erodere quel seguito limaccioso su cui prospera il fascino indiscreto del Demagogo. Ma per far questo occorrerebbe un nuovo linguaggio, lontano dal gergo stantio di una sinistra esplosa. E soprattutto una nuova forma di pensiero: un pensiero non omologato, non ripetitivo del recente passato, non conforme ai dogmi del pensiero unico fino a ieri dominante. Anche questo dobbiamo dircelo con chiarezza: l’opposizione che oggi viene “dall’alto”, l’opposizione dei columnist dei principali giornali, l’opposizione di Repubblica, del Corriere, de La Stampa, così come quella di Bankitalia, della burocrazia ministeriale, dei banchieri e dei finanzieri è benzina sul fuoco populista. Non è richiamando i vincoli di bilancio e le tavole di calcolo di Bruxelles. Il “rigore dei numeri” e della matematica in contrapposizione al “linguaggio magico” degli altri (così ieri su La Stampa). Difendendo la privatizzazione financo dei ponti crollati o la legge Fornero nella sua (crudele) integrità. Ed erigendo a eroi i commissari europei messi a guardia della loro austerità, che si prosciugheranno quei bacini dell’ira. Non è difendendo l’ Europa così com’è che si eviterà il contagio.
È, al contrario, lavorando con umiltà e senza velleità di primogeniture alla costruzione di un fronte ampio trans-nazionale, europeo, di forze determinate a combattere l’austerità e l’avarizia matematica in nome di un reale programma di redistribuzione della ricchezza e di restituzione dei diritti ai lavoratori e ai cittadini, riconoscendo e denunciando i “tradimenti” consumati e le assenze più o meno colpevoli. C’è chi ci sta lavorando. Auguriamoci che lo faccia assumendo un pensiero largo, senza recinti né bandierine.

Repubblica 28.8.18
La sedia vuota del pd
di Carlo Feltrinelli

L’autore è presidente della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Caro direttore, vorrei condividere con lei e i suoi lettori una domanda aperta che rivolgo al Partito democratico. Scrivo mosso davvero dagli intenti più costruttivi, ma sollecitato da un’amara riflessione che mi è emersa spontanea a margine della presentazione della stagione di attività della Fondazione intitolata a mio padre che abbiamo voluto denominare Stagione Capitale, e che si è aperta ieri alla presenza del presidente della Camera e del sindaco di Milano, oltre che di centinaia di cittadini appassionati.
La Stagione di lavoro del nostro laboratorio permanente sulle evoluzioni della società si concentra sulla grande e ineludibile sfida di ripensare la democrazia e il modello di sviluppo che abbiamo seguito nel corso degli ultimi decenni. Pensiamo sia fondamentale superare le contraddizioni del capitalismo nelle sue diverse forme contemporanee e profilare nuovi modelli relazionali ed economici, improntati a criteri di equità, sostenibilità e giustizia sociale.
Al centro dell’indagine vi è l’evoluzione del capitalismo delle grandi piattaforme, la tecnofinanza, quella forma di capitalismo geneticamente modificato, nutrito di liquidità e sviluppato nei laboratori dei tassi zero, che è in grado di sopportare anni di perdite e allo stesso tempo di distruggere ogni tipo di concorrenza. E poi ancora: l’impatto della tecnologia sulla politica, dove l’enfasi del mondo digitale sulla velocità inibisce la riflessione; gli effetti sociali di questa fase storica, per parlare di chi è escluso dall’incedere travolgente dello sviluppo tecnologico; il futuro della democrazia e dei processi di rappresentanza e la loro capacità di riformare le regole del capitalismo per rendere sostenibile l’impatto sociale del cambiamento nel mondo del lavoro.
Tutto questo per noi significa Rethinking Capitalism. Non una polverosa critica a quello che è stato, né tantomeno una nostalgica evocazione a come avremmo potuto vivere meglio e diversamente se avessimo scelto strade diverse. Ma uno sguardo al futuro, alle priorità e alla decisiva, capitale, stagione che stiamo vivendo oggi, in Europa. Le nostre attività di ricerca ci dicono che vi sono alcuni imprescindibili punti fermi da cui partire per costruire ipotesi di soluzioni. Chiamiamo a raccolta alcuni degli esponenti più autorevoli del dibattito nazionale e internazionale perché ci si confronti nel merito delle diseguaglianze, della crisi della democrazia, delle problematiche legate al lavoro e al senso dello Stato.
Sentiamo il bisogno di attingere a tutte le nostre risorse e ambizioni in questo momento perché guardiamo ai mesi che ci separano dalle prossime elezioni europee con una grande e crescente apprensione. Un’Europa a marca sovranista, demagogica, improntata sul nazionalismo economico e sull’odio per gli stranieri ci fa orrore e ci spaventa. La nostra convinzione è che per scongiurare questa sciagura dobbiamo tutti studiare, informare, comunicare e dare il nostro piccolo contributo per un nuovo patto di civiltà.
La Stagione Capitale che ho provato a descrivere nei suoi argomenti e nella sua urgenza ha una dedica, che ci sentiamo di fare con tutto lo spirito costruttivo di cui siamo capaci: è dedicata a quella sinistra che sembra aver reciso il legame con le sue ragioni fondative e la cui debolezza produce oggi un deficit per il nostro sistema democratico. Una sinistra che non ha mantenuto molte delle sue promesse, che non sempre ha operato per la giustizia sociale, che ha tentennato sui principi e spesso li ha traditi. Con molta umiltà abbiamo pensato che un programma così radicale e fondato sui temi cardine della nuova stagione europea potesse essere di interesse del Partito democratico. Nella nostra iniziativa pubblica ne abbiamo notata l’assenza.
Ci chiediamo come sia possibile che questi contenuti, questa rinnovata centralità del bisogno di cultura, questa pratica di dibattito e di confronto continuo che intendiamo praticare e promuovere lascino indifferente e assente il Partito democratico. Com’è possibile che la sua agenda quotidiana ruoti attorno ai tweet degli avversari invece di aprirsi al mondo e confrontarsi con il disegno di quella utopia necessaria a scaldare i cuori e ad aprire una nuova fase, che in una parola possiamo chiamare futuro.
Con i nostri mezzi cerchiamo di fare la nostra parte. Invitiamo davvero tutti al nostro tavolo, convinti che senza una dimensione collettiva e condivisa dell’indagine del presente non sia possibile recuperare il tempo perduto e muoversi con slancio in avanti. Non vorremmo dover sempre tenere una sedia vuota.

Corriere 28.8.18
Confesso che ho odiato
Le sue frasi sull’Aquarius diventarono un caso. Ora Edoardo Albinati replica
Polemiche In «Cronistoria di un pensiero infame» (Baldini+Castoldi) la genesi di una vicenda controversa
di Luigi Manconi


Una meditazione sull’odio: così potrebbe definirsi quella sviluppata da Edoardo Albinati nella sua Cronistoria di un pensiero infame (Baldini+Castoldi). Una «confessione» — parole dello stesso autore — talmente spietata e priva di consolazione che, per un verso, esclude qualsiasi forma di compiacimento narcisistico e qualunque futilità scandalistica e, per l’altro, talmente autentica e ridotta all’essenziale da non comportare, come si vedrà, la perdita dell’innocenza. In quanto dettata da una assoluta e ineludibile necessità. Tutto nasce a ridosso della vicenda della nave Aquarius, che lo scorso giugno non trovò approdo in alcun porto italiano e stette alla deriva nel Mediterraneo, col suo carico umano, per 10 giorni. Davanti al piccolo pubblico di una libreria milanese, Albinati si trovò a dire: «Ho desiderato che su quella nave morisse qualcuno, morisse un bambino», così che la responsabilità cadesse sul governo italiano che aveva disposto la chiusura dei porti. La polemica ebbe dimensioni vaste e le reazioni furono aggressive.
La risposta di Albinati, che allora decise di non replicare, arriva con questo libretto di 106 pagine. Dicevo, il sentimento di odio che Albinati qui esprime è innocente, in quanto non è strumentale ad alcunché. Non è cioè il mezzo per uno scopo ulteriore, e tantomeno l’arma per un obiettivo generale, come è proprio del ricorso alle emozioni nell’arena politica. La sua è una pulsione primaria, che tale resta. È la risposta che si fa e che si sa ingiusta, e che appare come l’unica possibile all’ingiustizia patita, per conto proprio o per conto di altri.
Nel pensare quella enormità — augurarsi la morte di un innocente — per colpire con un’infamia l’infamia, Albinati restituisce all’odio tutta la sua potenza distruttiva e lo sottrae alla mondanità dell’attuale discorso pubblico, separandolo radicalmente dal suo uso politico congiunturale. Infatti, come la gran parte dei vizi e delle virtù, anche questo sentimento oggi si è banalizzato, diventando consumo di massa. Siamo ormai lontani dallo scenario della politica classica, quando l’odio era componente costitutiva del conflitto per il potere e l’assassinio e la guerra ne rappresentavano le manifestazioni primarie. I processi di civilizzazione hanno mediato, senza annullarlo, quell’elemento di violenza che pure — quando si manifestava come antagonismo etnico o di classe — era più agevolmente riconoscibile da parte degli schieramenti avversi. La politica via via ha ridotto la propria dimensione bellica e cruenta rendendola metaforica, e ha neutralizzato e controllato quell’elemento di violenza, assumendo i nemici come avversari e ricorrendo a un repertorio di lotta in prevalenza pacifico. Ma l’odio ha continuato a covare nei sotterranei della politica e nel corpo sociale. Oggi per decifrarlo occorre avere coraggio e stomaco per guardare all’esibizione svergognata delle purulenze che il discorso pubblico sulla Rete — o comunque dalla Rete eccitato — autorizza a ostentare. Un flusso incontinente e sordido indirizzato contro chiunque, il primo che passa, il bersaglio mobile. L’odio in Rete come logorrea nevrotica e lutulenta, sopraffattrice e nichilista. Il linguaggio della politica (non tutta, va da sé) ne è una copia. Sia gli odiatori della Rete che quelli della politica politicante sono consapevoli di quale sia la sostanza che si agita nel fondo e la materia pericolosa che sollecitano.
Albinati è incondizionatamente fuori da tutto questo, le sue sono le «considerazioni di un impolitico» che si ispirano alla concezione tragica di un pensiero forte. A quella psicopatologia della parola propria del web selvatico e della Politica dell’Ira, l’autore contrappone i corpi veri, gli organismi che vivono e che soffrono. La vita umana. O, con Primo Levi, la «materia umana». Se la politica scherza (meglio: crede di scherzare) col fuoco e con l’odio, tanto — si sa — è politica, ovvero messa in scena, allora tocca all’impolitico dire: l’odio è cosa troppo seria per lasciarla maneggiare ai politicanti.
Se si vuole davvero indagare nel profondo, dove nascono le emozioni primarie, bisogna «rimestare nel torbido». In quello degli altri e di sé stessi. Bisogna andare «alla pancia dell’intellettuale», al suo lato oscuro. A scoprire che «al punto in cui siamo» anch’egli prende le sembianze di una bestia. Che si lancia in un feroce corpo a corpo: cinismo contro cinismo. Sullo stesso campo si affrontano due forze uguali e opposte, eppure così sbilanciate. Da una parte il cinismo di governo, che dispone della vita e della morte dei naufraghi. Dall’altra quello immateriale di Albinati: il suo cinismo è un pensiero che assume necessariamente la forma astratta della proiezione di quei corpi veri e sofferenti in un bambino «ipotetico» del quale non sappiamo nulla (quanti anni ha? come si chiama? ha la maglietta rossa?), se non il destino di morte. Un piccolo grumo di ingiusta sofferenza e salsedine. Attenzione: l’immaterialità del cinismo di Albinati e la sproporzione della lotta contro il cinismo di governo non è richiamata nemmeno dallo stesso come un’attenuante o una giustificazione. È, al contrario, la rivendicazione di una sorta di diritto di rappresaglia, con l’unica arma di cui si dispone: la parola. Ovvero la parola come tentativo estremo di avvicinarsi a sfiorare la verità. Che poi vuol dire trovare un senso. La parola scorticata che si batte e che può resistere solo se il luogo dello scontro resta irrimediabilmente altro rispetto a quello della politica. Il campo di Albinati è quello dei principi fondamentali. Ed egli non può fare altro che metterlo crudelmente sotto i nostri occhi: «Ci viene di soccorrere l’altro perché intuiamo in modo assolutamente pre-logico che la prossima volta potrebbe toccare a noi di aver bisogno di chiedere aiuto».
È così: la società organizzata nasce proprio per rispondere in maniera efficace, attraverso un’attività di reciproca tutela, alla rivelazione della vulnerabilità di chi si trovi solo e in stato di pericolo. È il mutuo soccorso. Per questa ragione negare o indebolire il diritto/dovere al salvataggio corrisponde a erodere la stessa identità umana che risiede in quel passaggio essenziale da individuo isolato a comunità associata. A venire insidiata è un’obbligazione morale che precede ogni ordinamento e ogni norma.

il manifesto 28.9.18
Scuola, una sicurezza da paura: un crollo ogni 4 giorni
XVI rapporto Cittadinanzattiva. 204 sono stati i crolli dal 2013, 37 i feriti. Tre scuole su quattro sono senza agibilità statica, solo una su venti è in grado di resistere ad un terremoto. 18 mila edifici scolastici si trovano in zone ad elevato rischio sismico, in particolare in Sicilia (3.832), Campania (3.458) e Calabria (2.399). Servono 15-20 miliardi di investimenti in almeno 10 anni. Il ministro dell'Istruzione Bussetti ha promesso di "sbloccare" 7 miliardi. Prima di lui Renzi aveva parlato addirittura di 10, ma almeno la metà sembra sia rimasta bloccata.
di Mario Pierro

Per la manutenzioni e la messa in sicurezza di tutti gli edifici scolastici italiani servono investimenti per 15-20 miliardi di euro in almeno dieci anni. Lo sostiene Cittadinanzattiva nel XVI rapporto sulla sicurezza delle scuole presentato ieri a Roma dove emerge una situazione inquietante: nel 2017-2018 c’è stato un crollo ogni quattro giorni di scuola, un record rispetto agli ultimi 5 anni. Tredici persone sonostate ferite, tra personale scolastico e alunni. Dal 2013 a oggi i crolli sono stati 204 crolli, i feriti 37 feriti. Tre scuole su quattro sono senza agibilità statica, solo una su venti è in grado di resistere ad un terremoto in un paese sensibilissimo a questi eventi traumatici e mortiferi. Sulla manutenzione degli edifici scolastici emerge un paese a tre velocità: ad investire di più sulla manutenzione ordinaria è la Lombardia (in media quasi 119mila euro), meno la Puglia (non si arriva ai 3mila euro); la verifica di vulnerabilità sismica è stata effettuata solo nel 2% delle scuole calabresi e nel 59% di quelle umbre, il certificato di prevenzione incendi è presente nel 69% degli istituti del Trentino Alto Adige e solo nel 6% di quelli laziali.
IL SUD ARRANCA, poiché solo il 17% delle scuole ha il certificato di prevenzione incendi, il 15% quella igienico-sanitaria, il 15% quello di agibilità, il 18% il collaudo statico; un pò meglio al Centro, dove il 19% ha il certificato di prevenzione incendi, il 18% quella igienico-sanitaria, il 22% quella di agibilità e il 21% il collaudo statico. Situazione diversa al Nord dove il 64% delle scuole sono in possesso del certificato di prevenzione incendi, il 67% quello di agibilità igienico-sanitario, il 63% ha l’agibilità e il 61% ha effettuato il collaudo statico. A livello regionale, in ritardo sono il Lazio (9% delle scuole è in possesso dell’agibilità/abitabilità, il 6% della prevenzione incendi), la Campania (11% con agibilità, 17% prevenzione incendi) e la Calabria (12% con agibilità, nessuna in regola con prevenzione incendi).
DAL RAPPORTO emerge che 18.665 edifici scolastici si trovano in zone ad elevato rischio sismico, in particolare in Sicilia (3.832), Campania (3.458) e Calabria (2.399). Solo per il 29% delle scuole è stata effettuata la verifica di vulnerabilità sismica (che sarà obbligatoria entro fine dicembre); fanalino di coda Calabria (solo 2% con verifica), Campania (4%) e Sicilia (7%), regioni in cui insistono un maggior numero di scuole in zone ad elevata sismicità. Solo il 9% delle scuole è stato migliorato dal punto di vista sismico e ancor meno (5%) è stato adeguato sismicamente. Va meglio per le scuole del Molise (dove l’intervento è stato effettuato nel 41% delle scuole) e la Valle D’Aosta (40%), molto male per quelle del Lazio e della Sicilia (3%). Ben pochi i Comuni che si dichiarano pronti a gestire eventuali emergenze. La percentuale sale al 60% per il Friuli Venezia Giulia e scende al 7% in Campania, 3% in Basilicata e 1% in Calabria.
CITTADINANZATTIVA sottolinea che la sicurezza è considerata da tutti una priorità, ma le «pastoie burocratiche» allungano enormemente i passaggi nella realizzazione degli interventi e dei nuovi edifici. Si chiede di rivedere alcune importanti normative sulle responsabilità in materia di sicurezza scolastica (legge 81/2008) e per ripensare gli spazi superando la prospettiva «aula centrica» (decreto ministeriale del 18/12/1975). E infine si chiede l’avvento dell’«anagrafe dell’edilizia scolastica» che a suo tempo anche Renzi aveva assicurato.
IL MINISTRO dell’Istruzione, Marco Bussetti ha detto che sbloccherà «7 miliardi» rimasti nel cassetto «immotivatamente». Renzi disse di avere stanziato 10 miliardi, di cui 5 sembrano non essere mai stati spesi. Si vedrà se questo sarà anche il destino di quelli di Bussetti.

Repubblica 28.9.18
L’analisi
L’occidente sta sparendo
di Timothy Garton Ash


Donald Trump può essere peggio di così? Parafrasando lo slogan di Obama, yes he can. Ma se ci fissiamo sulle sue pessime qualità, sfoggiate questa settimana all’Onu, perdiamo di vista le forze più ampie che stanno dietro tanta immondizia. Negli ultimi giorni, qui a Washington, mi sono chiesto cosa resterà del vecchio Occidente transatlantico indipendentemente dal fatto che Trump esca di scena nel gennaio 2021 — o, volesse il cielo, anche prima. La risposta è inquietante. Anche nel migliore dei casi gli Stati Uniti e i loro alleati non si riprenderanno come accadde dopo il Watergate e il Vietnam. Questa volta è diverso, per motivi legati alla realtà interna ed esterna agli Usa.
Sì, Trump è responsabile di buona parte dei guai. Nell’ormai famoso articolo anonimo sul New York Times, un " importante esponente" dell’amministrazione ha scritto: " In pubblico e in privato Trump mostra di preferire autocrati e dittatori, come Putin e Kim Jong-un, e non manifesta apprezzamento per ciò che ci lega ai Paesi alleati". Tutto questo Trump lo ha dimostrato nel discorso all’Onu. È un attivista del fronte sovranista Xi- Putin- Orbán, l’internazionale impossibile di nazionalisti, nemico giurato dell’ordine liberale. Ho chiesto ai ben informati chi è l’anonimo autore dell’articolo. Parecchi hanno indicato l’entourage del vicepresidente Pence, che si presume abbia interesse a insidiare Trump. L’ipotesi più intrigante però è Huntsman, ambasciatore Usa a Mosca, futuro candidato alla nomination repubblicana alla presidenza. (Entrambi negano). Si profila così la prospettiva di un futuro presidente repubblicano che prenda le distanze dal disastro Trump. Ma per ora tutti mi dicono che « Trump ha in mano i Repubblicani » . Se le ripercussioni dell’indagine di Mueller non raggiungeranno un livello da Watergate, se Trump andrà avanti e l’economia continuerà a crescere, il presidente potrebbe conquistare il secondo mandato. Non oso neppure immaginare l’impatto di otto anni di Trump sulle relazioni transatlantiche.
Ma anche nella migliore delle ipotesi è improbabile che gli Usa si riprendano come dopo il Watergate e il Vietnam. Mettiamo che un democratico centrista e responsabile come Joe Biden conquisti la presidenza, magari con una vice come Kamala Harris. Mettiamo che il presidente Biden si sforzi di tornare al punto a cui eravamo prima. Anche in quel caso possiamo al massimo sperare in qualcosa di meno di Obama, non di più. E non dimentichiamo che è stato Obama, non Trump, il primo a dare priorità al nation- building in patria.
In quei quattro anni il mondo sarà cambiato, ma sarà cambiata anche l’America. Come dopo un ictus, si stabiliranno nuove connessioni in sostituzione delle vecchie, ormai esaurite. Mentre America e Gran Bretagna sono ossessionate dalla minaccia della Russia, il vero antagonista strategico e concorrente ideologico globale dell’Occidente, ossia la Cina, sta estendendo la sua influenza. Se la Brexit andrà avanti — a mio giudizio può e deve essere scongiurata da un secondo referendum — un divorzio astioso tra Regno Unito e Ue diminuirà ulteriormente l’impegno Usa nei confronti dell’Europa.
Ma indipendentemente dagli sviluppi esterni, questo processo è già in atto negli Usa. L’atlantismo americano è diminuito e continuerà a diminuire. Un esperto mi ha detto che è come « andare in chiesa e trovare metà delle panche vuote». E si riferisce alle élite della politica estera che costituivano il coro atlantista. Il resto dei fedeli americani sono sempre stati restii a frequentare quella chiesa.
Dalla finestra del mio albergo vedo il monumento che celebra il generale John J. Pershing e l’offensiva della Mosa- Argonne che, 100 anni fa, nel settembre 1918, contribuì a spezzare la resistenza dell’esercito imperiale tedesco e condusse all’armistizio dell’ 11 novembre. L’intervento americano nella Prima guerra mondiale fu la prima straordinaria manifestazione dell’Occidente transatlantico, geopolitico. Ma gli Usa in seguito si ritirarono per più di vent’anni nell’immensità del loro continente, mentre le democrazie europee soccombevano al fascismo e al comunismo. Solo nel 1941 l’attacco giapponese a Pearl Harbor consentì a Roosevelt di far entrare il suo Paese nella Seconda guerra mondiale. Ma nel 1945 il primo impulso nazionale degli Usa fu di nuovo quello di ritirarsi. Thomas Wright, dell’istituto Brookings, ci ricorda quanto affermato dall’ambasciatore in Unione sovietica Averell Harriman, ossia che gli americani volevano appianare le differenze con la Russia e poi «andarsene a bere Coca cola al cinema». Ci vollero l’eloquenza di Churchill e la brutalità di Stalin per fargli cambiare idea.
L’epoca della Guerra fredda fu eccezionale sotto il profilo storico. La sensazione opprimente di avere un nemico comune nel cuore dell’Europa unì Europa occidentale e Stati Uniti, rendendoli un unico attore geopolitico. Quell’unità di azione transatlantica è stata messa in discussione. Oggi più che mai i fedeli americani voltano le spalle all’impegno internazionale e non vogliono farsi intrappolare in alleanze, preferendo dedicarsi ai problemi interni. Un ex segretario di Stato Usa mi dice che l’opinione pubblica esprime poco interesse per la politica estera. Chiunque utilizzi aeroporti, autostrade o ferrovie capisce perché gli americani intendano migliorare le strutture sul territorio più che pensare a scuole in Afghanistan o Iraq. "Prima l’America" non è solo uno slogan di Trump. È uno stato d’animo nazionale a cui persino il più internazionalista dei presidenti avrebbe dovuto adeguarsi.
Trump è terribile, ma è tanto sintomo che causa. Il problema della divergenza transatlantica era presente prima di Trump, ha cause più profonde e resterà dopo Trump. I cento anni di partenariato transatlantico a intermittenza dal 1918 hanno lasciato un imponente retaggio: l’intreccio internazionale economico maggiore e più stretto del mondo; la Nato alleanza di sicurezza con un rinnovato impegno alla mutua difesa grazie a Putin; un’intimità culturale e intellettuale senza pari. L’Occidente transatlantico è un corpo possente, muscoloso — ma con la mente svagata, il cuore debole e l’anima divisa.
Traduzione di Emilia Benghi

il manifesto 28.9.18
Merkel abbraccia il Sultano alla faccia dei diritti umani
Germania. Visita di stato di Erdogan a Berlino. Proteste di ong, movimenti e oppositori turchi. Il sondaggio: il 56% dei tedeschi considera sbagliato ricevere il leader di Ankara
di Sebastiano Canetta


BERLINO Dal pranzo con Angela Merkel, alle manifestazioni che scandiranno lo slogan «Erdogan not welcome», fino alla scomoda presenza dei giornalisti «terroristi». Berlino, più blindata che mai, oggi si prepara ad accogliere il sultano in visita di stato, mostrando le due facce del suo rapporto «bilaterale» con la Turchia.
Tre giorni di summit istituzionale fra il presidente turco e le massime cariche della Bundesrepublik tra la cancelleria federale e il Castello di Bellevue, prima del volo verso Colonia: la mecca dell’Islam tedesco.
UN VERTICE POLITICO atteso da mesi, necessario per sbrogliare la matassa delle questioni nevralgiche tra Berlino e Ankara. Ci sono i «vecchi» profughi negli hotspot turchi messi in piedi grazie ai fondi dell’Ue, come i nuovi migranti che Erdogan proietta già sull’Europa se cadrà la «sacca» di Idlib in Siria.
Ma il presidente turco e la cancelliera proveranno, inoltre, a trovare la quadra sul tema dell’influenza di Ankara sugli imam nelle moschee tedesche, la persecuzione in Germania degli esuli del putsch militare del 2016 o dei seguaci del predicatore Gülen, la stabilità della lira, oltre al commercio di armi made in Germany, flessibile ma solo fino a un certo punto.
NATURALMENTE, in via più o meno ufficiale, Merkel non mancherà di fare pressione sui diritti umani; anche perché tra chi ha chiesto di partecipare alla conferenza stampa congiunta con Erdogan spicca Can Dündar, cronista del quotidiano Cumhuriyet condannato dal regime turco per rivelazione di segreto di stato. «Voglio semplicemente chiedere a Erdogan perché continua a sostenere che nelle carceri turche non si trovino giornalisti ma terroristi», è la sua domanda che il governo tedesco fatica a riformulare.
Nell’attesa, si registra la mossa del presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier: mercoledì ha incontrato Mesale Tolu e Deniz Yücel, i due giornalisti turco-tedeschi accusati di terrorismo ed espulsi in Germania solo dopo la protesta formale di Berlino.
Steinmeier, dovrebbe «sfiorare» i casi analoghi al banchetto di stato che aprirà la visita di Erdogan alle 9.30 nella sua residenza al Castello di Bellevue. Due ore dopo è previsto il pranzo con Merkel, prima dell’omaggio alle vittime della guerra sull’Unter den Linden.
Lì a partire dalle 11 i dimostranti ricorderanno «i morti di Erdogan» mentre alle 16 a Breitscheidplatz partirà la manifestazione «per i diritti e la democrazia» di chi si riconosce nel cartello di associazioni, Ong e movimenti riunti sotto lo slogan «Erdogan not welcome». Proteste fino a sera, quando il sultano è atteso a cena dal presidente Steinmeier. Domani si replica con la colazione di lavoro ala cancelleria con «Mutti-Merkel» finché alle 13 Erdogan decollerà per Colonia dove sarà ricevuto dal governatore del Nordreno-Vestfalia, Armin Laschet, con cui discuterà della moschea Ditib: il maggiore centro islamico della Germania.
SOTTO IL PROFILO della sicurezza la visita del presidente turco costa non poco: a Berlino risultano oltre 4.000 poliziotti dedicati alla protezione del summit, mentre i trasporti pubblici da ieri funzionano a singhiozzo con la metropolitana e i bus che non superano la zona-rossa tra l’Hotel Adlon (dove alloggia Erdogan) e la cancelleria federale.
Non sarà ciò a influenzare i tedeschi: secondo il sondaggio Emnid-Welt di ieri il 56% è già convinto che accogliere con gli onori il leader turco sia sbagliato e solo il 35% difende la scelta di Realpolitik di Merkel e Steinmeier. Appena l’11% poi è convinto che la Turchia sia una vera democrazia mentre ben l’81% mette in dubbio il suo rispetto dei diritti umani.
Per questo ieri il presidente Steinmeier ha dovuto precisare che la visita di Erdogan «non è una normalizzazione delle relazioni tra Germania e Turchia. Siamo molto lontani da questo, anche se potrebbe essere l’inizio».
DI SICURO BERLINO resta la testa di ponte dell’Europa con Ankara, pur nella complessità di una relazione sempre più difficile da gestire. Lo dimostra l’ex leader dei Verdi, Cem Özdemir, di origine turca: diversamente da altri politici dell’opposizione oggi non diserterà il banchetto con Erdogan. «Andrò e gli stringerò la mano. Che altro posso fare? Questo è quanto facciamo nella civiltà occidentale».

Repubblica 28.9.18
C’è un Sultano a Berlino
Erdogan dialoga con Merkel e i turchi tedeschi votano Cdu
di Tonia Mastrobuoni


Berlino Agenti delle forze speciali appollaiate sui tetti, 4.200 poliziotti a presidiare le zone ‘calde’, lo spazio aereo di Berlino chiuso ai velivoli privati e ai droni e un traffico cittadino che ieri è già collassato all’ora di pranzo. La visita ufficiale di tre giorni di Recep Tayyip Erdogan in Germania è cominciata con uno schieramento mostruoso di forze di sicurezza che hanno paralizzato la capitale. Ma negli stessi minuti in cui Erdogan atterrava a Berlino, la Turchia subiva una cocente sconfitta sui campi di calcio: la Uefa ha deciso che gli Europei del 2024 saranno disputati in Germania e non nel Paese del Sultano. Angela Merkel dovrà reprimere ogni commento calcistico: Erdogan non è famoso per lo spiccato senso dell’umorismo.
La cancelliera e il presidente cercheranno però di trovare altri punti di convergenza, dopo tre anni difficilissimi. In particolare Erdogan sembra voler archiviare il periodo in cui aveva definito " nazisti" i tedeschi che gli avevano impedito di tenere tirate anti-merkel e nazionaliste in Germania durante la sua ultima campagna elettorale. « La nostra priorità - ha detto in una conferenza stampa della vigilia - sarà di lasciarci alle spalle le relazioni degli anni più recenti».
Oggi, da un incontro all’Hotel Adlon delle delegazioni economiche potrebbe arrivare un primo segnale concreto di riavvicinamento. Si mormora di un investimento tedesco da 35 miliardi di euro nelle ferrovie turche. Il presidente arriva a Berlino schiacciato da una crisi valutaria che sta devastando la sua economia: la Germania gli offrirà aiuti indiretti, attraverso investimenti e accordi bilaterali. E Angela Merkel cercherà di tenerlo inchiodato al suo impegno con l’Unione europea sui profughi.
Intanto un sondaggio tra i turchi in Germania ha rivelato una svolta sconvolgente. Nel giro di soli due anni, i tre milioni e mezzo di turchi sembrano aver voltato le spalle al loro storico partito di riferimento, la Spd. Secondo una rilevazione della Commissione degli esperti delle Fondazioni per l’integrazione e le migrazioni ( SVR), il consenso per i socialdemocratici è crollato dal 70% al 37%. Una rottura dopo decenni di valori stabili, dovuti al tradizionale impegno della Spd per i " Gastarbeiter", per gli immigrati turchi, greci e italiani degli anni del boom. E nei nuovi sondaggi, la Spd è tallonata dalla Cdu, che gode del 33% dei consensi contro il 6% del 2016. Un balzo che ha un nome: Angela Merkel. La cancelliera ha conquistato soprattutto il cuore delle donne turche con la sua politica delle "porte aperte" sui profughi: due anni fa appena il 3% sosteneva di votare Cdu, adesso sono quasi la metà, il 48%.
Tuttavia, nel primo giorno di incontri berlinesi di Erdogan sono attese varie manifestazioni di protesta contro la sistematica lesione dei diritti umani in Turchia e i cinque giornalisti e attivisti tedeschi in carcere. Ieri il Sultano pare che abbia incontrato alcune ong turche. Ma il suo pugno di ferro verso oppositori e attivisti ha già indotto alcuni parlamentari a boicottare il banchetto ufficiale previsto per stasera. Erdogan sarà anche ricevuto dal presidente della Repubblica, Frank- Walter Steinmeier. Domani inaugurerà una moschea a Colonia.

La Stampa 28.9.18
Corbyn, l’estremismo di sinistra
Guida la sfida all’establishment
di Marco Carnelos


Jeremy Corbyn ha assunto casualmente la leadership del Labour Party inglese, dopo una lunga militanza radicale, terzomondista, anti-establishment, anticapitalista, anti-Nato, e filopalestinese. Nel 2015 fu inserito nelle nomination solo come prova di pluralismo interno; completamente all’opposto dei suoi predecessori glamour, Blair e Miliband, vinse con il 59%. Con lui il partito è passato dal 30% nel 2015 al 40% due anni più tardi; un’affermazione che ha sconfortato i conservatori e lo stesso establishment laburista che lo ha contestato veementemente. Nel 2016, dopo la vittoria del Brexit, i suoi deputati lo hanno sfiduciato 172 voti contro 40 per il suo tiepido sostegno al Remain; nel successivo Congresso del partito, Corbyn è arrivato al 62%. Se il Governo May implodesse sulla Brexit, egli potrebbe vincere le elezioni. Si tratta di una prospettiva credibile: la piattaforma negoziale di Theresa May non piace né agli altri leader Ue né al suo stesso partito. Corbyn ha ora aperto all’ipotesi di un secondo referendum, più per pressioni interne al Labour (il 90% degli iscritti è pro-Remain) che per convinzione. Egli preferirebbe infatti nuove elezioni per avere più libertà di manovra rispetto all’alternativa secca di un nuovo referendum.
Coerenza e autenticità sono il segreto del suo successo. Non ha mai cambiato posizione, non ha mai fatto compromessi con l’establishment economico-finanziario, e ora che è in corso una rivolta contro quest’ultimo ne raccoglie i frutti; ha coagulato in una piattaforma di estrema sinistra, con lo slogan «For the Many not the Few», la rabbia dei tanti scontenti e marginalizzati da neoliberalismo e globalizzazione. Come Trump, ma da sinistra, è ritenuto «un’arma per assassinare le élites». Corbyn ha tuttavia un punto debole, le accuse di antisemitismo per la sua militanza filopalestinese. I tre quotidiani ebraici britannici definiscono «minaccia esistenziale» un suo eventuale Governo. Una polemica in cui la lotta all’antisemitismo, il diritto di critica a Israele e il sostegno ai palestinesi si confondono. I corbinisti, infatti, giudicano strumentali e diffamatorie tali critiche, miranti a fermare il sostegno alla causa palestinese, che si rafforzerebbe con la premiership di Corbyn; nonché come un tentativo di compromettere un’affermazione elettorale che inquieterebbe l’establishment britannico. Il contesto è reso inoltre incandescente anche dalle politiche antipalestinesi di Trump, dalla repressione delle manifestazioni a Gaza e dalla legge sulla Nazione adottata in Israele. Corbyn ha sicuramente toccato la sensibilità di molti ebrei, ma definirlo antisemita pare eccessivo vista la sua lunga militanza antirazzista.
Il vero rischio è che i virulenti attacchi galvanizzino i sostenitori più radicali del leader laburista, alimentando, paradossalmente, ulteriori rigurgiti antisemiti. Le critiche mediatiche e delle organizzazioni ebraiche britanniche, nell’attuale clima di rivolta anti-élites, potrebbero rinfocolare involontariamente deprecabili stereotipi antisemiti che, purtroppo, associano ancora ebrei, élites e controllo dei media. Infine, una fondamentale battaglia di valori quale quella contro l’antisemitismo rischierebbe di essere imperdonabilmente sminuita a strumento di lotta politica.

Repubblica 28.9.18
Leader laburista da Barnier
Corbyn a Bruxelles nella nuova piazza intitolata a Jo Cox "Disastro la Brexit senza intesa con l’Ue"
di Alberto D’Argenio


Bruxelles In pieno caos Brexit, con lo spettro di un mancato accordo di divorzio tra il Regno e l’Ue, Bruxelles dedica una piazza a Jo Cox, la deputata laburista paladina dei diritti di migranti e rifugiati assassinata il 16 giugno 2016 nel nord dell’Inghilterra al culmine della campagna per il referendum che sancì l’addio di Londra alla Ue. La piazza intitolata a Cox si trova nel centro della capitale belga, dove ha vissuto per sei anni quando era collaboratrice al Parlamento europeo. All’inaugurazione hanno partecipato i suoi famigliari, oltre al leader dei Laburisti Jeremy Corbyn, che proprio ieri ha incontrato il negoziatore europeo per la Brexit Michel Barnier.
Corbyn ha chiarito che per l’opposizione britannica un eventuale no deal, un addio senza accordi sui rapporti futuri, è « inaccettabile » . E ancora, « il tempo stringe – ha spiegato – e uscire dall’Ue senza intese significherebbe danneggiare l’occupazione e il livello di vita di molti cittadini sia nel Regno Unito sia nei Paesi dell’Unione. Per questo intendo sollecitare Bruxelles a far tutto il possibile per scongiurare un simile epilogo » . Nei giorni scorsi al congresso di Liverpool Corbyn ha accettato di contrastare l’eventualità di un non accordo dicendosi pronto a chiedere le elezioni in caso di flop e a indire un secondo referendum sulla Brexit.
I governi europei appoggerebbero un simile epilogo con marcia indietro britannica, ma intanto negoziano per evitare un no deal e hanno fatto sapere di essere pronti a un vertice straordinario sulla Brexit a metà novembre visto che per quello di ottobre appare ormai impossibile arrivare a un accordo. Sarebbe comunque l’ultima chance, visto che poi non ci sarebbe più tempo per le ratifiche parlamentari dell’eventuale Trattato di addio entro fine marzo 2019, quando la Brexit diventerà realtà. Per questo la Commissione europea ha fatto sapere di lavorare anche a un piano B: una separazione non regolamentata che comunque rappresenta uno scenario disastroso tanto per il continente quanto per la Gran Bretagna. «Stiamo calmi e continuiamo a negoziare », ha detto il portavoce di Juncker usando una frase cara a Barnier.

Repubblica 28.9.18
Le idee
"Bentornato socialismo americano"
Parla Stephanie Kelton, consigliera economica di Bernie Sanders
Le lezioni tradite delle crisi finanziarie. Il populismo antiglobal di Trump. Lo strapotere delle banche. Le soluzioni innovative tra ambiente e welfare. di di Intervista di Federico Rampini


Abbiamo imparato qualcosa dalla grande crisi ("lo schianto", per usare l’immagine efficace di Adam Tooze) del 2008-2009? Una parte dell’umanità, da quella vicenda non è veramente uscita tuttora: l’Europa del Sud, tanti giovani, i ceti medio-bassi, hanno visto decurtati brutalmente i redditi e le aspettative; per molti di loro quella attuale è una ripresina irrilevante, che non sana ferite profonde. E c’è il rischio che dagli eventi di Lehman e dintorni si siano estratte le lezioni sbagliate, a giudicare dal ritorno in America di una politica economica ritagliata sugli interessi delle grandi imprese. Non bisognerebbe mai "sprecare una crisi", e forse lo abbiamo fatto. Ne parlo con una economista tra le più interessanti e innovative, Stephanie Kelton. Verrà in Italia nell’ambito della Stagione Capitale inaugurata dalla Fondazione Feltrinelli a Milano. La Kelton insegna alla Stony Brooks University ed è una nota esponente della Teoria Monetaria Moderna. È stata consigliera di Bernie Sanders nella campagna per la nomination presidenziale democratica e del Senato degli Stati Uniti.
Abbiamo appreso le lezioni giuste, da quel che accadde dieci anni fa?
«Nell’immediato, parve di sì. Ci fu una diffusa presa di coscienza che avevamo lasciato crescere in modo abnorme il sistema finanziario, fino a diventare troppo complesso, fino ad assomigliare a quell’economia del casinò deprecata da John Maynard Keynes a proposito dell’altra grande crisi (1929). Tutto a scapito dell’economia reale.
Tant’è che la finanza rischiò di far crollare l’intera economia reale di molti paesi. Dunque subito dopo la crisi ci furono diversi tentativi per porre dei limiti alla speculazione finanziaria. Ma non si fece abbastanza. Il risultato è che oggi le mega-banche sono ancora più grosse di dieci anni fa, e quindi più pericolose. Le dieci maggiori banche americane hanno cumulato 171 miliardi di dollari di profitti l’anno scorso. Se avremo una nuova crisi saremo ancor meno capaci di fare quello che avremmo dovuto fare nel 2008: cioè smembrare i colossi bancari e licenziare il loro top management».
Nel decennale di quegli eventi si sta affermando una nuova narrazione che lega direttamente il crac Lehman a Donald Trump: il populismo come contraccolpo politico (a scoppio ritardato) dei salvataggi bancari.
«Non c’è un nesso diretto, però è vero che molti cittadini furono esasperati dallo spettacolo di allora: quando videro il governo federale salvare i banchieri mentre milioni di americani perdevano il lavoro e la casa. In questo senso i democratici furono puniti per i loro errori, che risalivano a molto tempo prima: dalle liberalizzazioni del commercio internazionale alle politiche fiscali. Hillary arrivò nel 2016 con un messaggio troppo ottimista: continuerò sulla scia dei successi di Obama. Molti americani ebbero la sensazione che lei non capisse la loro sofferenza. E in tre Stati chiave, votarono per uno che sembrava in sintonia con la loro frustrazione e gli prometteva di rifare l’America grande come una volta».
Lo stesso Trump ha "rubato" alla sinistra la critica alla globalizzazione.
«È vero, non è il tradizionale repubblicano liberista, il suo attacco al Wto riecheggia certi slogan dei giovani contestatori scesi in piazza durante i summit. Poi lui fa di ogni erba un fascio, nei suoi attacchi non distingue tra la Cina, il Messico, il Canada».
Per le elezioni legislative del 6 novembre, sono apparsi candidati che si definiscono "socialisti democratici". È un effetto della campagna di Bernie Sanders, a cui lei partecipò?
«Sanders ha rimesso all’ordine del giorno delle grandi idee politiche che sembravano tramontate. Ha rilanciato una visione molto ambiziosa del ruolo dello Stato. Ha proclamato l’importanza dell’istruzione come bene pubblico, che non può essere così costoso da gravare di debiti gli studenti. Ha denunciato lo scandalo per cui gli Stati Uniti sono l’unica nazione industrializzata dove la salute dei cittadini è affidata a un sistema privato, molto più costoso e meno efficiente di quelli pubblici. Insomma, Sanders ha cambiato il dibattito politico. Ci sono oggi più candidati che si ispirano alle sue idee e osano definirsi socialisti, una cosa che non ricordo da quando sono nata. Per ora, va precisato, restano minoritari».
La Teoria Monetaria Moderna (Tmm), di cui lei è un’esponente di punta, ha qualcosa in comune con quell’esperimento monetario che ha contribuito all’uscita dalla crisi, e che fu chiamato il "quantitative easing"? Ben Bernanke lo lanciò nel 2009 e da quel momento inondò il mondo con almeno 4.500 miliardi di liquidità monetaria, una terapia che molti considerano decisiva per interrompere la recessione americana.
«No, non c’è nulla in comune con la Teoria Moderna Moderna, se si eccettua la creazione di liquidità. Quel che fece la Federal Reserve, poi seguita dalla Bce e da altre banche centrali, fu di usare il proprio potere per acquistare titoli finanziari pubblici e privati, pagandoli in moneta.
Fu sostanzialmente uno scambio di attività finanziarie.
La Tmm più che alle banche centrali guarda al ruolo degli Stati, alle politiche fiscali e di bilancio. Siamo a favore di massicci tagli delle imposte, per aumentare il reddito e quindi la domanda. Siamo per massicci programmi di spesa pubblica, in particolare mirati verso un Green New Deal, un vasto insieme di investimenti ambientalisti, sullo sviluppo sostenibile e le energie rinnovabili. Il nome della Tmm non inganni, per noi quello che conta non è la liquidità, ma la spesa pubblica e la riduzione delle tasse».
Il "quantitative easing" nel frattempo è cessato, i tassi d’interesse americani tornano a salire, e chi si è indebitato in dollari è nei guai. A cominciare da paesi emergenti come Argentina, Turchia. Da dove verrà la prossima crisi?
«Non sono in grado di dirle chi è più vulnerabile, ma il rialzo dei tassi crea dei rischi sostanziali».

Repubblica 28.9.18
Il film verità sull’odissea dei migranti in arrivo in tv
”It will be chaos", il doc italiano che ha conquistato gli Usa
di Alberto Flores d’Arcais


NEW YORK Era il 3 ottobre 2013 quando un peschereccio libico naufragò a mezzo miglia dall’Isola dei Conigli. Aveva a bordo centinaia di migranti, ne morirono quasi quattrocento. Tra i 155 superstiti (di cui 41 minori) c’era anche Arigai, un eritreo che vide morire accanto a sé tre suoi cugini, inghiottiti dal mare a poche centinaia di metri da Lampedusa. Nel 2015 inizia invece il drammatico viaggio di Wael per fuggire dagli orrori della guerra in Siria, che porterà la sua famiglia (moglie e quattro figli piccoli) attraverso l’intero corridoio balcanico, in un’odissea piena di fame, di pericoli, di ansie e di terrore che si conclude, dopo aver attraversato sette diverse nazioni, in Germania.
Arigai e Wael (con famiglia) sono i protagonisti dello straordinario documentario It will be chaos, prodotto da HBO che sarà ora visibile anche in Italia (su Sky Atlantic il 7 ottobre, anteprima al Milano Film Festival il 2 ottobre) dopo aver vinto al festival di Taormina il premio per la migliore regia. Lo hanno realizzato due registi italiani, Lorena Luciano e Filippo Piscopo, che da venti anni vivono (sono sposati) e lavorano come filmaker a New York, impegnati nel raccontare soprattutto storie sociali, senza però dimenticare il ritmo filmico della narrazione e la bellezza delle inquadrature.
Quando nel giugno scorso HBO lo ha presentato in anteprima mondiale a Manhattan, il film è stato accolto da applausi scroscianti e ha ricevuto ottime critiche dai media americani.
Per i due registi e sceneggiatori — Filippo è anche direttore della fotografia, Lorena lavora anche con Netflix — questa produzione è la definitiva consacrazione nel mondo del cinema documentaristico.
«Per chi fa documentari-verità, la sfida maggiore è trovarsi nel pieno di situazioni tragiche durante le riprese e doverne raccontare il senso più grande». Filippo Piscopo racconta a Repubblica quel giorno del 2013, «quando sul molo di Lampedusa un’enorme gru dell’esercito sollevava una a una le bare delle vittime, davanti agli occhi dei familiari in preda al dolore. Riprendere la scena non è stato facile. Come raccontare quel dolore senza essere scandalistici, rispettando la pena delle vittime e nello stesso tempo cercando di trasformarlo in storia che sopravviva alla cronaca?».
«La domanda più comune che ci rivolgono — interviene Luciano — è sempre relativa a quanto sia stato difficile girare questo film mentre seguivamo i nostri personaggi. In realtà, soprattutto nel documentario, la difficoltà più grossa è quella di mantenere la propria visione e di non diventare il megafono di nessuno. Si è erroneamente convinti che con una camera a disposizione sia sufficiente andare sul luogo, girare, montare le immagini in sequenza e avere una storia. In realtà il processo creativo è complesso e rigoroso. Bisogna essere etici e muoversi all’interno dei "fatti", attenersi al "reale": ma nello stesso tempo il documentario è cinema, con storie strutturate, con un linguaggio fotografico e sonoro preciso, con scelte di montaggio cruciali».
Per i due registi italiani è stato un lungo viaggio durato cinque anni, «un viaggio di perdita e di ricerca proprio come quello dei due protagonisti e che racconta una crisi antica come il mondo, di cui siamo protagonisti e spettatori al tempo stesso». HBO ha lasciato ai due filmaker «carta bianca sia in produzione che in montaggio» e grazie anche a Sara Bergamaschi, funzionaria delle Nazioni Unite (diventata poi produttrice associata) «che si è avventurata nei Balcani con noi», questa storia «dai mille volti, senza diavoli e santi, fortemente radicata nella crisi d’identità di un’intera epoca», alla fine è stata completata. «Il film è un omaggio agli eroi quotidiani di questo dramma: Aregai, Wael e la sua famiglia, i sindaci intrepidi, e i pescatori siciliani».

il manifesto 28.9.18
L’adulterio non è più reato in India. Però lo Stato può spiare tutti
Sentenza. La Suprema corte modernizza i costumi e la società ma dà il via libera al governo al sistema di archiviazione dei dati biometrici Aadhaar
Festival delle letterature di Jaipur
di Matteo Miavaldi


Nella giornata di ieri la Corte suprema indiana, a poche settimane dalla depenalizzazione dei rapporti omosessuali nel Paese, ha pronunciato una nuova sentenza storica dall’alto valore simbolico, questa volta stralciando dal codice il crimine di adulterio.
Secondo una legge di epoca vittoriana ancora in vigore in India, un uomo accusato di consumare rapporti sessuali fuori dal matrimonio rischiava fino a 5 anni di detenzione più pena pecuniaria. Accogliendo la petizione di un imprenditore indiano, che si era rivolto alla massima Corte indiana denunciando il carattere discriminatorio della legge, un pool di cinque giudici ha sancito la depenalizzazione dell’adulterio, sostenendo che i tradimenti, nell’India di oggi, sono materia per avvocati divorzisti e non rientreranno più nel novero del codice penale.
La legge, promulgata 158 anni fa in piena epoca coloniale, conteneva plateali elementi sessisti e discriminatori: la donna non solo non poteva denunciare il marito adultero, ma non veniva considerata nemmeno agente attivo nell’ipotetico tradimento. Con la controparte femminile totalmente oggettivata, il tradimento diventava questione esclusivamente maschile: un uomo che aveva abusato della proprietà di un altro uomo.
A questo proposito il giudice Dipak Mishra, a capo dell’intera Corte suprema, in aula ha spiegato che «il marito non è il padrone della moglie. Le donne dovrebbero essere trattate al pari degli uomini».
La stampa locale ha ricordato che la legge in materia di adulterio raramente è stata applicata fino all’incarcerazione degli imputati, ma spesso veniva usata come strumento per danneggiare la reputazione di uno dei due coniugi in istanze di divorzio. I condannati in via definitiva per adulterio sono talmente rari che non esistono dati statistici in merito.
La sentenza è stata accolta positivamente da gran parte dei media nazionali, andando a rinforzare la convinzione diffusa negli ambienti progressisti indiani circa il ruolo positivo svolto dalla Corte suprema nell’evoluzione della società e dei costumi indiani contemporanei. In particolare, in un Paese dove la discriminazione sessuale e le violenze contro le donne sono ancora due questioni enormemente problematiche in India, la conferma del principio di uguaglianza tra uomo e donna offerta dalla Corte suprema è particolarmente incoraggiante.
Sull’entusiasmo incondizionato per l’operato della massima Corte sorgono però alcuni dubbi, tenendo in considerazione la serie di sentenze emesse nelle ultime settimane. Se i pronunciamenti su rapporti omosessuali e adulterio sono stati accolti molto positivamente dall’opinione pubblica, la scorsa settimana la medesima Corte ha di fatto dato il proprio consenso all’entrata in vigore, risalente all’anno scorso, del , il più grande database governativo di dati biometrici al mondo. Nonostante Aadhaar sia stato denunciato da diversi attivisti indiani come un enorme strumento di controllo e violazione della privacy, la Corte – pur depotenziandone alcuni aspetti – con una sentenza a favore del governo lo ha sostanzialmente appoggiato. E tra poco più di un mese, i giudici saranno chiamati a pronunciarsi sul caso della moschea di Ayodhya, demolita nel 1992 da centinaia di estremisti hindu: vicenda che rischia di esacerbare ancora di più la contrapposizione tra ultrahindu e musulmani nel Paese.

Il Fatto 28.9.18
Per Mariam una giustizia solo a metà
Vittima di bulle e negligenze - Condanne lievi alle minorenni che picchiarono l’italo-egiziana
Per Mariam una giustizia solo a metà
di Sabrina Provenzani


Si è trovato faccia a faccia con le ragazze che hanno pestato Mariam, quella sera del 20 febbraio scorso al centro di Nottingham. Hatim Moustafa, il padre, era l’unico della famiglia alla prima udienza, ieri mattina, sulle circostanze della morte della figlia diciottenne, il 14 marzo, a tre settimane da quell’attacco. La moglie e i due figli minori sono ancora in Egitto, dove Mariam, che aveva doppia nazionalità italiana ed egiziana, è stata infine sepolta.
Nell’aula della Nottingham Magistrates’ Court erano presenti le 5 minorenni, di cui la legge inglese protegge l’identità, e una diciannovenne, Mariah Fraser, che quella sera – il movente non è ancora accertato – hanno attaccato Mariam, l’hanno seguita sull’autobus, colpita, insultata mentre riprendevano la scena con uno telefonino.
Lei era andata subito al pronto soccorso dell’Ospedale Queen’s Medical Center, da cui era stata dimessa dopo 5 ore malgrado ripetesse di sentirsi male. Quella notte era entrata in coma, senza riprendersi fino alla morte. Sospetti di grave negligenza medica su cui le indagini sono ancora in corso.
L’autopsia non ha potuto stabilire un rapporto certo di causa effetto fisico fra il pestaggio e il decesso, anche se ha suggerito che l’impatto emotivo su Mariam, già affetta da una grave patologia cardiaca, possa aver aggravato il quadro clinico.
Di conseguenza, alle ragazze è stato possibile contestare solo la rissa, punita con un massimo di 5 anni. Due si sono dichiarate colpevoli: minorenni e senza precedenti, rischiano solo qualche mese di custodia cautelare.
Le altre si sono dichiarate innocenti o non hanno fatto dichiarazioni: a giudicarle sarà la Crown Court. “Siamo soddisfatti” ha commentato il legale dei Moustafa, Emad Abohoussin. “La decisione di deferire il caso a una corte superiore fa capire che il giudice considera il caso seriamente”.
C’è ancora la possibilità che Il Crown Prosecution Office riapra il dossier su un precedente attacco subito da Mariam e dalla sorella Malik ad agosto 2017, quando erano state picchiate selvaggiamente, Mariam ne era uscita con un piede fratturato. Caso archiviato per l’impossibilità di identificare le due assalitrici. Finché Malik non le ha riconosciute nel video del pestaggio del 20 febbraio. Stabilire ufficialmente un collegamento ufficiale fra i due attacchi aggraverebbe la loro posizione. “Farò di tutto per ottenere giustizia” ha detto Hatim. Ha cambiato casa e quartiere, ma le autorità di Nottingham, denuncia, continuano a negargli l’assistenza promessa.

Il Fatto 28.9.18
Roma e il diario di una distruzione senza un lamento
Nell’ultimo romanzo, Roberto Cotroneo racconta la fine di un’epoca e la scomparsa di cultura e civiltà
di Furio Colombo


Il tempo è adesso. Comincia prima e finisce dopo la narrazione, ma il quando esattamente non importa. Il libro di cui sto parlando (Roberto Cotroneo, Niente di personale, La Nave di Teseo) ha una sua forza di attrazione, perché la voce è quella di qualcuno che sembra sapere molte cose, e racconta senza pause in modo da trattenerti. E tu, una volta che ti sei seduto vicino, senza sapere esattamente perché, non vai via. Senti che c’è dell’altro. Ti rendi conto che sei trattenuto da un espediente, come il canto o l’aroma di spezie in certi riti, e pensi che sia meglio restare. Prima o poi il narratore scoprirà le sue carte, ammetterà che è un gioco. Non dico se questo accade. Dico che mi ha attratto la voce di qualcuno che ha visto, ha ascoltato, ha capito e racconta. Racconta a chi? Racconta perché? E che cosa lo induce a rivelare le cose che dice, senza fermarsi neppure a prendere il respiro?
Questa è una delle domande in apparenza senza risposta (la risposta c’è, ma non posso dirvi dove, nel libro) di questo romanzo di Roberto Cotroneo, scritto né da giovane né da vecchio, né come memoriale né come profezia, ma come resoconto sullo stato delle cose, in cui tutti i personaggi sono ombre (ologrammi) che a occhio nudo non si vedrebbero, ma sono definiti fino ai dettagli (o così l’autore ti induce a credere) al punto da restarti nella memoria ossessivamente.
Ovvero l’ossessione, colta e ben controllata dell’autore, espressa da una voce ipnotizzante, ti contagia, ti fa ricordare persino i nomi e i luoghi, che però non provano niente. Sono loro? Sono veri? Sono ricordi restaurati dal lavoro delicato ma implacabile del narratore che vuole darti tutta la storia, che sia accaduta oppure no? Stavo per dire: come dopo certi sogni. Ma Cotroneo è un domatore di sogni, riesce a metterli al passo, riesce a impedire che ti facciano male, e si portino via pezzi di ciò che sta raccontando. Almeno fin quasi alla fine. Il suo modo di tenerli a bada è di togliere loro la mistica dell’annuncio. I sogni ci sono. Ma i suoi personaggi dei sogni sono come passeggeri accanto a un treno fermo, da cui sono scesi o su cui saliranno. E fanno audience di questo vasto racconto di un’epoca insieme a noi lettori. C’è da discutere su verità, storia, invenzione, in questo narrare che sembra cauto ed è velocissimo, e ci ha costretto ad allontanarci dalla linea gialla, ovvero a pretendere una verifica.
Per conto mio, e pur avendo appartenuto, a debita distanza di tempo, alla stessa civiltà perduta che è il tema di questo libro, so di essermi trovato accanto a ologrammi e fantasmi di cui apprezzo l’accurato doppiaggio e la capacità di indurre i sogni a salire in scena e a interpretare se stessi. Ma ho continuato, come l’autore, a sentirmi solo. Questo infatti è un grande diario della solitudine, scritto con dolente bravura di chi racconta (ma non lamenta mai, non si abbandona mai a rimpiangere) la distruzione di una città (simbolicamente Roma), di una intera epoca, civiltà e cultura.
Diresti che il dio della conversazione ha creato questa narrazione, tanto ti piace ascoltare e seguire la voce. Però il narrare di Cotroneo non è un monologo. Diciamo che l’autore usa una intima voice over per guidarti a rivedere luoghi e persone che sono state note, per incontrare persone sconosciute di cui riesce a farti sentire la ragione e il fascino. Ti fa entrare e uscire da eventi che – credevi – non ti riguardano e che adesso spacceresti come tuoi.
La voce non è cronaca. A momenti è un canto o una preghiera-racconto che ti trattiene con espedienti che non identifichi subito (tranne uno: è bella). Le immagini, pur molto precise, non sono una graphic story, anche perché dopo un po’ ti accorgi che l’autore sembra intento a incantare i lettori, ma in realtà si è messo anche lui a seguire la voce narrante come tutti noi, i compagni di strada, in una sorta di soggezione–straniazione al suo stesso lavoro.
E a volte sembra in attesa di sapere, come i suoi lettori, dove andrà la voce.
Qui, come avviene per i grandi solisti jazz, ci sono parti in cui tutto il resto della macchina romanzo si ferma per ascoltare il solista narrante, e bisogna ammettere che, dopo, dovrebbero seguire gli applausi, come nei locali jazz d’altri tempi. Ma intanto l’autore è impegnato a dipingere grandi murales di Roma vuota e in quei punti ti sembra di sentire un’eco nella voce narrante, la eco di uno spazio inutilmente grande e popolato quasi solo di ologrammi e di ciò che resta al risveglio dei sogni.
Ti restano impressioni, immagini, emozioni, ricordi che non sono né tuoi né dell’autore. Non sono né il passato né il presente o la premonizione. Ma ti lasciano il lieve entusiasmo dell’esperienza che valeva la pena di fare. Infatti, tra un telegiornale e l’altro, mi sono trovato bene con gli ologrammi di un mondo perduto e le immagini fantasiose e distorte del dopo-sogno. Cotroneo ha tracciato la linea di confine di un mondo, di un tempo e della sua narrazione.

Repubblica 28.9.18
L’iniziativa
Andrea Marcolongo "Il greco ci insegna il mestiere di vivere"
intervista di Raffaella De Santis


Parla la studiosa che ha riportato nei giovani (ma non solo) di tutto il mondo la passione per la cultura di Platone e Aristotele Con un saggio da scoprire anche per imparare l’arte della felicità
Andrea Marcolongo parla del greco come fosse una storia d’amore. Una storia iniziata sui banchi del liceo quando era un’adolescente e mai finita.
Il suo libro d’esordio La lingua geniale è un fenomeno editoriale: da quando è stato pubblicato due anni fa con l’editore Laterza, ha venduto più di 100 mila copie ed è stato tradotto in nove lingue.
Domani uscirà in edicola con
Repubblica (9,90 euro in più sul costo del giornale).
«Sono partita da una domanda, mi sono chiesta: ma esattamente della grammatica greca cosa ho capito?», dice Marcolongo.
La lingua geniale (sottotitolo: 9 ragioni per amare il greco) è un saggio allegro ed erudito scritto in prima persona, come fosse il diario di bordo appassionato di una giovane viaggiatrice nell’antichità. Tra notazioni grammaticali e citazioni dai classici, straripa di vita: il libeccio, Livorno, la primavera a Sarajevo, dove la trentunenne Marcolongo oggi ha scelto di vivere, e dove il libro è nato: «Quei tre mesi trascorsi lì a scrivere sono stati i più felici della mia vita. Scrivere questo libro mi ha costretto a prendermi sul serio».
Oggi ha scritto un nuovo libro La misura eroica (Mondadori) ed è impegnata in un tour transcontinentale, insegna alla Scuola Holden e in un liceo di Nancy, e tiene un laboratorio di greco nell’università messicana Unam.
Prevedeva che il libro sarebbe diventato un bestseller?
«No, ma è questo il bello. Ero lì a Sarajevo e non avevo niente da perdere. Nessuno credeva in me, ero completamente libera».
Quando è scattato in lei l’amore per il greco?
«Ero una ragazzina di quattordici anni, mi è bastato vedere la prima parola scritta in greco. Mi ha aperto immediatamente un occhio interno, uno sguardo particolare sulla vita».
Per un’adolescente non è scontato questo invaghimento per una materia ostica.
«Quell’età è la fase più complicata della vita, è vero. Ero una ragazzina solitaria, frequentavo il liceo classico a Crema, il greco era il mio rifugio, il mio piccolo mondo antico. È stato lo stesso quando mi sono trasferita a studiare lettere antiche all’università di Milano.
Avevo appena perso mia madre, non sapevo più chi ero, dovevo recuperare il rapporto con il tempo».
Il primo capitolo del libro è proprio sulla diversa concezione del tempo nei greci.
«Studiando il greco, mi si è spalancato il mondo. Ho scoperto che si poteva ragionare sul come e non sul quando, perché esisteva una temporalità interiore, intima, in cui veniva a cadere la distinzione tra presente, passato e futuro. Per i greci è dal dolore che si apprende ad essere felici».
Cosa vuol dire essere felici per lei?
«Adoro le etimologie. Felice viene da felix che significa "essere fecondi", "mettersi a frutto".
Detesto le lamentele. Non è che non veda i problemi, la mia non è la felicità dell’idiota, ma vedo intorno a noi un senso di resa che non mi piace. I problemi si possono risolvere».
Crede serva anche a questo lo studio del greco? A cercare
nei testi antichi consigli per vivere?
«Citando Cesare Pavese, il classico insegna il mestiere di vivere. Non sono una paladina del liceo classico ma del classico. Oggi l’ignoranza è diventata un valore e tutto si misura in "utile" o "inutile". Ma il sistema educativo non può essere basato sull’utilità, non deve servire a qualcosa ma a qualcuno.
Leggere Platone insegna un metodo logico che puoi portare con te là fuori nel mondo. Omero parla al presente, non ha scritto per trasmetterci la grammatica.
Leggendolo lo riportiamo in vita, lo mettiamo in dialogo con Virgilio, Dante, Virginia Woolf, Marguerite Yourcenar...».
E qui veniamo al dunque, la grammatica. Lei ci va giù dura, scrive che i nostri sistemi scolastici sono "i più retrogradi e ottusi del mondo".
«È l’unica parte del libro che cambierei. Quando l’ho scritto non entravo in un liceo da dodici anni, ricordavo la scuola dei miei tempi, ma gli insegnanti che ho poi incontrato mi hanno fatto cambiare idea. E i miei ragazzi, che incontro da Machu Picchu alla Puglia, sono la mia forza».
I ragazzi del classico sono davvero diversi dagli altri?
«Spesso scelgono il classico contro il parere dei genitori, che magari gli dicono di studiare il cinese perché è più utile. Ma oggi rivendicare le proprie passioni è la cosa più rivoluzionaria che c’è».
Lei racconta anche le figuracce. Come quando in una versione sul "Ratto delle Sabine" tradusse "raptum" con "topo".
«Sto collezionando tante confessioni. Un mio lettore mi ha raccontato di aver tradotto aper (cinghiale) con ape (ride)».
Il linguaggio si è banalizzato?
«Siamo diventati pigri. Crediamo che per essere semplici bisogna abbassare il livello. C’è tanta sciatteria. Invece, come dice Kavafis, i pensieri devono essere alti».

Repubblica 28.9.18
Il Male è rimasto oscuro scrivere sulle orme di Giuseppe Berto
di Michela Marzano


"L’uomo che trema" di Andrea Pomella, racconto di una depressione
Dove sta la verità dell’umore? Fingo di più quando sono di buono o di cattivo umore? E fingo rispetto a cosa? Rispetto alla realtà del mio umore, o rispetto alla fisionomia oggettiva della realtà che mi circonda?» Depressione maggiore. È questo il verdetto dello psichiatra quando il protagonista e narratore di L’uomo che trema, l’ultimo romanzo di Andrea Pomella, si decide a consultarlo. Sono quarant’anni che ne soffre, ma è solo quando si rende conto che la «farsesca mancanza di senso» che l’affligge non è solo «cattivo umore», che il narratore cede, e accetta di raccontare la storia della sua malattia. Ancora un memoir?
In realtà no. Un vero e proprio romanzo. Visto che la depressione viene raccontata «come se la malattia non fosse un aspetto di me, ma un altro me fuoriuscito per gemmazione», e Andrea Pomella usa sapientemente la letteratura, la logica, la musica e l’ironia per descrivere quanto accade al suo corpo, gli incontri con gli psichiatri, le corse per le vie di Roma, il rapporto con la compagna e il figlio. Come nominare d’altronde le cose quando la «perenne terminalità« che caratterizza la condizione di un depresso, come scrive Pomella citando Harold Brodkey e il suo cammino verso la morte, tocca proprio la sfera del linguaggio? «Mi autocensuravo, sopprimevo dal mio vocabolario alcune parole», ammette Pomella raccontando come il tempo abbia pian piano disfatto tutto.
Ecco perché la cronaca di questa depressione, per certi aspetti, è di ghiaccio, come se solo la distanza tra "sé" e le "cose" potesse permettere di attraversare il deserto della malattia, e emozionare nel profondo il lettore. A parte quando l’uomo che trema parla del rapporto con Mario, il figlio, che giocando con lui lo «tiene in vita, erige le difese». Sono forse le pagine più belle del romanzo, anche perché tutto, in questa storia, sembra giocarsi attraverso uno spietato corpo-a-corpo tra padre e figlio: il padre del protagonista che lasciando la madre lo ha spinto all’abbandono – sono anni che il protagonista rifiuta di vederlo – e il figlio di sette anni che si farà strumento di riconciliazione perché lui, l’unico nonno che gli resta, lo vuole conoscere.
Andrea Pomella ripudia l’idea di una scrittura terapeutica – e fa bene, la scrittura non cura, non è questo lo scopo della letteratura: anche quando nominare le cose serve a mettere ordine nel marasma della propria mente, non è scrivendo che si esce dal buco nero in cui si precipita quando l’assenza di senso toglie il fiato – ma cita più volte Giuseppe Berto e Il male oscuro, e la meta finale delle sue lunghe passeggiate romane è spesso quel vicolo curvo senza uscite alle pendici della Balduina dove viveva appunto Berto.
L’uomo che trema non vuole intraprendere un percorso di analisi anche quando a proporglielo è il giovane psichiatra che per la prima volta lo ascolta – «lui ascolta, annuisce, ma soprattutto scrive, scrive tantissimo, il che mi restituisce quasi un senso di accudimento, tutto ciò che non mi trasmetteva l’altro psichiatra» – ma non fa fatica ad ammettere che gli antidepressivi e gli ansiolitici non hanno effetto sull’autostima e «agiscono in superficie». E la quiete sembra tornare solo quando il protagonista, per amore del piccolo Mario, accetta di incontrare suo padre: «Mi sento come se avessi vissuto per anni in un vortice di vento, con le foglie morte che turbinavano incessantemente nell’aria, e come se ora, all’improvviso, il vento avesse cessato di soffiare». Dopo aver vissuto in un mondo illusorio in cui si è costruito l’idea di un padre inesistente, il protagonista, che non a caso cita il mito della caverna di Platone, si libera dalla catene e si lascia abbagliare dalla luce del sole: «Il mio male era legato alla visione».

La Stampa 28.9.18
L’histoire du soldat di Igor Stravinskij
Il Soldato credulone di Stravinskij vende l’anima ai dittatori del ’900
di Sandro Cappelletto


Visto che c’era la guerra, si sono chiesti: «Perché non la facciamo semplice? Perché non scriviamo un’opera che possa fare a meno di una grande sala, che comporti pochi strumenti e due o tre personaggi? Poiché non ci sono più teatri, riprenderemo la tradizione dei teatri ambulanti, da fiera, senza grandi spese». Losanna, 28 settembre 1918, debutta L’histoire du soldat di Igor Stravinskij. La guerra c’era anche in Svizzera: «Era il tempo della pasta di colore blu, il tempo in cui i borghesi, minacciati dalla fame, convertivano in fretta i loro cespugli di begonia in piantagioni di patate», racconta Charles-Ferdinand Ramuz, lo scrittore svizzero che di Stravinskij fu, in quell’occasione, il principale collaboratore.
Facciamola semplice, a cominciare dalla storia: protagonista è un soldato, un proletario che come milioni di altri soldati di allora torna al paese per una licenza di quindici giorni e sogna di riabbracciare fidanzata e mamma. Senza un soldo, stanco per aver troppo marciato, si ferma sulla riva di un ruscello, tira fuori il violino e comincia a suonare: appare un anziano signore con un retino per acchiappare farfalle: «Datemi il violino», dice al soldato. «No», è la risposta. «Vendetemelo». «No». «Scambiatelo con questo libro». «Non so leggere». «Non importa: non c’è bisogno di saper leggere per leggerlo...». Quel signore è il diavolo e, dopo vari parapiglia, il soldato sarà suo: la storia di conclude con la Marcia trionfale del diavolo. Mefistofele vince ancora.
Con Ramuz e Stravinskij, tre sono gli altri protagonisti: il pittore René Auberjonois, che realizza scene e costumi, il direttore d’orchestra Ernest Ansermet che dirige la prima esecuzione, il mecenate Werner Reinhart di Winterthur, dedicatario dell’opera: anche a farla «semplice», la musica comunque costa. Per questa «storia da leggere, recitare e danzare» il compositore russo sceglie soltanto sette strumenti: clarinetto e fagotto, cornetta a pistoni e trombone, violino e contrabbasso (il più acuto e il più grave di ognuna delle grandi famiglie in cui si dividono gli strumenti), più una batteria; poi, un Narratore, due attori per i ruoli del Soldato e del Diavolo, che deve anche ballare, come la Principessa: Stravinskij è stato, con Ciaikovskij, uno dei non molti compositori verso i quali il mondo della danza può esprimere la massima gratitudine.
La Principessa entra in scena nella seconda parte dell’Histoire: è una ragazza malata che il soldato, dopo aver recuperato il proprio violino battendo il diavolo in una partita a carte, riesce prima a guarire suonando, poi a sposare. Potrebbe finalmente essere felice, e ricco, ma sente la nostalgia di casa e decide di tornare al villaggio. Errore fatale: appena varca i confini del regno, incappa nel Diavolo che lo stava tranquillamente aspettando, per non lasciarlo più.
Se ci sono un Diavolo e una Principessa, significa che siamo entrati nel territorio della fiaba: il primo spunto della vicenda proviene da Il soldato disertore e il diavolo e Un soldato libera la principessa, due fiabe raccolte e pubblicate a metà Ottocento da Aleksandr Afanas’ev, studioso del folclore russo. Folclore che già aveva ispirato Stravinskij per il suo trittico fauve, selvaggio: Uccello di fuoco, Petruska, Rito della primavera (Sacre du printemps, nel titolo originale francese). Tre partiture e tre balletti che hanno segnato, nella storia della musica e del gusto medio del pubblico, un prima e un dopo.
Stravinskij attraversava un periodo duro. Aveva lasciato, ben prima della Rivoluzione d’Ottobre, la Russia per Parigi, poi, a causa della guerra, Parigi per la Svizzera; era stato colpito dal lutto per la morte del fratello, caduto sul fronte romeno, e stava affrontando problemi materiali: «A ogni costo dovevo assicurare un’esistenza tollerabile alla mia famiglia. La mia unica consolazione era di vedere che non ero il solo a soffrire a causa degli eventi», ricorda nelle Cronache della mia vita, prima di spiegare la scelta del soggetto della Storia di un soldato: «Sebbene questi racconti abbiano un carattere specificatamente russo per quel che concerne l’ambiente e le situazioni, i sentimenti espressi e la morale che se ne trae hanno un carattere così umano e universale che possono riferirsi a tutti i paesi».
Un carattere universale: Stravinskij, che non possiamo considerare un artista «impegnato», ed è sempre rimasto lontano - tranne che nella sua musica - da ogni pulsione rivoluzionaria, tantomeno bolscevica, coglie nel personaggio del reduce, che ha un passato ma non un futuro, il prototipo dell’uomo povero, disilluso, perdente, pronto a credere alle promesse che da lì a pochissimi anni consentiranno l’ascesa delle dittature nazionaliste e totalitarie. E a dannarsi. Il testo di Ramuz è scandito in una prosa fortemente ritmica, pensata per essere recitata ed esaltata da una musica immediata, elegante, spregiudicata nell’alternare tango, valzer e ragtime a elaborati passaggi in contrappunto, marcette a corali. Contaminazione, per lui, non significava banalizzazione. Il filosofo Theodor Adorno accusava Stravinskij di essere «cinico», di scrivere una musica disumanizzata nella sua oggettività. Nella Storia di un soldato, a ben guardare, vive, oltre la fiaba e la burla, una disperata umanità.

Repubblica 28.9.18
La vendita del settimanale
Belpietro rilancia la stampa sovranista "Compro Panorama"
di Concetto Vecchio


ROMA Dopo 56 anni la Mondadori è a un passo dal vendere il settimanale Panorama a Maurizio Belpietro, il direttore del quotidiano La Verità, che ora punta, come ha scritto ieri, «a raddoppiare le voci fuori dal coro». Il polo della stampa sovranista quindi si rafforza. Ieri era circolato il rumor che andrà a dirigerlo Gian Marco Chiocci, 54 anni, che si è appena dimesso dalla direzione del Tempo, il quotidiano romano edito dagli Angelucci, che ha diretto dal settembre 2013. Ma Chiocci, sentito da Repubblica, smentisce: «Ho altre due proposte, che non sono né di
Panorama né de La Verità ». «Se la Mondadori accetterà la nostra offerta, verrà rotta ulteriormente la cappa di conformismo che ci circonda», si dice convinto Belpietro, che probabilmente dirigerà anche il settimanale. Panorama, che ha 24 giornalisti, sconta la grave crisi dei newsmagazine e in edicola le vendite sono ormai lontane anni luce da quelle dei tempi d’oro: la disaffezione dei lettori ha quindi indotto la famiglia Berlusconi a disfarsene.
Panorama è un pezzo di storia del giornalismo italiano, specchio delle trasformazioni potenti avvenute nella società negli anni Settanta e Ottanta.
Una volta il sociologo Giampaolo Fabris raccontò di avere comprato l’intera collezione dei primi decenni, perché rappresentava un’enciclopedia dell’evoluzione del costume. «I fatti separati dalle opinioni», fu il mantra di Lamberto Sechi, quando assunse la direzione nel 1965.
Sechi, un direttore geniale che si era fatto le ossa nei settimanali femminili, aveva come modello il giornalismo di qualità americano, da Time a Newsweek.
La sua ricetta: pezzi limpidi, incipit secchi, attenzione maniacale al dettaglio, frasi corte. Fu la rottura di un metodo, paludato, e retorico, che aveva imperato sin dal dopoguerra nella nostra stampa e che segnò la fine dell’articolessa piena di svolazzi; fu imitato in ciò dall’Espresso, con cui duellava in edicola. Furono soprattutto i giovani usciti dalla contestazione del ‘68 a farne una bandiera laica, e molti di quei ragazzi trovarono posto in redazione, allergici alle verità ufficiali del potere, in un’Italia infestata da scandali, stragi e terrorismo. Sechi è stato anche l’inventore di un genere giornalistico che in seguito ebbe lunga fortuna, il retroscena, che fu affidato alla penna di Guido Quaranta. Era un modello che incarnava la modernità impetuosa di quel tempo così contraddittorio, ma mantenendo sempre uno sguardo fattuale. Infatti l’altro mantra di Sechi era «i giornalisti possono avere amici, Panorama non ne ha». Carlo Rognoni e Claudio Rinaldi proseguirono la lezione. Era un giornale gonfio di pagine, pubblicità e scoop.
Con Berlusconi al potere nel ‘94 cambia la linea editoriale, e avviene un riposizionamento politico. Ora inizia la terza vita, a riprova che l’egemonia culturale del sovranismo è sempre più marcata.
Direttore
Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, vuole comprare il settimanale Panorama

La Stampa 28.9.18
Entra nello studio e uccide il medico
Lo accusava di aver sbagliato una diagnosi
L’omicidio a Sanremo. La vittima è Gianni Palumbo, colpito da tre coltellate. L’assassino un ex commerciante
di Giulio Gavino e Lorenza Rapini


Ha squarciato la gola con una coltellata al medico legale che lo aveva in cura, forse convinto di una diagnosi o una perizia sbagliata. A cadere sotto i fendenti è stato il dottor Gianni Palumbo, 61 anni. Ha aperto la porta del suo studio in centro a Sanremo come sempre, senza timori. Ma ieri pomeriggio, poco dopo le 18, quella stanza si è trasformata d’improvviso in mattatoio. Lo conosceva, quel paziente, problematico forse, ma non poteva immaginare che l’avrebbe assassinato. Palumbo non ha avuto il tempo di reagire, di difendersi, chiedere aiuto. È stato raggiunto da tre coltellate in pochi istanti. Quella mortale alla gola, inferta dal basso in alto.
Il killer è fuggito ma in strada è stato intercettato da una pattuglia dei carabinieri appena avvisata del delitto dal 112. Aveva le mani sporche di sangue e il coltello ancora stretto nella mano. Non ha opposto resistenza. Ha ammesso l’omicidio. L’assassino è un ex commerciante di Ventimiglia, Vincenzo Mercurio, 54 anni, che qualche anno fa era già stato protagonista di un’aggressione a un medico, un oculista, cui imputava di avergli fatto un’errata diagnosi (si era presentato nell’ambulatorio dell’Asl e l’aveva colpito alla testa con la gamba di un comodino). Forse anche in questo caso c’era l’ossessione nei confronti di un errore del medico o una perizia medico legale a suo «svantaggio».
A dare l’allarme è stato un collega di Palumbo, unico testimone di quanto accaduto. Ma all’arrivo dell’ambulanza per il medico legale non c’era ormai più nulla da fare. L’assassino è stato portato nella caserma Villa Giulia per essere interrogato. Via Fratti, la strada in centro a Sanremo dove è avvenuto il delitto, è stata blindata. In campo gli uomini della stazione, il Nucleo Operativo e Investigativo dell’Arma coordinati dal capitano Boccucci e dal colonnello Burri. I rilievi sono proseguiti fino a notte fonda. Il movente? Secondo indiscrezioni una questione legata a una perizia medico legale per la quale Mercurio avrebbe avuto una sorta di ossessione. L’uomo non avrebbe avuto appuntamenti. Palumbo doveva lasciare lo studio intorno alle 18,30 per una visita. Ma l’omicida probabilmente conosceva gli orari del dottore. Lo scenario investigativo è quello di un omicidio premeditato. Non è escluso che la procura contesti all’arrestato anche le aggravanti dei futili motivi, della minorata difesa e dell’efferatezza. Ad occuparsi dell’inchiesta è il sostituto procuratore Luca Scorza Azzarà.
Gianni Palumbo era un medico legale molto stimato. Trattava centinaia di fascicoli ogni anno, come consulente tecnico dei più noti studi legali della Riviera Ligure e anche per la procura della Repubblica di Imperia. Gli investigatori stanno cercando di ricostruire le ultime ore di Mercurio prima del delitto. Vogliono capire cosa possa aver armato la sua mano, come sia arrivato a Sanremo, se abbia avuto un complice. Tra le ipotesi più accreditate c’è quella di un atto giudiziario notificato in mattinata che potrebbe aver scatenato il raptus omicida. Sotto esame ci sono le cartelle cliniche dei procedimenti penali ai quali Mercurio era stato sottoposto negli ultimi anni. Si cerca un punto di contatto tra l’assassino e il medico legale e per questo lo studio di via Fratti è stato perquisito fino a notte fonda. L’Ordine dei Medici e la Camera Penale hanno stigmatizzato l’accaduto. Le gocce di sangue sul marciapiede sono quello che resta di una serata di follia.

La Stampa 28.3.18
Morti sospette in clinica, riesumati sette cadaveri
di Antonio E. Piedimonte


Un’inchiesta che ha scosso il Salernitano: cinque medici indagati, sette cadaveri riesumati, altrettante cartelle mediche sequestrate e una nota clinica finita nel mirino della magistratura, che indaga sull’ipotesi di omicidio colposo. Secondo quanto emerso ieri, infatti, la Procura ha acceso i riflettori su una serie di strani decessi avvenuti dopo interventi chirurgici considerati di routine. A mettere in allarme i magistrati, qualche mese fa, era stata una segnalazione di morti sospette nella casa di cura.
Dopo un’ispezione dei carabinieri gli inquirenti hanno ritenuto di dover procedere e, in particolare, hanno scoperto che in molti casi tornava il nome di uno stesso medico. Inevitabile il passo successivo: i consulenti hanno eseguito le prime esumazioni in tre cimiteri, due in provincia di Salerno (Cava de’ Tirreni e Paestum) e uno nell’Avellinese (Caposele). Tra sessanta giorni si avrà una prima relazione dagli anatomopatologi scelti dai pubblici ministeri della procura salernitana Claudia D’Alitto e Elena Cosentino.
Sotto choc familiari e amici dei defunti che, oltre al dolore per la perdita, si trovano ora a fare i conti con il sospetto che non si sia trattato di ineluttabilità del fato (e dunque il loro caro avrebbe potuto salvarsi, magari se non fosse stato operato in quella struttura).
Per ovvi motivi di delicatezza e privacy l’intera vicenda è avvolta dal riserbo, sono tuttavia trapelati degli inquietanti riferimenti alle condizioni igienico-sanitarie della sala operatoria della clinica, che, se confermate, potrebbero essere state all’origine della strage di pazienti. Già in condizioni normali, infatti, il blocco operatorio è un ambiente ad alto rischio infettivo, dove si possono annidare agenti di vario tipo (infettivi, fisici, chimici, ergonomici). Si è trattato di mancato rispetto degli standard di sicurezza? Le altre ipotesi che riecheggiano nei corridoi trasmettono principalmente lo sconcerto generale: imperizia, incidenti, casualità, negligenza medica, e persino l’opera di un “angelo della morte”. La risposta, naturalmente, la daranno i medici legali.
La notizia dell’inchiesta arriva a poche ore da un’altra tragica vicenda avvenuta sempre nel Salernitano: la Procura di Vallo della Lucania ha aperto un fascicolo (e ordinato l’autopsia) per far luce sulla morte di Antonella Casale, 54 anni, sposata e madre di tre figli. La donna è deceduta dopo essere stata visitata e dimessa da tre ospedali, di Eboli, Agropoli e Vallo della Lucania.

Il Fatto 28.9.18
Strage di Erba, i fan di Rosa & Olindo contro i sopravvissuti
Nuova moda - Documentari e servizi tv sposano teorie innocentiste sui coniugi condannati e sollevano sospetti sulla famiglia Castagna
Strage di Erba, i fan di Rosa & Olindo contro i sopravvissuti
di Selvaggia Lucarelli


“Ma non ti vergogni ad andare in giro tranquillamente con due vecchietti innocenti in carcere?”. È con queste parole che pochi giorni fa Pietro Castagna è stato braccato per strada da un giornalista di quella nota trasmissione tv che da tempo ha deciso di sostituire con inviati incravattati i giudici dei tribunali. Pietro Castagna non è un mafioso che l’ha fatta franca. Era il fratello di Raffaella, moglie di Azouz Marzouk, uccisa nel 2006 a Erba con sua mamma Paola, il figlio Youssef di due anni e la sua vicina di casa Valeria da Rosa Bazzi e Olindo Romano.
Una strage entrata nell’immaginario collettivo e al centro di tre processi con identiche conclusioni: ergastolo. Rosa e Olindo, si legge nella sentenza di Cassazione, uccisero “mossi da odio e grettezza covati per lungo tempo”. È stato rigettato anche il ricorso della difesa a giugno. Eppure, nonostante 26 giudici in 12 anni abbiano ritenuta certa la colpevolezza dei due coniugi, la corrente innocentista non è mai stata così agguerrita. Con i social pronti all’indignazione a comando e l’orda di programmi a tema cronaca nera, riaprire mediaticamente casi archiviati e lavorare sulle suggestioni è facile.
Da qualche mese, l’esercizio del sospetto da bar è toccato alla famiglia Castagna. Ha iniziato La Nove, ad aprile, con un documentario dal titolo modesto, Tutta la verità, in cui si metteva in fila una serie di argomenti (ampiamente smontati in sede giudiziaria) che deciderebbero l’innocenza dei poveri Rosa e Olindo. Legittimo, se non fosse che il documentario non si limita a questo, ma getta una luce sinistra su Pietro Castagna. Istillare dubbi di colpevolezza su una persona che non è mai stata neppure indagata e che ha perso in quel modo barbaro madre, sorella e nipote sulla base di fuffa, è una schifezza da un punto di vista giornalistico e una barbarie dal punto di vista umano.
Cosa c’è contro di lui? Il documentario fa ascoltare un’intercettazione in cui, qualche giorno dopo la strage, Pietro scherza con un amico al telefono: “Tra un po’ daranno la colpa alla Franzoni!”. Come se il black humor fosse il marchio dell’assassino. “La vita va avanti anche dopo una tragedia, una battuta talvolta è un modo per sopravvivere. Ricordo che un giorno ero in ditta con tutti i miei collaboratori, sotto c’erano decine di fotografi. Mi chiesero cosa dovessero fare e io per scherzo dissi di scendere e dare loro i cataloghi dell’azienda. Questo fa di me un mostro?”, mi racconta Pietro.
Ma il mostro si crea anche buttando lì che abbia mentito. Quindi si sottolinea che tale Chencoum, tossicodipendente cliente di Azouz, dichiarò di aver visto un tizio con la barba rossiccia qualche giorno prima della strage parlare con due arabi proprio davanti alla corte. Lo stesso testimone poi sparisce nel nulla e un suo ex compagno di cella lo sconfesserà, ma questo il documentario si dimentica di dirlo.
Infine, il grave indizio contro Pietro è che in quei giorni lui usava la Panda della madre e poco dopo il delitto quella macchina “venne fatta sparire”. “La donammo a un istituto di suore, lo raccontai io al giornalista che la trovò. Mio padre soffriva nel vederla in cortile. Facemmo sparire da casa anche i giochi di Youssef, quando ci siamo accorti di aver lasciato un pannolino sulla finestra e invece quello ci sfuggì…”, mi dice Beppe in lacrime. E la casa della strage ebbe la stessa sorte, fu donata alla Caritas.
Perfino la fede di Carlo viene utilizzata biecamente nel documentario per buttare lì la tesi dei figli mostri e del papà complice. Tra i tanti possibili, viene infatti mostrato un filmato in cui l’uomo dice che perdona Olindo e Rosa e che quando si parla di perdono bisogna pensare anche ai genitori degli assassini. E capite quanto sia meschino associare tale frase a un servizio che getta delle ombre tremende sui suoi figli. Carlo Castagna morirà un mese dopo questo documentario colpito da una leucemia fulminante e il giorno stesso del suo funerale La vita in diretta manderà in onda un servizio in cui ancora una volta si buttano lì dei dubbi sui Castagna.
“Non siamo contrari per principio alle tesi innocentiste, ci chiediamo solo perché gettare fango su di noi. All’epoca siamo stati intercettati, hanno analizzato tutti i nostri conti, ci hanno interrogati, ma poi perché avremmo ucciso mamma, sorella, un nipotino di 2 anni?”. Già, il movente. Beppe e Pietro erano in rotta con la sorella per colpa di Azouz, non lo hanno mai negato. “A noi Azouz piaceva all’inizio, avevamo comprato anche gli abiti per il matrimonio. Poi abbiamo scoperto che era uno spacciatore e che era violento con Raffaella”, mi racconta Beppe. “Io per farla ragionare l’ho portata con me in vacanza in Martinica, al ritorno mi sono arrivati 4.500 euro di bolletta, lei mi prendeva il telefono per chiamarlo di nascosto, ho capito che non c’era nulla da fare”.
Raffaella aveva poi un’assicurazione sulla vita di 100.000 euro e aveva chiesto un anticipo di eredità al padre, dice il documentario. “All’epoca mio padre aveva 60 anni e mia madre 55, nessuno parlava di eredità. Raffaella per giunta aveva ricevuto la casa in cui viveva con Azouz in dono da mio padre e nessuno di noi si era mai opposto. Noi poi siamo sempre stati più che benestanti, 100.000 euro non cambiavano la vita a nessuno”.
Anche se fossero stati spietati assassini, non si capisce perché progettare lo sterminio di madre, sorella e nipote di due anni, anziché far fuori solo Azouz. Che tra le altre cose, solo dalla Cassazione in poi, è diventato improvvisamente innocentista. E che nel documentario si dichiara molto turbato dall’intercettazione di Pietro che fa una battuta sulla Franzoni.
Peccato che il documentario non ci abbia fatto ascoltare le intercettazioni in cui quei giorni Azouz diceva che era il periodo più bello della sua vita, che lo pagavano anche per fare sesso, faceva accordi economici con Fabrizio Corona che fu invitato da lui al funerale di Raffaella e Youssef in Tunisia. Il santo Azouz, che spacciava e uscì dal carcere grazie all’indulto e che è attualmente in Tunisia perché espulso dall’Italia. E che ha fatto causa ai Castagna perché vuole la metà del valore della casa della strage che i cattivi della storia, gli avidi Castagna, hanno donato alla Caritas.
“Nostra mamma ha fatto una vita orrenda negli anni che hanno preceduto la sua morte. Ricordo che una volta dovette andare al pronto soccorso a prendere il fratello di Azouz che era stato accoltellato. Mio padre ha accettato che Raffaella e Fefè fossero seppelliti in Tunisia come aveva voluto Azouz. L’ultima volta andammo nel 2009, lui aveva con sé la tela e il cavalletto e dipinse lì, sulle tombe. Era dura saperli lontani, ma un giorno mio figlio disse ‘il cielo è lo stesso’, aveva ragione lui”, racconta Beppe, sempre con le lacrime agli occhi. Pietro parla meno, è visibilmente provato, è il più aggredito da questa vicenda. “Oltre a farci male, questa gente non ha capito che noi per primi non ci saremmo mai accontentati di una mezza verità. Se qualcuno ritiene che non abbiano indagato abbastanza su di noi, che lo facciano, chiedeteci quello che volete. Ma se non avete prove, vi prego, lasciateci vivere in pace”. E dopo 12 anni, sarebbe ora.